30 aprile 2011

Un altro Risorgimento ...

ALLUCE


Pierluigi Baima Bollone, citando A. M. Di Nola, riporta un’abitudine di Vittorio Emanuele II: lasciava crescere l’unghia dell’alluce per un intero anno, poi la tagliava e la affidava al suo orafo «affinché le incastonasse in oro e diamanti, per poi farne dono alle sue amanti». Di tali gioielli se ne contano una quindicina. La domanda è: che scarpe portava, il re, in simili circostanze? (cfr. Esoterismo e personaggi dell’Unità d’Italia, Priuli & Verlucca, p. 264).
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MAZZINI


«Dalla qualità delle azioni compiute dall’uomo sulla terra come anche nelle altre esistenze, dipendono le condizioni dell’esistenza seguente e quanto meglio avremo agito tanto più presto si compirà il nostro pellegrinaggio». Cavo questa citazione di Mazzini dal libro di Pierluigi Baima Bollone Esoterismo e personaggi dell’Unità d’Italia (Priuli & Verlucca, p. 225). Si tratta di una chiara affermazione del «karma», la forza trascendente che condiziona il «samsara», cioè la catena delle reincarnazioni che si concluderà nel «nirvana». Se si compiono delle cattive azioni, ci si reincarna in un essere inferiore (una donna, un animale…). Se si agisce diversamente, si sale di grado e si accorcia la catena, così che si possa, al più presto, chiudere il ciclo e rientrare nel Nulla. Mazzini, comunque, non era buddista né induista. La sua Religione dell’Umanità Progressiva era un mix piuttosto confuso di tutte le religioni e credenze, spiritismo compreso.


dal sito http://www.rinocammilleri.com/ del 28 e 30 aprile 2011

29 aprile 2011

Vi racconto chi sono i sultani rossi della tv

Nel saggio sull’informazione del grande giornalista, un capitolo devastante sui conduttori-divi dei talk targati Rai (e dintorni). Da Santoro alla Dandini, da Gruber a Lerner, dalla Annunziata a Floris, Pansa ne ha per tutti

di Giampaolo Pansa

Esce il 4 maggio Carta straccia. Il po­tere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, pagg. 412, euro 19,90) di Giampaolo Pansa. Un ritratto impie­toso del mondo dell’informazione, dalla carta stampata alla televisio­ne. I giornali, nessuno escluso, sono sempre più faziosi. Eppure c’è chi non vuole ammetterlo e si presenta come immune da ogni partigiane­ria. È il caso di testate come la Re­pubblica, L’espresso e, talvolta, del Corriere della Sera. Spesso, dietro alla millantata obiettività si cela l’os­sessione anti-Cavaliere, la volontà di distruggerlo con ogni mezzo, in­cluse le inchieste scandalistiche sul­la vita privata (cinicamente tirate fuori per motivi di tirature: il gossip «politico» ha risollevato le vendite di Repubblica). Storia personale (Pansa è uno dei più grandi giornali­sti italiani) e pubblica si intrecciano in un affresco accurato. Non manca­no parti esilaranti, come l’incredibi­le rassegna delle smentite pubblica­te dai quotidiani colti in castagna. Per gentile concessione dell’auto­re, presentiamo, in queste pagine, due stralci dal libro, il primo dedica­to ai telepredicatori di sinistra, il se­condo a Carlo De Benedetti, editore di Repubblica ed Espresso, giornali nei quali Pansa ha lavorato per mol­ti anni, ricoprendo cariche impor­tantissime



