16 marzo 2011

Il guitto Fo, Nobel di inciviltà. Gaglioffate del tribuno anti Cav

Persa la vena artistica ha sostituito il palcoscenico coi palchi anti Cav e dà dello "scemo" al premier. Ex repubblichino diventato comunista, è campione di incoerenza. La Rame lo accusò in tv di tradirla, chiedendo il divorzio in diretta
di Giancarlo Perna
L’opposizione, a corto di idee, lascia ai guitti del suo vivaio il compito di rappresentarla. Il più disponibile alla supplenza è il frusto Dario Fo. L’arzillo ottantacinquenne, premio Nobel per caso, ha una mostruosa quantità di tempo libero. Artisticamente parlando, ha tirato i remi in barca. Va in scena col contagocce e non inventa più nulla. Però, per non sparire, ha sostituito il palcoscenico con le piazze antiberlusconiane. Frequenta girotondi, circoli anarchici, gruppi movimentisti per recitare filastrocche ribelli e brani irridenti del Fo che fu.
Giorni fa ha arringato la folla a Milano per il Costituzione-day, nobile nome usurpato per inscenare l'abituale adunanza fescennina anti Cav. L’uscita di Fo più apprezzata dal colto pubblico è stata: «Berlusconi è scemo», opinione che solo un Nobel per la Letteratura poteva esprimere con tanta arguzia. Poi, sfruttando a fondo il successo, come fa il norcino col suino, ha ribadito ieri i concetti su il Fatto, quotidiano a sua misura. Ha precisato che Berlusca è «scemo» nel senso che è «fuori di testa al livello di scemenza» e che fa delle «truffalderie da taverna». L’ultima, ha spiegato con garbo, è quel «ca..zo d’invenzione del cerottone messo per fare scena». Poi è passato alla Gelmini «serva dei ricchi» e alla riforma della Giustizia: «Una bidonata tremenda». Tutte riflessioni non solo nobelianamente espresse ma che danno un decisivo contributo al dibattito: quello sul livello mentale dell’intellighenzia di sinistra. La polpa però sta nel seguito dell’intervista. Rievocando il C-day, Fo -in un ideale paragone con Bersani & co.- esalta se stesso. Finché hanno parlato i soliti noti del Pd -racconta- «la gente non aveva avuto reazione». Poi, «ho parlato io e l’ho buttata in sollazzo» e giù tutti a ridere e partecipare. Ossia: io sì che so entusiasmare. In pratica, una patente di imbecillità ai papaveri del Pd e un’auto candidatura alla guida della sinistra ammosciata. Con quale programma? Il casino permanente. Testuale: «Il Sessantotto. Che fantasia, che creatività! Spero che si possa arrivare a un altro momento del genere. Non bisogna fermarsi. Continuiamo questo Carnevale». Col fine - sottinteso - di cacciare il Cav. Cioè, un ottantacinquenne attaccato con i denti alla breccia che ingiunge al settantaquattrenne di lasciare la sua. È il proverbiale bue che se la prende con l’asino.
Fo è così: inesorabile con gli altri, morbido con sé. Si impanca, fa la predica, si considera integerrimo. Si vanta della sua coerenza umana e politica e ha rilasciato fiumi di interviste sulle nozze esemplari con l'attrice, Franca Rame. Questa orgia di okay su quanto li riguarda, è il vizio degli smemorati.
Dario è sempre stato prono al capo di turno. Nella Repubblica di Salò alleata dei nazisti, fu con Mussolini e si arruolò come paracadutista. Aveva 18 anni e si poteva perdonargli qualsiasi cosa. Invece, quando nel dopoguerra il fatto fu riesumato, era già comunista e negò tutto. Querelò giornalisti e giornali che accennavano alla «macchia», mentendo a tutto spiano, finché fu inchiodato da un tribunale con questa sentenza: «È certo che Dario Fo ha vestito la divisa di paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate... anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell'infiltrato pronto al doppio gioco». Dopo che, spogliati i panni del fascista, passò al comunismo, cominciò a prendersela con quelli che facevano l’inverso, lasciando la sinistra per nausea. Forte della sua limpida coscienza ha accusato di «tripli giochi e salti della quaglia» Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Sandro Bondi, ecc., senza essere mai frenato dal pudore. Tipico dei caporali ideologici.
Vi do altri esempi di com’è accomodante con se stesso. Nel 2006, si discuteva in Parlamento se proseguire la missione in Afghanistan. Fo era contro l’impegno militare e lo disse in tutte le salse: a teatro, in piazza, sotto la doccia. Ma quando la moglie Franca, allora senatrice dell’Idv di Di Pietro, votò per la missione seguendo l’ordine di scuderia, Dario cominciò a zufolare, prese un’arietta distratta e dimenticò l’argomento. Anche le consorti sono piezz ’e core.
Nello stesso anno, scaduto il mandato di Gabriele Albertini, era cominciata la corsa per il nuovo sindaco di Milano. Fo si candidò con una lista propria a sinistra della sinistra, «Dario Fo per Milano». Nella fase iniziale sbeffeggiò il prefetto Ferrante candidato ufficiale dei cattocomunisti, trattandolo da pistola. Poi, richiamato all’ordine da Bertinotti o altri così, si allineò alla disciplina rossa, appoggiando il prefetto. Ma, per sbiadire la resa, lo fece da paravento: «Noi siamo per Ferrante. Siamo fanatici di Ferrante. Gli romperemo i coglioni, ma lo sosterremo». Era già Nobel per la Letteratura, di qui la prosa vivace.
A un certo punto, superata la sessantina cominciò a correre la cavallina mandando per qualche tempo a farsi friggere il matrimonio d'amore con la Rame. C’è una velata somiglianza con il Cav, nonostante Dario si consideri di altra pasta. Stufa dell'andazzo, Franca lanciò via intervista un primo avvertimento nel lessico di famiglia: «Quando un uomo è importante, le ragazze se le ritrova a letto già col bidet fatto». Fo continuò trasgredire e allora Franca tradì a sua volta e lo fece sapere. Poi passò al contrattacco e a Domenica in dichiarò in diretta: «Divorzio da Dario». Raffaella Carrà, sull’orlo dello svenimento, sussurrò: «Ma lui è al corrente?». «Adesso lo sa», rispose l’altra gelida.
Nel curriculum di Fo c’è anche una vera gaglioffata. Dopo la morte dell'anarchico Pinelli aizzò una campagna di odio contro Luigi Calabresi. Sosteneva che il commissario avesse ucciso l’anarchico spingendolo dalla finestra della Questura milanese. Non si limitò -come Eco, Colombo (Furio) e altri cicisbei della penna- a firmare manifesti incendiari contro il «commissario torturatore», ma scrisse una commedia ultracolpevolista, Morte accidentale di un anarchico. Accreditava così la menzogna della defenestrazione dolosa, fomentando il clima di livore. Morte accidentale è del 1971; nel maggio ’72, Calabresi fu ucciso dai mazzieri di Lotta continua, nella stessa Milano in cui Dario recitava il suo testo bugiardo. Non risulta che, successivamente, il Nobel abbia avuto parole di scusa, né di umana pietà. Ma dove trova ancora lo stomaco di aprire bocca?
«Il Giornale» del 16 marzo 2011

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