11 marzo 2011

Analisi dell’ultima pagina di Uno, nessuno e centomila (Baldi)

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di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo (vol. 3/2 – Svevo e Pirandello. Edizione modulare, pp. 169-170)
Vitangelo Moscarda e Mattia Pascal. La conclusione di Uno, nessuno e centomila è l'approdo estremo della parabola iniziata con il Fu Mattia Pascal: vi tocca cioè il punto più alto la critica dell'identità, che è uno dei filoni centrali dell'opera pirandelliana. Mattia Pascal, come si ricorderà, dopo aver commesso due fondamentali errori, essersi dato una nuova identità fittizia dopo la liberazione dalla «trappola», ed aver poi cercato di rientrare nella vecchia identità abbandonata, assumeva coscienza dell'impossibilità dell'identità individuale, però si arrestava alla pars destruens, al momento negativo, si limitava ad affermare: «Io non saprei proprio dire ch'io mi sia». Distruggeva l'identità, ma non proponeva un'alternativa. Restava cioè in una fase di transizione, interlocutoria. Tale era anche la sua condizione esistenziale, sospesa in un vuoto assoluto, priva di contatti con la realtà. La condizione puramente negativa era testimoniata anche dal suo rapporto col nome: l'eroe, non avendo alternative da proporre, restava ancora legato al suo nome, sia pure solo come termine di riferimento negativo, preceduto da quella sorta di segno "meno" che era la particella «fu»: «Io sono il fu Mattia Pascal».
L'eroe di Uno, nessuno e centomila va più a fondo nelle sue scelte, vede in definitiva più chiaro. Non si limita a confessare di non sapere chi sia, ma afferma deliberatamente di non voler più essere nessuno, di rifiutare totalmente ogni identità individuale. Rifiuta cioè di chiudersi in qualsiasi forma parziale e convenzionale e accetta di sprofondare nel fluire mutevole della «vita», morendo e rinascendo in ogni attimo, identificandosi con le presenze esterne occasionali, senza poter più dire «io». Per questo arriva a negare anche il proprio nome, che è il segno che sancisce il rapprendersi della «vita» nell'individualità singola («Nessun nome», «non sa di nomi, la vita»). Il nome non è nemmeno più preceduto da un segno "meno", scompare del tutto. Irrigidirsi in una «forma» significa morire (come già sosteneva l'io monologante della novella La trappola), e Moscarda sceglie di vivere, fondendosi nella totalità della «vita».
Questo vivere di attimo in attimo, in una perenne mutazione, è una condizione esaltante, gioiosa. Se la conclusione del Fu Mattia Pascal era solo negativa, interlocutoria, Uno, nessuno e centomila propone un messaggio che vuol essere positivo, esemplare, un programmatico insegnamento di vita. È un'alternativa radicale alle finzioni della commedia sociale. L'eroe se n'è totalmente liberato. Anche eroi come Mattia Pascal e Serafino Gubbio erano estraniati dalla realtà sociale, ma restavano pur sempre a contemplarla da lontano, con superiore consapevolezza dei meccanismi del «giuoco». Moscarda realizza al massimo grado l'estraniazione, poiché nessun legame lo unisce più alla società. Afferma con decisione: «La città è lontana», e la città è proprio il luogo per eccellenza del vivere sociale. Invece della società, Moscarda sceglie la fusione con la natura.

Un approdo irrazionalistico. Si profilano, in questa conclusione del romanzo, scelte radicalmente irrazionalistiche, pervase di vitalismo. C'è qualcosa di mistico in questo annullarsi dell'io individuale nel fluire della vita universale. Renato Barilli, a tal proposito, ha parlato di «misticismo laico-mondano». Mentre nel Fu Mattia Pascal e nel resto dell'opera pirandelliana non c'era comunicazione tra l'uomo e la natura e questa restava un'entità estranea e indifferente, qui, in un ricupero di posizioni romantico-decadenti, tra uomo e natura si crea un'identificazione profonda («Quest'albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola»). La distanza dalle opere precedenti si avverte anche nello stile: non troviamo più la prosa asciutta e secca dell'«umorismo», ma un'accensione lirica che tende ai toni alti e ispirati, al sublime. Per certi aspetti questa fusione con la natura può far pensare al panismo dannunziano di Alcyone: ed in effetti è ravvisabile nei due scrittori una comune matrice nell'irrazionalismo decadente. Con una differenza, però: la fusione panica per D'Annunzio è un'esperienza eccezionale, che può esser propria solo del «superuomo», mentre per Pirandello è per così dire "democratica", è proposta come modello per ogni uomo che sappia rompere il meccanismo delle convenzioni sociali ed estraniarsi da esse; non solo, ma la teoria del «superuomo» in D'Annunzio è finalizzata a forme di dominio autoritario di un'élite sul corpo sociale, mentre l'irrazionalismo di Pirandello è del tutto anarchico, conduce ad una critica distruttiva di ogni compagine sociale. Questo approdo vitalistico e irrazionalistico di Uno, nessuno e centomila, con l'esaltazione mistica della natura in opposizione alla società, fa presentire sin dal 1926 l'ultima stagione della creatività pirandelliana, quella dei «miti».
Postato l'11 marzo 2011

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