Santoro si era sempre fatto notare per lo stile e le qualità del leader politico. Per comincia­re, risultava il più anzia­no dei sultani rossi. Nel luglio 2011 quella parte d’Ita­lia che lo ama festeggerà a dovere il suo sessantesimo complean­no. Poi era il televisionista rosso di più lunga durata. Stava sugli al­tari dal 1987, quando aveva 36 an­ni e ancora esisteva la Prima re­pubblica. Il successo iniziale fu Samarcanda , seguito da Il rosso e il nero del 1992, entrambi su Rai 3. In quel tempo Michele era ma­gro, astuto e ambiguo quanto oc­correva. Nell’ottobre del 1991 an­dai a intervistarlo per l’Espresso . E mi resi conto che era sicura­mente di sinistra, ma la sua fedel­tà andava a un solo partito rosso: quello di Santoro. Con un timbro anarco-popu­­lista, forse derivato dalla militanza giova­ni­le in un gruppo ma­oista: Servire il popo­lo. Per la Prima repub­bl­ica erano tempi tra­gici. I politici appari­vano stremati e si tro­vavano sull’orlo del­l’abisso di Tangento­poli. Santoro me li de­s­crisse con la sicurez­za del ras televisivo che si sente sempre più forte. Disse: «I partiti non saranno così stupidi da taglia­re la lingua a Samar­canda . Noi siamo matti, imprevedibili e liberi. E continuere­mo a rompere. Io rompo o sto zit­to: non vedo vie di mezzo». Poi mi spiegò: «Non è vero che il successo di Samarcanda mi ab­bia dato alla testa. Io sono un to­po in mezzo agli elefanti dei parti­ti. Saltello per evitare che le loro zampe mi schiaccino. Se mi sal­vo, continuerò a rompere. I politi­ci possono starne sicuri». Santoro si sentiva il capo di una forza personale che poteva deci­dere con chi allearsi o no. Per que­sto, all’improvviso, scelse di pas­sare sul fronte opposto alla Rai: Mediaset, la corazzata di Berlu­sconi. Anche nel fortino del Cava­l­iere mise in mostra un’invidiabi­le capacità nel trattare gli affari. Ottenne uno stipendio da nabab­bo, più l’assunzione di tutta la sua squadra con il massimo dei compensi. E costruì un altro talk show di successo: Moby Dick nel 1996. Ma al Cavaliere, più furbo di tanti suoi dirigenti, Michele non piaceva. In lui fiutava l’avversa­rio, ben piazzato su un terreno in­sidioso: la televisione. Per di più, gli stava sui santissimi per la sua aria da padrone. Lo liquidò. E Santoro divenne il primo dei Grandi epurati, messi fuori dalla tv grazie agli editti del Cavaliere. Michele ritornò in Rai. Poi la si­nistra, sempre generosa con i di­vi della tv, gli offrì una exit stra­tegy di lusso: il 14 giugno 2004 lo fece eleggere deputato europeo. Ma il Parlamento di Strasburgo era il posto più noioso del mondo per una star da battaglia come lui. Santoro sopportò per meno di due anni il fastidio di doverlo frequentare. Poi si dimise. E nel 2006 decise di rincasare in viale Mazzini. E diede vita a un nuovo programma: Annozero . Sotto questa bandiera, Santoro inaugurò un’altra stagione perso­nale: il conduttore da guerra. Contro chi? Ma che domanda! Contro il suo vecchio padrone privato: Berlusconi. Il nemico da sconfiggere, il demonio da scac­ciare, il caimano da uccidere. Di­venne il più mussoliniano fra i sultani rossi dei talk show. E ogni giovedì, in prima serata su Rai 2, riprese a imporci il proprio co­mandamento: credere, obbedire e combattere. Sempre con lo stes­so obiettivo: mandare a gambe al­­l’aria il tiranno di Arcore. Il pubblico di sinistra continuò ad adorarlo. Santoro era la prova vivente che il regime fascista del Cavaliere esisteva, ma poteva es­sere battuto. Nella scala gerarchi­ca della Rai, Michele iniziò a con­t­are più di dieci Paolo Garimber­ti, il presidente. E più di Mauro Masi, un direttore generale sen­za un potere reale nei confronti di Annozero. Ma nel paese dei ba­locchi televisivi, tutto è volatile. La forza di un programma e di un conduttore può sparire di colpo, o attenuarsi a ritmi terrificanti. È quel che accadde a Santoro verso la metà del novembre 2010. Quando il nuovo spettacolo di Fa­zio & Saviano cominciò a fare ascolti mirabolanti, confinando Annozero nell’angolo dei perden­ti, sia pure provvisori. [...] Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, mi appariva il Santoro dei poveri, formato Festa del­l’Unità, quella del tempo che fu. Aveva di continuo l’ansia di non poter risultare abbastanza rosso. Ma ci riusciva ogni volta. La scel­ta degli ospiti era bipartisan. Non così il suo atteggiamento.
Il com­pagnone di Ballarò si mostrava sempre amichevole nei confron­ti degli invitati di sinistra. Nei mo­menti di difficoltà, costoro sape­vano di poter contare sul suo aiu­to, offerto con lo zelo di un croce­rossino fedele nei secoli. Ma con gli interlocutori di destra, la musi­ca cambiava di colpo. Con loro Floris sfoderava l’al­tro lato di se stesso. Diventava ge­lido e spesso scioccamente irri­dente. Li interrompeva, li silen­ziava, li metteva alle strette. In­somma, un capoclasse perfetto: buono con i buoni, cattivo con i cattivi. E in molti casi pomposo. Con il vezzo ridicolo di celebrare se stesso: lo vedete quanto sono imparziale, liberale, democrati­co? Una sua gemella era Lucia An­nunziata, la regina di In mez­z’ora.
Di lei rammento l’affanno di mandare al tappeto l’ospite che aveva di fronte per trenta mi­nuti filati. Se chi s’azzardava a se­dersi davanti a lei apparteneva al giro politico opposto al suo, an­che un bambino avrebbe subito intravisto il difetto di Lucia. A lei non interessavano le rispo­ste dell’interlocutore, ma soltan­to le proprie domande. Che dove­vano sempre risultare aggressi­ve, grintose, insomma cazzute, se posso usare per una signora questo lessico da bettola. Una so­la volta toccò a Lucia di andare ko. Accadde con quel satanasso di Berlusconi. Il Caimano si alzò e la piantò in asso, sola e abban­donata in piena diretta tv. Un’altra dama sinistra era Sere­na Dandini, la regina di Parla con me, famosa per il divano ros­so. E dal martedì al venerdì sem­pre disposta ad accogliere chiap­pe eccellenti dell’opposizione al cavaliere.
Da lei erano passati Eu­genio Scalfari, Ezio Mauro, Bill Emmott, l’ex direttore dell’ Eco­nomist , Stefano Rodotà, Massi­mo Cacciari, Carlo Azeglio Ciam­pi, Guglielmo Epifani, Sabrina Fe­rilli, Antonio Tabucchi, Corrado Augias e tanti altri avversari del Berlusca. Davanti a Scalfari e alla sua sa­cra barba bianca, Serena cadde in deliquio. Era seduta accanto a lui, ma sembrava in ginocchio. Pronta a incoronare ogni rispo­sta, anche la più banale, con la sua entusiastica risata. Un gior­no, Pietrangelo Buttafuoco disse di lei:«Ha l’espressione un po’ co­­sì, di quelli che ridono pure in un cimitero». Aldo Grasso, il critico televisivo del Corriere della Sera , il più acu­to tra quelli a disposizione dei let­tori di quotidiani, fu spietato con madama Dandini. Scrisse: «Ride in continuazione per sottolinea­re la sua ironia e la sua intelligen­za, caso mai fossero sfuggite».
Poi aggiunse: «Da un program­ma che impiega tredici autori e la consulenza di altri quattro, ci si aspetterebbe qualcosa di più di una mini fiction dopolavoristi­ca». Risultato? Un continuo calo d’ascolti. A Santoro & C. si potevano ag­giungere altre eccellenze rosse che non dipendevano dalla Rai. Consideriamo il caso di La7, una rete privata e senza obbligo di ca­none per l’utente. Qui a domina­re era Lilli Gruber, già parlamen­tare europea di sinistra, che ogni sera metteva in mostra la propria militanza. Sempre piacevole a ve­dersi, ma soltanto per la sua bel­lezza e per l’eleganza by Armani. Confesso che ad affascinarmi era l’eterna giovinezza della contur­bante Dietlinde, con quel viso di porcellana senza età,un’attrazio­ne irresistibile per un maschio dai capelli bianchi.
Anche per questo dettaglio, mi domandavo perché mai dimenti­casse il proprio ruolo. Per tramu­tarsi da conduttrice in uno dei liti­ganti inviati al suo Otto e mezzo. Con il risultato di far scrivere al­l’implacabile Grasso del Corriero­ne : «La Gruber rappresenta un vecchio modo di fare giornali­smo. Nel suo programma non c’è mai un percorso di conoscenza, ma solo uno scontro di opinioni, una parata di idee contrastanti». In questo scontro, Lilli voleva sempre vincere. Per arrivare a questo risultato, adottava spesso il sistema del due contro uno. I due, tutti anti-Cav, erano lei e uno degli invitati, entrambi nemi­ci giurati del Caimano. L’uno era un ospite di centrodestra, desti­nato fatalmente a soccombere. E non metto nel conto il filmato di Paolo Pagliaro che, ogni sera, of­friva il proprio soccorso rosso. Più o meno lo stesso era quel che pensavo a proposito di un al­tro programma di La7: L’Infedele di Gad Lerner. Ecco l’ennesimo talk show da combattimento. Sempre contro il maledetto Cava­liere. E per questo noioso e bana­­le, da non guardare. Mai una sor­pr­esa né un guizzo di genialità im­prevista. Ma in fondo era il ritratto to del suo autore.
Da tempo Lerner stava immer­so in una fantastica regressione politica. Che lo aveva sospinto all’indietro nel tempo. Ossia agli anni Settanta, quando Gad s’illu­deva di fare la rivoluzione prole­taria nelle file di Lotta continua. Allora aveva perso e la sconfitta si era mutata in un incubo desti­nato a perseguitarlo. Come una condanna a cercare di continuo una vittoria che l’ascolto ridotto seguitava a negargli. [...] Molto più interessante di Ser­ra (Michele, ndr), risultava il per­sonaggio di Fazio, la cui presa di posizione a vantaggio della sini­stra era scoperta, scopertissima. Nonostante questo, amava inter­pretare il ruolo opposto al televi­sionista settario. Era quello dell’abatino estra­neo a qualsiasi parrocchia, ami­co di tutti e nemico di nessuno. Con l’aria dimessa, l’espressio­ne sempre stupita, il vestito stra­fugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare. In realtà, nella Rai odierna fran­tumata in sultanati, Fazio era il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi sen­za guardare in faccia nessuno, curatore attento dei propri co­modi. E all’occorrenza anche cat­tivo.
Con la manina avvolta nella flanella grigia e lo stiletto avvele­nato ben nascosto. Era con que­sta lama che Fazio, nel suo pro­gramma abituale, Che tempo che fa, praticava una censura inflessi­bile. Truccata da libertà di scel­ta, quella che spetta a tutti i con­duttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglieva, ma discriminava. Gestendo in mo­do autoritario il potere di pro­muovere libri e autori. Un regi­me accettabile in una tv privata, però non alla Rai. Che è pur sem­pre pagata dal canone sborsato dai «tutti» ai quali Saviano vole­va parlare.


