23 febbraio 2011

Islam secondo ragione

Dietro alle rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo non ci sono solo disagi sociali ed economici, ma anche una tradizione di pensiero: musulmano, sì, ma moderato e riformista. Ecco la mappa
di Giulio Albanese
La 'rivolta del pane' che sta at­traversando in questi giorni di­verse nazioni del mondo ara­bo dovrebbe rappresentare l’occa­sione opportuna per operare un sa­no discernimento su quelle che so­no state, in questi anni, le istanze del­la società civile nei Paesi della Mez­zaluna. Infatti, accanto ai movimenti di matrice salafita fautori della jihad ('la guerra santa') – quelli che han­no dominato la scena internaziona­le dopo il tragico 11 settembre del 2001, occupando peraltro quasi tut­to lo spazio mediatico –, esiste anche un’altra variegata corrente di pen­siero di matrice riformista che in­tende fare propri i valori della mo­dernità, con l’intento d’integrarli con la sana tradizione islamica. A diffe­renza però del salafismo, questo mo­vimento modernista finora non era stata capace di manifestare una ma­trice unitaria, rimanendo confinato nei circuiti della clandestinità o del­la semiclandestinità imposta dai va­ri regimi. Ecco perché quanto è av­venuto al Cairo, come anche a Tuni­si, per non parlare di altre nazioni in cui è in atto la rivolta, ha assunto u­na valenza epocale, avendo consen­tito a questa economia sommersa, fatta di menti straordinariamente in­novatrici, di emergere dai bassifon­di della Storia. Anche se al momento nessuno è in grado di fare previsioni sui futuri svi­luppi della situazione nel mondo a­rabo, ciò che sorprende è che in tutti questi anni, soprattutto a partire dalla tragedia delle Torri gemelle, nessun Paese occidentale abbia mai avuto il buon senso e la lungimiran­za di sostenere politicamente e fi­nanziariamente questa intellighen­zia islamica moderata. Tralasciando quelli che unanime­mente vengono considerati i padri del cosiddetto modernismo islamico, come il giurista ’Abd al-Raziq (1888-1966) o il critico letterario Taha Hussein ( 1889-1973), vi sono state molte voci che hanno rivelato il bisogno di un cambiamento.
Emblematico, ad esempio, è il pensiero di Sayyed al-Qi­manî, uno scrittore egiziano contemporaneo, che ha di­feso a denti stretti il raziona­lismo, affermando che esso è patrimonio della tradizione isla­mica, riferendosi non solo al pen­siero del filosofo Averroè, ma addi­rittura spiegando come un certo ti­po di analisi razionale delle situa­zioni fosse una delle caratteristiche proprie del profeta Maometto. La pa­rola del Corano, infatti, secondo al-Qimanî si storicizza incarnandola negli avvenimenti e non mantenen­dola in uno stato di astrazione e ri­petitività come fanno i salafiti.
Un altro intellettuale che ha invoca­to il rinnovamento è stato il suo con­nazionale Khalîl ’Abd al-Karîm , che ha presentato la propria lettura sto­rica, basata direttamente sulle fonti storiche dell’islam, come alternati­va alla visione fondamentalista de­gli estremisti. E cosa dire di dell’in­tellettuale tunisino Mohammed Talbî , considerato uno dei pensato­ri critici più ragguardevoli del mon­do arabo? Denunciando gli studiosi religiosi islamici tradizionali egli ha sostenuto con forza la necessità di una lettura contemporanea del Co­rano, ricordando, quasi provocato­riamente che «quando si rompono le penne, non rimangono che i coltel­li ». Avvincente è anche il pensiero di Mohammed Arkoun, scomparso pochi mesi fa e considerato uno dei padri del dialogo interreligioso. Pro­fessore emerito di Storia del pensie­ro islamico alla Sorbona di Parigi, Arkoun ebbe il merito di evidenzia­re le tensioni e le inquietudini pre­senti nel mondo arabo. Di naziona­lità algerina, egli è passato alla sto­ria come strenuo difensore del mo­dernismo e dell’umanesimo islami­co.
Per non parlare di personaggi del calibro del premio Nobel per la Letteratura, l’egiziano Nagîb Mahfûz, morto nel 2006 alla veneranda età di novantaquattro an­ni. Fautore di una religione tolleran­te e progressista, in aperto contrasto con le tendenze estremiste che in­neggiano all’odio contro l’Occiden­te, aveva compreso che la missione dello scrittore consiste anzitutto e soprattutto nell’essere coscienza cri­tica del popolo a cui appartiene.
