26 gennaio 2011

L’Auschwitz del pensiero

Elie Wiesel: «Il pericolo è normalizzare l’Olocausto»
di Elie Wiesel
Non voglio scoraggiare nessuno, ma a volte credo che abbiamo perso la lotta per il ricordo. Questo non significa che dobbiamo smettere di lottare. Al contrario, dovremmo continuare a combattere. Il tempo però lavora contro di noi, come diceva Joachim Fest: il tempo è un alleato potente di coloro che parteggiano per la storicizzazione del nazismo. La gente non vuole più ricordare. Non può convivere con la verità e allora pensa di poter vivere contro di essa. Ma anche se siamo solo in pochi e se diventiamo sempre di meno, dovremo continuare a ricordare. Fra cento anni gli studenti scopriranno che ci furono alcuni che rimasero fedeli alla memoria. Questo è un motivo sufficiente per continuare a ricordare. Spiegare la singolarità di Auschwitz non è semplice.
L’argomento che più frequentemente si ripete è ancora valido: il popolo ebreo era ed è l’unico popolo destinato all’estinzione completa. Questo significa che un ebreo nell’Estremo Oriente o un ebreo a New York o in Norvegia era condannato a morte. Nessun altro popolo condivide questo destino tranne un popolo dell’antichità, gli Etruschi. Furono estinti e nessuno sa il perché. Un bel giorno i Romani decisero di ammazzare tutti gli Etruschi e questa decisione si trasformò in un fatto. Questa decisione fu tale che i Romani giunsero a distruggere completamente la cultura e la lingua etrusche. Un ulteriore motivo della singolarità di Auschwitz è che nessun popolo fu mai tanto solo quanto quello ebreo. Durante la guerra anche altri uomini furono eliminati dai tedeschi, non solo gli ebrei. Per tutti esistevano comitati di soccorso che sostenevano questa gente. I comunisti furono sostenuti da Mosca, altri da Washington o Londra, gli ebrei non ebbero alcun aiuto. Non ebbero nessuno alloro fianco.
Perfino dopo la guerra gli ebrei non avevano una patria dove poter andare. Quando un francese fu liberato dal campo di concentramento, poté ritornare a casa sua; addirittura i tedeschi, che erano nei lager, poterono farlo. Gli ebrei non sapevano dove andare. Se fossero tornati dove vivevano prima, sarebbero stati perseguitati anche dopo la guerra, e perfino uccisi. In Ungheria, per esempio, l’antisemitismo fu più forte dopo la guerra che non prima, poiché coloro che si erano impossessati delle proprietà degli ebrei scacciati non volevano restituire nulla a coloro che erano riusciti a tornare. Le vittime dovevano sopportare una pena doppia. Nonostante tutti questi argomenti 'razionali', ci deve essere di più, qualcosa di sconosciuto che rende tanto singolare la singolarità. Ci sono storici che vorrebbero far rientrare l’Olocausto nel corso generale della storia, vorrebbero «normalizzare» questo evento.
Fare questo è completamente assurdo. Un evento di questa portata non si può rimuovere. Se accadesse questo, tale evento riemergerebbe con una potenza indomabile. Finché la Germania evita consapevolmente il suo passato, sarà sempre in pericolo.
Quando una persona singola rimuove un avvenimento di un certo peso del suo passato, si ritroverà un giorno o sul lettino dello psichiatra o in un manicomio. E lo stesso può succedere a una comunità.
Anticipiamo in queste colonne due stralci delle riflessioni di Elie Wiesel e di Johann Baptist Metz raccolte nel volume Dove si arrende la notte. Un ebreo e un cristiano in dialogo dopo Auschwitz, in uscita nei prossimi giorni per Rubbettino (pagine 148, euro 13,00). Si tratta di due colloqui speculari fatti nel 1993 dai teologi Ekkehard Schuster e Reinhold Boschert Kimmig al teologo cattolico e allo scrittore ebreo. Nota nella sua introduzione la curatrice, Mariangela Caporale: «Nella riflessione di Wiesel e di Metz la parola del sapere si traduce nel primato della responsabilità per l’altro uomo, che, per entrambi, trasfigura il mondo secondo quelle promesse che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo ha consegnato alla speranza di ogni uomo».
«Nella storia solo due popoli sono stati destinati all’estinzione completa: noi e gli Etruschi»
«Avvenire» del 25 gennaio 2011

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