«Il Giornale» del 29 aprile 2011

26 aprile 2011

Quella saga di sangue che è all'origine di Roma. E dell'idea di Res publica

Un saggio dell'archeologo Andrea Carandini svela i misteri di Giunio Bruto, che cambiò le sorti dell'Urbe (e del mondo) cacciando Tarquinio il Superbo

di Ezio Savino

Oggi è il Parco della Musica, l’Auditorium di Renzo Piano, incastonato tra il Villaggio Olimpico e Villa Glori, nell’ansa del Tevere. Ma all’alba di Roma repubblicana, nel VI sec. a. C, qui risuonavano i campanacci del gregge. In primavera, si sentivano le risate e i canti di chi bisbocciava nel vicino bosco sacro di Anna Perenna (piazza Euclide), dea della stagione buona e delle tavolate. Il contadino dissodava il podere, zuppo delle inondazioni del fiume.
Ma poi un ricco terriero sloggiò la fattoria, e vi costruì sopra la sua villa, con annessi il frantoio e il quartierino dei servi lavoranti. Costoro erano forse la famiglia del vecchio paesano, costretto a svendere sotto i faenora, i mutui, i debiti di allora, gravati dall’usura, e a faticare sotto padrone. Le ruspe di Piano a inizio lavori smossero i ruderi di quelle fondamenta. Ci fu l’altolà della Sovrintendenza. Le sue sale da concerto cambiarono dislocazione rispetto al disegno. In compenso, un po’ di luce si è accesa su una fase nebbiosa della storia romana. Ce le racconta Andrea Carandini, archeologo e storico (in questo caso, l’integrazione tra le due competenze è indispensabile) in Res Publica (Rizzoli, pagg. 190, 18,90 euro). Siamo a cavallo tra VI e V sec. a. C., negli anni cruciali del transito dalla monarchia dei sette re, alla repubblica dei consoli, dei comizi popolari e dei magistrati.
Per il moderno esploratore del tempo, il problema è la scarsità delle fonti credibili su quegli eventi forti. Leggende e propaganda, a pioggia: ma i dati scientifici latitano, e una scoperta come quella del sottosuolo arcaico dell’Auditorium è oro colato. A patto di saperla armonizzare con il poco che galleggia sulle tradizioni, esercitando una critica temperata, che eviti gli eccessi di chi dà credito ai miti, ma anche di chi radicalizza, e insieme all’acqua sporca delle favole antiche getta dalla finestra il bambino, il nucleo della storia, lasciando il vuoto, il punto interrogativo.
Il metodo di Carandini è l’equilibrio, e il risultato è la ricostruzione plausibile di un’epoca. Ma non solo. Quella fu l’ora pesante delle trasformazioni traumatiche. La monarchia si spense, e sorse la «cosa pubblica», incunabolo di quel sistema di vita e civiltà che noi ora celebriamo, e di cui siamo debitori a quei capiscuola. Furono eventi politici su larga scala, officina dei nostri concetti di democrazia e libertà, di poteri divisi e indipendenti, di apparati dello stato, realtà che proprio in quei momenti si modellavano con un affaticato rodaggio, alle radici dell’Europa. Così il libro di Carandini, che nasce come storico e archeologico, culmina nell’ampiezza di pensiero e di dottrina del manuale politico. L'idea di fondo è correttissima.
La “democrazia”, il potere del popolo, nasce greca: ma nella sua stessa culla, Atene, sfolgorò per tre generazioni scarse. L’esperimento repubblicano più monumentale, il libro di testo su cui si formano tutti gli ordinamenti garantisti e costituzionali, la bibbia dei politologi dell’Illuminismo e dei rivoluzionari di Francia, dobbiamo andarli a cercare sui colli in riva al Tevere: oltre sei secoli di miktè politèia, come la chiamava il Kissinger dell’antichità, il greco Polibio, una «costituzione mista», che ponderava e bilanciava i poteri, e che può insegnarci ancora qualcosa su temi al calor bianco, da prima pagina, quali i rapporti tra magistratura e governo, i conflitti d’interesse, i ruoli e i confini invalicabili delle varie istituzioni.
Non c’è aridità teorica in queste pagine di Carandini, che hanno fervore e stile di narrazione. È un dramma di padri fondatori, di eroi. Spicca nel gruppo Marco Giunio, più noto con il soprannome di Bruto, «idiota».
Tale si finse, per sopravvivere, ragazzo, alla corte di Tarquinio il Superbo, l’ultimo monarca. Da infiltrato, acquisì dimestichezza con gli arcani del trono e, al momento giusto, scatenò l’inferno contro il despota, scacciandolo dal palazzo romano, e assumendo l’autorità di primo console della storia (509 a.C.). L’occasione fu scandalosa, lo stupro di una casta matrona, Lucrezia, figlia e sposa di nobili. Sesto era il figlio vanesio di Tarquinio, il re dispotico. Si considerava l’erede, e si concedeva ogni bravata. L’ultima gli fu fatale. Per scommessa, violentò Lucrezia, che davanti ai suoi uomini si pugnalò per l’onta. Invenzione edificante, o cronaca nera attendibile?
Carandini propende per la storicità. Non esistono prove forensi, ma il quadro è solido. Qui non c’è solo la vigliaccata di un ragazzotto della Roma bene. Si scontrano due mondi, due stili. Tarquinio e la sua corte da sultano sono il passato, imbevuto di rilassatezza, amoralità e lusso esagerato, etrusco. Gli altri sono il seme di Roma a venire, gente per cui l’onore e i mores, la dignità di un vivere sobrio, contano più dell’oro. I ribaltoni di quella portata hanno sempre un duro costo. Qui - spiega Carandini - fu il braccio di ferro tra la nuova classe dirigente, i patres, i patrizi, e la plebe.
Il punto dolente erano i debiti. Chi aveva un poderetto e diventava insolvente, lo perdeva, diventava proletario e servo arrabbiato. Qui si inserisce il tassello archeologico della storia. Le fondamenta dell’Auditorium diventano un film: prima la piccola azienda agricola, poi l’esproprio, il trionfo del palazzinaro. La costituzione mista fu l’antidoto al caos politico. La plebe negoziò con la controparte i suoi tribuni, difensori politici che potevano mettere sotto scacco i provvedimenti impopolari. La repubblica resse per secoli, prima di snaturarsi in impero, dagli ordinamenti legali al carisma di uno solo. Così funziona il pendolo della storia.

