11 marzo 2011

E. Gioanola, La divisione dell’io nel Fu Mattia Pascal

Brano tratto dal volume Pirandello, la follia, Il Melangolo, Genova 1983, pp. 96-99
di Elio Gioanola
■ Diamo un esempio di lettura del romanzo, ancora da un'altra angolatura metodologica, questa volta di tipo psicologico. Il critico usa le categorie proposte da un importante libro dello psichiatra Ronald Laing, L'io diviso, che studia da prospettive originali i fenomeni della schizofrenia. Partendo da un giudizio di Giacomo Debenedetti, secondo cui Mattia Pascal si libera di una realtà falsa, ma non riesce poi a costruirsi una nuova realtà finalmente autentica, Gioanola obietta che in una condizione schizoide, quale è quella del personaggio (una condizione che affascina ed ossessiona Pirandello lungo tutta la sua opera, come il critico vuoi dimostrare nel suo volume), fuori dell'identità falsa c'è il nulla, il vuoto, la cui prospettiva suscita terrore e angoscia. Lo schizofrenico si crea un sistema di «falsi io", di maschere, per «gli altri», ma l'«io vero» non esiste, è il vuoto. E questo che sperimenta appunto Mattia. Liberato da tutti i rapporti sociali grazie alla sua vincita al gioco e alla sua presunta morte, cioè liberatosi dei «falsi io» imposti dal rapporto con gli altri, sente disperatamente il vuoto, che porta alla follia e alla morte, per cui è costretto precipitosamente a crearsi un'altra identità fittizia. I viaggi danno al vuoto una parvenza di vita, ma la stagione felice è breve, la libertà subito rivela il suo senso di «vuoto». Mattia Pascal è ridotto solo a «sguardo», e grava in lui l'orrore del nulla. ■

