24 dicembre 2010

Un caso di scuola

s. i. a.
Il successo della riforma Gelmini è un modello per il futuro del Cav. Riformare l’Università è un obiettivo che, con maggiore o minore determinazione, i governi italiani si propongono da quarant’anni. Non ci sono mai riusciti, se non per aspetti marginali, e l’effetto è stata la paralisi del principale meccanismo di promozione sociale e di ricambio delle classi dirigenti diffuse. Per questo il fatto stesso che una legge di riforma universitaria sia stata approvata è un fatto quasi storico. Mariastella Gelmini ha portato a termine un’operazione politica tra le più ardue e le è toccato concluderla in una fase particolarmente turbolenta della vita parlamentare, oltre che in un clima di agitazioni sostanzialmente minoritarie ma assai abili nel conquistare centralità mediatica. A suo favore hanno agito due fattori decisivi: la consapevolezza dello stato comatoso delle nostre istituzioni accademiche e, paradossalmente, i rischi derivanti dalla crisi economica internazionale, che hanno fatto capire che senza competitività e professionalità si può finire davvero male.
Queste circostanze, oltre all’ammirevole tenacia pragmatica della titolare del ministero, hanno indotto le principali espressioni della società e della politica a promuovere (o a non ostacolare) la riforma. Nonostante qualche esibizione di radicalismo parlamentare, e nonostante un certo snobismo diffuso in settori dell’opinione pubblica, nessuno si è opposto davvero, nel merito, all’iter della riforma. Nella gestione pratica della quale si potranno perfezionare i meccanismi, rispondere a esigenze non sufficientemente valutate, e su questo si apriranno confronti anche aspri. Però il dogma dell’immodificabilità di un mondo accademico autoreferenziale è definitivamente superato, e questo oggi è quel che conta.

«Il Foglio» del 23 dicembre 2010

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