«Il Giornale» del 26 aprile 2011

23 aprile 2011

Vade retro test

Gli studenti finlandesi, presunti primi della classe europei nella matematica, non capiscono più né algebra né geometria

di Giorgio Israel

E’ ormai un luogo comune indicare la Finlandia come un modello di scuola innovativa, di successo e che riesce a conquistare le prime posizioni nelle classifiche internazionali Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment), in particolare nella matematica; e quindi come un modello da seguire per avere successo nelle valutazioni. Ma proprio questo esempio dimostra quanto lo slogan delle “valutazioni oggettive” e della “misurazione delle qualità” sia fondato sulla sabbia.
Diverse recenti analisi sviluppate da matematici e studiosi di problemi dell’insegnamento finlandesi (tra cui ricordiamo articoli pubblicati dal 2006 in poi da G. Malaty, E. Pehkonen, O. Martio e altri) mettono in luce una realtà molto diversa. Come intitola un appello firmato nel 2006 da Kari Astela, professore all’Università di Helsinki, e da più di altri duecento professori, “le classifiche Pisa dicono soltanto una verità parziale circa le abilità matematiche dei bambini finlandesi”, mentre, di fatto, “le conoscenze matematiche dei nuovi studenti hanno subito un declino drammatico”. I matematici K. Tarvainen e S. Kivelä, in un articolo intitolato “Gravi difetti nelle abilità matematiche finlandesi” hanno sottolineato che gran parte dei firmatari dell’appello di Astela sono professori di politecnici o università tecniche e quindi non insegnano una matematica “accademica”, bensì una matematica richiesta nelle pratiche tecniche e nelle scienze dell’ingegneria.
Da parte sua, George Malaty ha osservato che “in Finlandia sappiamo che non avremmo avuto alcun successo in Pisa se i test avessero riguardato la comprensione dei concetti o delle relazioni matematiche”. Da più parti è stato severamente osservato che le varie riforme introdotte in Finlandia hanno finito col generare un “oggetto didattico” che con la matematica propriamente detta ha in comune soltanto il nome e che serve a superare bene i test Ocse-Pisa ma ha avuto effetti disastrosi sulla cultura matematica diffusa, oltre che su un declino accertato della conoscenza superiore nelle università e nei politecnici.
L’insegnamento della matematica in Finlandia ha conosciuto varie riforme. In sintesi: la riforma “New mathematics” implementata dal 1970 al 1980, la “Back-to-Basics” (1980-1985), seguita da altre due riforme che hanno prodotto un orientamento sempre più deciso verso un approccio pratico, e cioè “Problem solving” (1985-1990), e la più radicale, “Everyday mathematics” (1990-95).
La tendenza è stata quindi verso un approccio concreto ispirato a una visione puramente operativa della matematica, rivolta a scopi pratici e tendente a gravitare attorno al calcolatore, per giunta visto in un senso molto radicale, e cioè non come ausilio bensì come modello di riferimento. Ciò ha condotto, come vedremo, a sostituire le procedure di calcolo codificate nell’aritmetica e nell’algebra con quelle ideate ad hoc per far funzionare la macchina.
Sintetizziamo rapidamente le caratteristiche dell’“oggetto didattico” detto “matematica” che queste riforme hanno man mano costruito.
In primo luogo, non si fanno quasi più dimostrazioni. L’insegnante si limita a trasmettere i risultati come manuali d’istruzioni senza proporne quasi mai la prova logica. E’ superfluo dire che questa scelta, oltre a produrre un tipo di insegnamento nozionistico – che soltanto un estremo semplicismo rende accettabile – atrofizza le capacità logico-deduttive dello studente. Inoltre, insegnare la matematica senza dimostrazione è come pretendere di addestrare uno scultore senza mai mettergli in mano uno scalpello.
In secondo luogo, la geometria è quasi sparita dall’insegnamento, il che non stupisce perché la geometria senza dimostrazioni non ha senso. Questa sparizione produce un’altra conseguenza molto negativa: l’atrofizzazione delle capacità di intuizione spaziale che sono stimolate in modo decisivo dal pensiero geometrico.
Veniamo ora agli effetti dell’esasperata tendenza a vedere la matematica come un insieme di procedure di “problem solving”.
Per inchiodare nella testa all’allievo questo approccio, fin dalle elementari le operazioni dell’aritmetica sono introdotte in modo puramente grafico, ovvero strettamente pensate come un procedimento di incolonnamento delle cifre e di applicazione di regole meccaniche. E’ noto come la tendenza a concepire le operazioni in termini di “incolonnamento” si è fatta strada anche nel nostro insegnamento primario, con effetti pessimi. Difatti, identificare un’operazione con una rappresentazione grafica impedisce di comprenderne il concetto e svilisce il ruolo del calcolo mentale. Ma nella scuola finlandese questa discutibile tendenza è arrivata al punto di escludere il simbolo “=” a favore della lettera “V” che sta per “Vastaus”, in finlandese “Risultato”. L’alunno è chiamato a incolonnare i dati e a scrivere il risultato in un apposito riquadro denotato con il simbolo “V”. Come osservano gli autori citati, alla fine del percorso primario un bambino finlandese non conosce il simbolo e il concetto di uguaglianza e concepisce pertanto ogni espressione matematica come la richiesta di ottenere un “risultato”.
La sostituzione del simbolo “=” con quello di “risultato” implica quindi l’identificazione del concetto di “uguaglianza” con quello di risultato, e questo è talmente volgare e ignorante da non meritare commenti, se non l’osservazione che così vengono cancellati più di duemila anni di matematica e di logica per tornare allo stadio della matematica pratica, approssimata e puramente operativa dei babilonesi. Con tutto il rispetto per le conquiste di questi ultimi, straordinarie in relazione con i tempi, far fuori il grandioso impianto concettuale della matematica da Euclide in poi non è un progresso, bensì un autentico imbarbarimento.