I giudizi critici di Debenedetti permettono, nell'assurdo della loro prospettiva «umanistica», di riprendere in pieno l'ipotesi della divisione schizoide dell'io, verificandola sul comportamento del personaggio. Il Mattia che decide di non essere più Mattia, morto nella gora, realizza nei termini della probabilità realistica una compiuta operazione di doppio: Adriano Mais è prodotto di una scissione, non di una trasformazione e per questo è compiutamente un «altro» pur rimanendo il medesimo. Non ci può essere passaggio dal «falso» al «vero», come vorrebbe Debenedetti, perché nella condizione schizoide fuori del «falso» c'è il nulla: un io che abbandoni «le condizioni di un vivere convenzionale, nelle regole sociali e sentimentali ciecamente e pigramente accettate», quelle appunto che formano il sistema della «falsità» (detta anche alienazione), non compie un viaggio verso l'autenticità, ma verso la desolazione del nulla. E questa la prospettiva offerta da Laing ne L'io diviso', come si vedrà meglio nel capitolo seguente: «Niente di quello che voi vedete sono io», pensa chi è coinvolto nella divisione schizoide, «ma egli può essere qualcuno soltanto in quello che vediamo noi: e se quello che vediamo noi, le sue azioni, non sono il suo vero io, allora egli è irreale dawero; è qualcosa di ambiguo e del tutto simbolico, una persona puramente virtuale, potenziale, immaginaria, un uomo mitico, in realtà un niente» [...]. Mattia può pensare di aver lasciato il peggio di sé, le «forme» che lo imprigionavano, persino il proprio corpo, ma I'«essenza» in cui si trova ad essere, in che cosa consiste? E, questa essenza, il suo io vero? Ma le essenze sono volatili, puro spirito e «esistere senza un corpo si paga col non essere» [...].
La divisione schizoide separa proprio il sistema dei «falsi io», come dice Laing, e il sistema dell'«io vero»: da un lato le «forme» della vita associata, dall'altro lo spazio puro della possibilità: quando l'io adotta una forma, sa che quella forma non è lui, e la vive quindi come una maschera, quando la rifiuta, abbandona con essa anche i rapporti che lo costituiscono, va verso il «vero io» ma nei modi dell'assenza, della chiusura autistica verso il mondo, del «mentale» puro, del vuoto.
Quali sono le prime reazioni di Mattia balzato giù dal treno, dopo la notizia
del proprio suicidio? «Mi voltai a guardare il binario deserto, che si snodava lucido per un tratto nella notte silenziosa, e mi sentii come smarrito nel vuoto [...] La violenta impressione ricevuta alla lettura di quella notizia che mi riguardava così da vicino mi si ridestava in quella nera, ignota solitudine, e mi sentivo, allora, per un attimo, nel vuoto, come poc'anzi alla vista del binario deserto; mi sentivo paurosamente sciolto dalla vita, sperduto, in attesa di vivere oltre la morte» [...]. Si ricorderanno le parole de L'umorismo che abbiamo citato per disteso, nelle quali si denunciava la condizione, «in certi momenti di silenzio interiore», di paura di fronte all'abisso del nulla spalancato al di là della «compagine dell'esistenza quotidiana»: ebbene, la parola tematica del brano era appunto «vuoto» («il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano...»): l'affacciarsi a quel vuoto comportava un'alternativa senza scampo, «morire o impazzire». Mattia, solo nella notte in una sperduta stazioncina (topos ambientale ricorrentissimo in Pirandello), prova appunto questo angoscioso senso del vuoto, che è l'esatto corrispettivo della condizione di colui che ha deciso di abbandonare i rapporti che lo costituivano in una certa identità. Prima di abbandonarsi all'ebbrezza, precaria, della libertà, Mania passa attraverso un «attimo» di smarrimento assoluto: lo spazio che gli si spalanca davanti, simbolizzato dal buio notturno, è sconfinato come il nulla, permette qualsiasi movimento, ma non porta da nessuna parte. Abbandonare i rapporti, sentiti come insopportabilmente alienanti (lo «schifo di vivere a quel modo»), significa fuggire per la tangente alla vita verso il gelo siderale. Per questo Mattia deve al più presto darsi un'altra identità, anche se da tessera di riconoscimento. Altro che andare alla ricerca dell'«autenticità», di chissà quale «uomo nuovo»: anziché arrivare alla «disponibilità perfetta», come vuole Debenedetti, è arrivato al vuoto assoluto, che porta senza scelte alla follia o alla morte. Lo sdoppiamento in un altro se stesso è la più urgente delle difese.
«Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno un nome, bisogna che me lo dia subito» [...] Ecco appunto: la perdita di sé e il bisogno di recuperarsi attraverso un nome. Ma non basta, col nome ci vuole anche un abito per istituire la nuova identità: è evidente che in un simile sistema l'abito fa il monaco, come sempre del resto in Pirandello. Il sarto-barbiere che «svisa» Mattia-Adriano compie ben più che un travestimento: edifica un'altra persona, tanto che lo specchio rivela al protagonista un volto sconosciuto: «Toccandomi la faccia e scoprendomela sbarbata, passandomi una mano su quei capelli lunghi o rassettandomi gli occhiali sul naso, provavo una strana impressione: mi pareva quasi di non essere più io, di non toccare me stesso».
L'esordio di Adriano è all'insegna della gioia, perché la libertà sconfinata che gli si apre dinnanzi ha il sapore esaltante della liberazione dai vincoli affliggenti che hanno deciso Mattia a non essere più. I viaggi, le cose viste, i continui spostamenti tengono il posto dei rapporti perduti e danno al «vuoto» una parvenza di vita: «La mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato dalla moglie, dalla suocera, dai debiti, dalle afflizioni umilianti della mia prima vita» [...]. Ma la liberazione da... è, in assoluto, perdita di contatto col mondo: a differenza di quelli che sono soli per interruzione «storica» dei rapporti, ma che possono rientrarvi, Adriano «a volerla dire, sarà sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita» [...]. Breve dunque è la stagione felice di Adriano Meis, la cui libertà è subito in procinto di rivelare il suo senso vero di «vuoto»: «Nella mia libertà sconfinata, mi riusciva difficile cominciare a vivere in qualche modo» [...].
Non per nulla l'agitazione di Adriano viaggiatore si presenta come l'esatto contrario dell'azione: l'eterno movimento è l'identico della stasi perché non conduce in alcun luogo: il forestiero non viene da una patria, nemmeno da quella minima del se stesso. Tutto si riduce allo «sguardo» e la vita si fa integralmente «spettacolo»; «Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolio di gente» [...]. Ormai a Roma, dalla finestra affacciata sul Tevere, Adriano pensa: «— Libero! — dicevo ancora; ma già cominciavo a penetrare il senso e a misurare i confini di questa mia libertà. Ecco: essa, per esempio, voleva dire starmene lì, di sera, affacciato a un finestra, a guardare...» [...]. Adriano, ridotto a «sguardo», realizza compiutamente la vocazione di Mattia alla «filosofia», a quel tipo cioè di saggezza che presuppone l'abolizione della vita (philosophari, idest non vivere, si è detto): «Ero dunque sul punto di diventare sul serio un filosofo?» [...]. Non per nulla torna l'horror vacui, accompagnato dalla coazione a riflettere: «Ogni minimo che — sospeso come già da un pezzo mi sentivo in un vuoto strano — mi faceva ora cadere in lunghe riflessioni».
Postato l'11 marzo 2011

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