Ciò che colpisce di più leggendo le sue opere è il sano realismo che lo porta al superamento di ogni fana­tismo ideologico e religioso. Si con­siderava un portavoce del 'Terzo Mondo' e auspicava – sono sue te­stuali parole – «una pulizia morale» della società contemporanea, nella consapevolezza che, nell’eterna lot­ta tra il bene e il male, il bene avreb­be comunque prevalso. Mahfûz si opponeva dunque alla dottrina del­lo scontro delle civiltà, aborrendo le ideologie astratte e tifando per l’uo­mo della strada all’insegna della tol­leranza.
Un’altra figura straordinaria è quella di Mahmoûd Mohammed Taha, giustizia­to dal presidente sudanese Ja’far al-Nimeyri il 18 gennaio 1985. Il suo e­ra un nuovo modo di rileggere il Co­rano che portava alla netta separa­zione tra la dimensione religiosa del­la rivelazione coranica, universal­mente valida ed immutabile, e quel­la politica, legata alle situazioni sto­riche e dunque mutevole. Taha pro­poneva pertanto la riconciliazione dell’islam con la libertà di religione, con i diritti umani e l’uguaglianza dei sessi. Per questa sua visione di grande apertura e dialogo fu impic­cato a Khartoum come apostata. Ma non è tutto qui. Circa una cinquan­tina di anni fa, il padre del riformi­smo islamico iraniano, Ali Shari’ati, diceva che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se guar­diamo alla storia europea di quel tempo, scopriremo che per il Vec­chio continente non era ancora ini­ziato alcun processo di moderniz­zazione. Secondo Shari’ati, per su­perare il Medioevo i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pa­ri cinque, sei secoli, arrivando di get­to alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam – scriveva – ren­dendolo il volano di liberazione del­le nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medioevo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale». Le parole e la vita di Sha­ri’ati, morto ufficialmente per arre­sto cardiaco a Londra nel giugno del 1977 – anche se sono in molti a rite­nere che sia stato eliminato dalla po­lizia segreta dell’allora scià di Persia –, indicano chiaramente il percorso che occorre seguire.
In questi anni i Paesi occidentali hanno fatto o poco o niente per far conoscere al mondo queste voci che ogni intellettuale onesto, ogni poli­tico che si rispetti e ogni giornalista competente dovrebbero diffondere per il bene e il progresso del mondo arabo. Lungi da ogni retorica, uomi­ni come l’iraniano Akbar Ganji, gior­nalista simbolo della dissidenza al regime degli ayatollah, fanno dav­vero riflettere. A causa dei suoi arti­coli, e della partecipazione a una conferenza sul futuro dell’Iran te­nutasi a Berlino – dove, secondo il regime iraniano, si era fatta «propaganda anti-islamica» – Ganji viene incarcerato dal 2001 al 2006 nella severissima prigione di Evin.
È in questo periodo che trova la forza di scrivere, nonostante i patimenti inflitti dai suoi car­cerieri, un manifesto politico in cui propugna il boicottaggio delle elezioni presidenziali per sostituire la teocrazia dominante con un gover­no democratico e laico. Nel 2010 ha vinto il premio 'Milton Friedman', assegnato dal Cato Institute «per a­vere dato un contributo significati­vo all’avanzamento verso la libertà». Ci sono naturalmente molte altre vo­ci riformiste nel mondo islamico. Ba­sti ricordare lo scrittore egiziano Fa­raj Fôda , che a lungo ha lottato per la laicità dello Stato e per la separa­zione tra religione e politica, e che venne assassinato dagli estremisti nel 1992.
Una cosa è certa: quanto sta avve­nendo trasversalmente nel mondo arabo è sintomatico del malessere indotto dall’integralismo islamico. A questo riguardo è illumi­nante il pensiero di Ab­delwahab Meddeb , nato a Tunisi e professore di lette­ratura comparata all’Uni­versità di Parigi X-Nanterre. Meddeb, con grande perspi­cacia, analizza le contraddi­zioni e i limiti del’islam sala­fita e, in particolare, le ragio­ni del latente scontro di ci­viltà con l’Occidente. Nella sua ultima fatica letteraria, intitolata La malattia dell’i­slam, denuncia l’ottusità dei fondamentalisti che guarda­no all’Occidente come alla causa di tutti i mali. E qui ha davve­ro ragioni da vendere a bizzeffe: per esempio, l’islam predicato dai fau­tori della jihad deve smetterla di au­to commiserarsi, perché i suoi falli­menti sociali, a dispetto della predi­cazione delirante di certi imam, so­no in gran parte una sua responsa­bilità. Non resta dunque che spera­re nel cambiamento, augurandosi u­na maggiore coerenza dall’Occiden­te, paladino della democrazia. Che esso non ceda ancora una volta a quella che Martin Luther King defi­niva la peccaminosa tentazione del «silenzio degli onesti».
«Avvenire» del 23 febbraio 2011

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