Viste queste premesse “anti concettuali”, era inevitabile che nella scuola finlandese venisse smantellata anche l’algebra. Così, non si insegnano più le proprietà fondamentali dell’aritmetica: associatività, distributività, commutatività, ecc. Al loro posto viene somministrato un insieme di istruzioni per l’uso detto “Ordine delle operazioni”, chiaramente copiato dalle procedure usate dai computer. Prima occorre calcolare le espressioni tra parentesi, poi moltiplicare, poi dividere, infine sommare o sottrarre da sinistra a destra. Come osserva Malaty, il risultato è che uno studente non è in grado di scrivere correttamente un testo matematico e questo produce problemi gravissimi all’università. Di fatto, l’“Ordine delle operazioni” mette in mora l’algebra. Difatti, non si saprebbe come operare con espressioni del tipo 2x + 3y + 3x + y, visto che non sono date regole per associare e distribuire i termini. Il modo di cavarsela (e di smantellare l’algebra) è il seguente. Dapprima si osserva come l’esperienza suggerisca che la somma di due mele e di tre mele sia cinque mele, ovvero 2 mele + 3 mele ha come risultato 5 mele. Analogamente 2 kg + 3 kg ha come risultato 5 kg e 2 metri + 3 metri valgono 5 metri. Insomma, l’esperienza suggerisce che è possibile sommare grandezze omogenee e quindi in generale calcolare 2x + 3x ottenendo 5x. Ma, in tal modo, x non è più il simbolo algebrico di un numero bensì il simbolo di un oggetto. Pertanto, immaginando che nell’espressione di partenza x sia una mela e y una banana, se ne conclude che l’espressione 2x + 3y + 3x + y vale 5x + 4y (5 mele + 4 banane). Inutile dire che in tal modo l’algebra è completamente distrutta, sostituita da un insieme di procedure pratiche basate su analogie empiriche di valore assai inferiore alle manipolazioni che venivano fatte prima degli Arabi. Tralasciamo, per non entrare in tecnicismi, molte altre scelte che, nell’intento esasperato di rendere tutto molto “concreto”, introducono veri e propri errori.
Lo smantellamento non si ferma qui e investe direttamente anche l’aritmetica. Abbiamo già parlato del modo di pensare le operazioni. Ma il disastro peggiore di tutti è la sostanziale abolizione del concetto di frazione. Difatti, nell’insegnamento finlandese della matematica i numeri sono concepiti soltanto in espressione decimale, e questo per ovvi motivi, in quanto è soltanto in questa forma che possono essere digitati su un calcolatore. Ma questo rappresenta un’autentica catastrofe, perché il concetto di numero non si identifica con la sua espressione decimale che, nella maggior parte dei casi ne rappresenta soltanto un’approssimazione: 1/3 non è la stessa cosa di 0,3333333… La forza incomparabile della matematica sta nel poter manipolare in modo esatto dei numeri dati al di là della loro rappresentazione numerica decimale (per lo più approssimata) ed è questo che permette alla matematica di ottenere formulazioni generali che servono a rappresentare le leggi naturali. Si tratta quindi di qualcosa che ha un valore eminentemente “concreto”: la fisica e le nostre scienze applicate non esisterebbero senza la matematica “esatta”, cui è subordinato il calcolo numerico approssimato. I Greci si attennero alla geometria per perseguire l’ideale di esattezza che non riuscivano a realizzare nei numeri. Ci sono voluti secoli per sviscerare la struttura dei numeri e riuscire a pensare “numeri” come 1/3 al di là della loro approssimazione decimale. Ora si propone nientemeno che cassare tutto questo.
Racconta Martio (in un suo articolo pubblicato sul “The Teaching of Mathematics nel 2009) che chi entri oggi in una macelleria finlandese e chieda 3/4 di kg di carne non viene capito: occorre dire 750 grammi. E osserva: “La matematica non riguarda soltanto i professionisti. La matematica è usata sempre di più nelle professioni ordinarie e i problemi connessi sono diversi da quelli dei test Pisa. In Finlandia, come in molti altri paesi, il curriculum matematico include concetti e abilità che vi sono stati messi perché qualcuno ha ritenuto che fossero utili. Nella maggior parte dei casi il tempo ha dimostrato che queste abilità speciali non corrispondono più alle richieste della società. L’architettura del curriculum finlandese e le pratiche di insegnamento richiedono considerevoli cambiamenti per venire incontro alla sfida”. Come spesso accade, confondendo la concretezza con l’empirismo si distruggono le basi stesse di ciò che rende una scienza come la matematica efficace sul piano concreto. Così l’“Everyday mathematics” rischia di diventare poco utile, salvo per operazioni di livello minimo, come quelle alla cassa del macellaio.
Nel 2003 sono state svolte ricerche per valutare gli effetti del curriculum matematico finlandese proponendo a ragazzi di 15-16 anni alcuni test (diversi da quelli Ocse-Pisa) che erano stati già proposti nel 1981. Ecco alcuni risultati.
La moltiplicazione (1/2)·(2/3) che il 56,4 per cento riusciva a fare nel 1981, veniva eseguita correttamente nel 2003 soltanto dal 36,9 per cento. Ancor più impressionante il crollo relativo alla corretta esecuzione della divisione (1/5):5 : si passa dal 49,2 per cento al 27,5 per cento. Mentre nel 1981 il 55,1 per cento riusciva a giustificare il fatto che (592)3 = (593)2, nel 2003 soltanto 31,7 per cento riusciva a farlo. Potremmo continuare. Ma forse il risultato più devastante è l’esito (nel 2003) delle risposte alla domanda “spiegate con parole vostre il significato di (4/5)·5”. Soltanto il 6,5 per cento rispose correttamente a questa domanda e il 5,4 per cento “quasi correttamente”. Il restante 88,1 per cento diede risposte sbagliate o gravemente sbagliate.
Concludiamo qui con alcune osservazioni generali.
Sarebbe bene smettere una volta per tutte con il metodo di prendere come “prova scientifica” i test Ocse-Pisa in modo cieco e acritico, senza preoccuparsi della loro sostanza, e su questa base fragile imbastire in modo apodittico considerazioni generali e impartire ricette e comandamenti. Gli “esperti” di didattica e di istruzione che non sono in grado di entrare nel merito farebbero bene a tacere una volta per tutte: il loro chiacchiericcio è una delle fonti principali dei guai dei vari sistemi dell’istruzione.
Inoltre, questo esempio – e moltissimi altri se ne potrebbero dare – dovrebbe suggerire di accantonare l’inconsistente slogan della “misurazione oggettiva” basata sui test. I test contengono una fortissima componente soggettiva di arbitrarietà, derivante dalle scelte e dalle visioni di chi le formula. In questo caso, come si è visto, derivante da una visione molto particolare della matematica, che nessuna persona competente potrebbe avallare.
Riempirsi la bocca delle parole “oggettivo” e “misura” dà un tono molto scientifico ma non è una cosa seria. L’autentica valutazione è qualcosa di infinitamente più complesso della misurazione della superficie di un appartamento. Essa coinvolge una gran quantità di aspetti qualitativi, spesso non quantificabili ma che possono essere analizzati e giudicati seriamente senza numeri, e tra i quali ha un posto centrale il contenuto della disciplina in oggetto. La valutazione ha senso soltanto se è concepita come un processo interattivo volto a produrre una cre scita culturale. Ma se è gestita da “esperti” incompetenti a entrare nel merito si traduce in un autentico disastro.

«Il Foglio» del 23 aprile 2011

21 aprile 2011

Leggere (e capire) ai tempi di internet

di Alessandro Schiesaro

La generazione Internet sa ancora leggere? Il dubbio si pone da tempo, almeno da quando si sono iniziati a studiare seriamente gli effetti a livello neurologico e cognitivo dell'uso intenso di Internet, che pone sfide e interrogativi importanti soprattutto per il sistema scolastico, ormai popolato da allievi nella cui vita la rete è entrata dal primo giorno. Internet, gli sms, twitter si basano, certo, sulla capacità di leggere, e in questo senso ripropongono la centralità della parola scritta rispetto all'immagine.
Ma leggere su e per Internet non è la stessa cosa che leggere "come si faceva una volta". Sono diversi i tempi e i modi, molto più concentrati i primi, più cursori i secondi. Non è una novità assoluta nella storia: anche il passaggio dal rotolo di papiro al codice in volume comportò a suo tempo una modifica nelle modalità di accostarsi al testo.
È troppo presto per dire se il mutamento avrà un effetto positivo o meno. Anzi, è chiaro che gli effetti saranno molteplici e diversificati: se spesso si attribuisce alle nuove tecnologie una minore capacità di concentrazione, alcuni studi già dimostrano, per esempio, che l'accesso a internet agevola la lettura in classi socio-economiche svantaggiate. Resta indiscutibile, in ogni caso, che vale la pena di investire, anzi re-investire sulla lettura come strumento primario di conoscenza nelle sue forme tradizionali.
In questo orizzonte complessivo, e non solo come strumento di verifica dell'apprendimento, vanno considerati i test Invalsi di italiano offerti a partire dal 2008 nelle scuole primarie (in seconda e in quinta), dal 2009 in quelle secondarie di primo grado (in terza) e ora in procinto di essere estesi anche alle secondarie di secondo grado. Si tratta di prove standardizzate, che si affiancano a quelle in matematica, finalizzate a misurare negli studenti, a intervalli regolari, competenze di diverso tipo: la conoscenza del lessico; la capacità di comprendere il significato di un testo anche quando questo non sia del tutto esplicito; la propensione a trarre inferenze più o meno accreditate.
Le prove si basano su brani di prosa d'autore contemporanei, quindi tutti caratterizzati in qualche misura dalla ricchezza espressiva e dall'inevitabile complessità polisemica di un testo letterario. Se Internet rischia di trasformarci in pantagruelici ma indiscriminanti lettori di microtesti, riassunti e "pillole", proporre testi narrativi, non di informazione, ribadisce l'importanza della lettura "lenta", giocata su sfumature e sovrasensi, slegata dall'ansia di incamerare nel più breve tempo possibile il maggior numero di dati: la sola, in altre parole, capace di sviluppare lo spirito critico.
Non sono test facili. Chiedere, per esempio, ai bambini di seconda elementare il significato corretto di "ostruito" può sembrare ambizioso, eppure i risultati indicano che si tratta di una sfida possibile, a patto che fin da subito i programmi di insegnamento siano impostati in modo coerente: il dato che sorprende, infatti, è che anche domande a prima vista quasi spiazzanti sono state affrontate con esiti largamente positivi. I prototipi dei test per le superiori dedicano più spazio a domande di carattere sintattico, ma soprattutto all'interpretazione vera e propria, toccando in alcuni casi anche aspetti di genere letterario. Tutti i test, con diversa intensità, richiedono al lettore uno sforzo di comprensione razionale e sistematica, interrogando anche sul "non detto" o proponendo esercizi di modellizzazione, sintattica o contenutistica.
In Italia le prove standardizzate sono ancora viste con diffidenza o timore. Se vengono costruite su solide basi scientifiche e adeguatamente testate (solo il 15% delle domande sopravvive ai pre-test), però, sono uno strumento insostituibile non solo per valutare l'apprendimento, ma anche per definirne con chiarezza gli obiettivi, riducendo i margini di arbitrarietà (non quelli di autonomia critica del docente, che sono tutt'altra cosa). E per quanto "nuovi" nella forma, test come quelli di lettura possono costituire la difesa più efficace per un'abilità "antica", ma in parte storicamente determinata, come quella di leggere e comprendere, soprattutto in un momento di mutamenti paradigmatici come quella in cui stiamo vivendo.

«Il Sole 24 Ore» del 18 aprile 2011

L'arte di imparare

di Luigi Mascheroni
A proposito di «cultura» la frase più infelice e più citata dell’anno, una battuta che ha fatto imbufalire in maniera bipartisan i colleghi di governo e gli avversari all’opposizione, è certamente quella scappata a Giulio Tremonti, secondo il quale - citiamo in maniera filologicamente corretta - «Di cultura non si vive: vado alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia ...». Poiché a un uomo che si occupa di economia si è disposti a concedere tante virtù ma non il dono dell’ironia, il ministro non ha fatto ridere nessuno, scandalizzando tutti. E comunque, a dimostrazione che la cultura si mangia - eccome - i numeri ci dicono che l’italiano-medio è sempre più affamato. Di arte, di cinema, di musica, forse un po’ meno di libri..., dimostrando insomma un robusto appetito per la Creatività e la Conoscenza.
A dispetto della litania funebre che l’intellighenzia snob recita da tempo, soprattutto negli ultimi anni, sulla condizione barbarica alla quale si è ridotto il popolo italico - ignorante, gretto, telerimbecillito e tecnocatatonico -, cifre alla mano la gente va più al cinema che allo stadio, consuma più libretti d’opera che e-book e in percentuale frequenta più i siti archeologici che i sexy shop. Si continua a profetizzare l’apocalisse culturale e ci risvegliamo in un piccolo paradiso del Sapere. Chi l’avrebbe mai detto?
Lo dice l’ultimo rapporto annuale di Federculture dal titolo La cultura serve al presente, un report molto interessante perché in controtendenza, e non a caso finora passato abbastanza sotto silenzio, che descrive l’andamento dei consumi culturali (ma anche gli ostacoli e le inefficienze che, comunque, frenano ancora il completo sviluppo del settore) e che getta per una volta più luci che ombre sulla fruizione del nostro patrimonio artistico-archeologico e della nostra industria creativa. Un ambito in cui annaspiamo molto meno di quanto credano i catastrofisti, come a esempio, ultimi in ordine di tempo, Christian Caliandro e Pier Luigi Sacco che nel loro saggio Italia Reloaded (il Mulino) dipingono l’Italia come la terra degli «zombie culturali», una landa desolata dove il patrimonio artistico più che un tesoro è una tomba, visitata da pochi nostalgici, e la produzione culturale contemporanea completamente morta, incapace di far rivivere dal punto di vista della creatività un Paese che per secoli ha dato lezioni di civiltà al resto del mondo.
Oggi forse gli italiani non possono più fregiarsi del titolo di professori, ma non sono neppure asini. Certo: nel campo della tutela, della valorizzazione e del «rilancio» dei beni culturali le cose da fare sono ancora tantissime, ma secondo i dati di Federculture (l’associazione nazionale dei soggetti pubblici e privati che gestiscono le attività legate alla cultura e al tempo libero) nell’ultimo anno la fruizione di mostre e musei è aumentata del 3,8% e quella dei siti archeologici del 2,2% (tendenza confermata anche dalle rilevazioni Siae sulla spesa del pubblico che segna, nel primo semestre 2010, addirittura un +43,8%), il teatro è cresciuto del 13,4% rispetto al 2009 e persino i concerti di musica classica hanno visto un incremento della domanda del 5,9%.
Può sembrare un sogno, invece è realtà: gli italiani consumano semre più cultura. Anche un giornale come il Fatto quotidiano, di solito poco disposto a voli di ottimismo in queste cose, scrivendo ieri del rapporto di Federculture e del recente reintegro ai livelli dellos corso anno dei contributi del Fus, ha “dovuto” titolare «Ora lo spettacolo respira». Fatti, non opinioni.
Insomma, tra tagli e crisi economica è vero che gli investimenti sono sempre di meno (soprattutto da parte dei privati...), sta di fatto che le famiglie italiane per la cultura e lo spettacolo - settore che nel 2010 ha contribuito al Pil con 39,7 miliardi di euro - tirano fuori dalle tasche ben il 7% della loro spesa totale, una bella sommetta. Che peraltro, tra il 1999 e il 2009, in termini assoluti è aumentata del 24,3%.
Tra i singoli settori il cinema è quello con gli indicatori più positivi (ingressi +13,2% e spesa del pubblico +25,6%), ma a crescere è soprattutto il teatro (ingressi +1,2% e spesa del pubblico +3,7%) con un aumento dei consumi culturali del 13,5% rispetto al 2009. Un dato ancora più curioso se si considera il decennio 2000-2010, in cui è cresciuto del 41,86%, quasi quanto ha perso invece la fruizione dal vivo dello sport (-43,17%). Incredibile: più Cechov, meno calcio. E non è un’eresia.
Nel 2010, annus mirabilis per l’arte con l’inaugurazione del Maxxi e del Macro a Roma, l’eccezionale apertura del Museo del Novecento a Milano, grandi esposizioni-evento, eccetera eccetera.., sono andati bene, come già accennato, non solo mostre e musei (+3,8%, con un aumento della spesa del pubblico del 43,8%) ma anche i concerti di musica classica (+5,9%) e le entrate ai siti archeologici (+2,3%). A proposito: nella relativa classifica spicca la tanto criticata e svergognata Pompei che, nonostante le recenti drammatiche vicende, vede al suo attivo un 11,1%. L’antica città colpita dal Vesuvio sarà anche “tenuta” male, ma è sempre desiderabilissima. Hanno detto che Pompei è la metafora del Paese che crolla. Forse, specularmente, lo è anche del Paese che sta in piedi: criticato, svenduto, dipinto come una terra di cafoni senza più memoria e in crisi di identità e che invece, numeri alla mano, si rivela più colto di quanto i suoi intellettuali di riferimento - sempre un passo indietro rispetto al villaggio reale - siano disposti a concederle. Italia, povera incompresa.
«Il Giornale» del 21 aprile 2011

La scuola progressista? Senza voti, libri e prof

Viaggio nei laboratori del pedagogismo di sinistra che nel nome di un’istruzione moderna e «avanzata» di fatto abolisce lo studio. In futuro gli insegnanti saranno sostituiti da «facilitatori» e le aule da «open space»
di Giorgio Israel
Dopo il successo di pubblico del libro di Paola Mastrocola (Togliamo il disturbo, Guanda) sembra diffondersi sempre di più la consapevolezza che, per arginare il disastro della scuola, occorra battere con decisione la via del rigore, della serietà e della qualità degli studi, della restituzione all’insegnante di tutto il prestigio della sua funzione, soprattutto per ridare al Paese speranze nel futuro, che soltanto una gioventù preparata, colta e capace può rendere concrete. Si può dunque sperare che le forze che hanno propugnato con tutti i mezzi l’ideologia del «non studio» siano in ritirata? Ecco una bella illusione. Al contrario. Nei laboratori del pedagogismo «progressista» - che trova peraltro alleati anche a destra e si avvale di agganci in talune associazioni professionali, taluni sindacati e in settori dell’amministrazione - si almanaccano ricette ancor più «avanzate» e «rivoluzionarie»; si procede con l’ostinazione delle termiti e con la sordità a qualsiasi obiezione tipica di chi si sente investito di una missione sacra.
Si vuole un assaggio delle ricette che vengono apprestate in questi laboratori? Basta rifarsi a un riferimento esemplare che circola in questi ambienti, il decalogo dell’analista di politiche scolastiche Robert Hawkins. Vediamo quale immagine della scuola del futuro ne emerge, tanto per avere un’idea dei modi con cui dovrebbero studiare (si fa per dire) i nostri figli.
Cominciamo dall’ambiente fisico. Gli studenti vanno a scuola. Entrano in un’aula? Niente affatto. Tutti i muri sono abbattuti e la scuola è diventata un open space. Qua e là vi sono tavoli con apparati tecnologici, in modo che gli studenti si aggreghino per fare delle «attività». Un gruppetto decide di fare una ricerca un argomento di storia, un altro di approfondire a scelta un argomento di ecologia, qualcuno vuole fare da solo. Stiamo scherzando? Niente affatto. Il grande «progresso» è che non devono esistere più programmi scolastici, né libri, né tantomeno insegnanti che rappresentino la fonte della conoscenza. La scuola (ma è in discussione se debba ancora chiamarsi così) deve trasformarsi in uno spazio di costruzione autonoma delle proprie conoscenze e competenze. Insomma, bando alla deleteria «trasmissione» della cultura del passato. I giovani ricostruiscono da soli o in gruppo le conoscenze. I libri non servono, anzi sono l’immagine di un’orrida cultura impositiva, trasmissiva, autoritaria, ex cathedra. I ragazzi, dotati di mezzi informatici, mettono in rete le loro esperienze didattiche, costruite sfruttando quelle già depositate da altri studenti. La cultura, la conoscenza, le biblioteche, i libri, sono sostituiti dal repository delle esperienze didattiche «autonome». Quale ruolo resta all’insegnante in questo processo? Soltanto quello di «specialista della gestione dell’istruzione», un «facilitatore» che aiuta gli studenti a cercare le informazioni, una sorta di animatore culturale del genere degli animatori delle feste di compleanno dei bambini; tanto che è in discussione se nel futuro la figura dell’insegnante servirà ancora.
Ho sentito più di un manager o dirigente di sezioni di ricerca di aziende lamentarsi degli inconvenienti dell’open space, degli ostacoli che frappone a pensare, riflettere, progettare. Ma, per questi ideologi, l’open space deve essere introdotto proprio nel luogo deputato allo studio. Ma qui sta l’equivoco: parlare di studio è roba da vecchi arnesi della cultura. Un punto centrale del decalogo è che la scuola deve basarsi sulla centralità del «giocare», il «giocare serio» su Internet che permetterebbe di far crescere le interazioni sociali e addirittura il senso civico. Insomma, la scuola non serve a studiare ma è soprattutto un luogo di socializzazione. Del resto, non è da questi laboratori ideologici che è uscita l’esilarante affermazione secondo cui il videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica del Novecento?
Quindi, esperienze didattiche autonome, apprendimento giocoso che si fa ovunque, da soli, da compagno a compagno, o a gruppi, pescando in rete quel che serve con l’eventuale aiuto del gestore-facilitatore. Qui nasce il capitolo «strumenti» che vede il ruolo centrale della tecnologia informatica. Se qualcuno crede che tutto si riduca a dotare gli studenti di tablet per non portare a scuola carichi di libri, è rimasto alla preistoria. Quali libri? Qui si parla di un sapere diffuso costruito raccattando di tutto in rete con ogni mezzo. Quindi, anche i computer e le reti di computer connessi in rete sono importanti ma non si proiettano nel futuro didattico, che ha il nome di telefono cellulare, di smartphone. Scuola sarà sinonimo di smartphone. Del resto, già ora c’è chi dice che gli editori farebbero bene a non mettere figure nei libri, tanto lo studente munito di smartphone (genitori, preparatevi all’acquisto) su suggerimento del facilitatore scaricherà dalla rete le figure richieste, che si tratti del teorema di Pitagora o del Mosé di Michelangelo.
Un ultimo capitolo riguarda la valutazione. Niente più voti, ma soltanto valutazioni formative completamente automatizzate, e un «portfolio» che illustra le competenze acquisite, eventualmente anche un portfolio di gruppo (sarà da ridere quando verrà presentato al datore di lavoro).
Qualsiasi persona ragionevole capisce quale insulto all’intelligenza rappresenti l’idea forsennata di sostituire la cultura accumulatasi in qualche millennio di storia con il repository delle esperienze didattiche di adolescenti. Qualsiasi persona con i piedi per terra, chiunque abbia mai visto in vita sua un bambino o un ragazzo, si figura quale colossale buffonata, quale circo, quale farsa produrrebbero inevitabilmente ricette del genere, che possono uscire soltanto dalla cucina del più astratto fanatismo ideologico.
La mattina si entra a «scuola» a orari variabili, personalizzati. «Papà, oggi entro alle 12, perché ho concordato a quell’ora una ricerca transdisciplinare sulla questione energetica con Franco e Elena; prima vado a fare un “gioco serio” in rete». «Ci da una mano, facilitatore? Vorremmo fare una ricerca sul conflitto d’interessi». «Ma non vi sembra che da tempo non fate nulla di matematica?». «La matematica è antisociale e comunque le equazioni di secondo grado no, sono repressive». «Facilitatore, ho saputo che in Spagna hanno avviato un progetto scolastico sulla masturbazione detto “La felicità nelle tue mani” (verissimo, ndr). Io e Francesco vorremmo studiarlo e approfondirlo». «Ora vi aiuto a trovarlo in rete». «A me non mi si scarica la foto di Einstein, mi si è impallato l’i-phone». Non vi va di studiare la fisica? Nessun problema: non ci sono programmi. C’è chiasso nell’open space? Niente da fare. Non esiste voto di condotta. Del resto, le urla sono una modalità di socializzazione, come il bullismo.
Bene, non possiamo abusare dello spazio del giornale e offendere la fantasia del lettore che certamente immaginerà da solo scenari ancor più surreali e divertenti, si fa per dire. Si chiederà chi propugna queste cose. Non vogliamo far torto a nessuno, prendendocela con l'uno piuttosto che con un altro. Del resto, basta andare in rete (magari con lo smartphone...) per rendersi conto di quanto pulluli questa ideologia. Questa è la scuola che si vorrebbe costruire per far impallidire le descrizioni dell'attuale degrado proposte da Paola Mastrocola. Questo è il medioevo prossimo venturo che si vorrebbe riservare al Paese.


«Il Giornale» del 18 aprile 2011

20 aprile 2011

Dante, Paradiso XI (analisi di Marchi - Paravia)

Tratto dal volume pubblicato da Paravia
di Alessandro Marchi

L’INTRECCIO

Dopo un'invettiva di Dante-autore contro le vane occupazioni degli uomini, Tommaso d'Aquino risponde al primo dubbio di Dante-personaggio, dubbio sorto dall'aver il santo affermato che Domenico guida il suo ordine «u' ben s'impingua, se non si vaneggia» (Dove ci si arricchisce spiritualmente se non si devia dalla regola; Paradiso, X, v. 96), e spiega come la Provvidenza divina abbia mandato sulla Terra, in aiuto della Chiesa, due condottieri, san Francesco e san Domenico. Poi traccia la biografia del primo, ricordandone il contrasto col padre, la rinuncia ai propri averi per sposare la povertà, la fondazione dell'Ordine, approvato dai papi Innocenzo III e Onorio III, la missione in Terra Santa, l'inutile tentativo in questo luogo di convertire il sultano d'Egitto, il definitivo ritiro sul monte della Verna e il dono delle stimmate, la morte in assoluta povertà, principale regola di vita raccomandata ai suoi eredi. Tommaso ricorda poi i meriti di san Domenico, i cui seguaci si sono però allontanati dal suo insegnamento provocando la decadenza dell'Ordine.

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LA PARAFRASI
1-3. O insensata preoccupazione (cura) degli uomini (mortali), quanto sono sbagliati i ragionamenti (difettivi silogismi) che ti fanno rivolgere verso le cose terrene (in basso batter l'ali)!
4-12. Chi attendeva agli studi giuridici (dietro a iuta... sen giva), chi a quelli di medicina (amforismi), chi si preoccupava di far carriera ecclesiastica (seguendo sacerdozio), e chi di ottenere il potere politico (regnar) con la violenza (per forza) o con l'inganno (per sofismi), e chi pensava a rubare o ad amministrare la cosa pubblica (civil negozio), chi si affaticava tutto dedito (involto) ai piaceri sensuali (nel diletto de la carne), e chi se ne stava in ozio, quando io, libero da tutte queste vane occupazioni, venivo con tanta gloria accolto su in cielo insieme a Beatrice.
13-15. Dopo che ciascuno spirito fu ritornato nel punto del cerchio in cui si trovava prima, si fermò, come una candela che si fissa nel candeliere (come a candellier candelo).
16-21. E io udii incominciare di nuovo a parlare quella luce (lumera) che mi aveva parlato prima, la quale diventava più splendente (sorridendo) e pura (metà): «Come io risplendo del raggio divino, così guardando nella luce eterna di Dio, conosco da dove hanno origine (onde cagioni) i tuoi pensieri.
22-27. Tu dubiti (dubbi), e vuoi che le mie parole (lo dicer mio) siano chiarite (si ricerna) in maniera così piana (aperta) e ampia (distesa) da risultare per te comprensibili (al tuo sentir si sterna), in quel punto in cui precedentemente dissi: "Dove ci si arricchisce spiritualmente" ("U' ben s'impingua"), e "Non nacque un altro con uguale capacità di comprendere" ("Non nacque il secondo"); e su tali dubbi (qui) è necessario (è uopo) che si diano distinte spiegazioni (ben si distingua).
28.36. La Provvidenza divina, che governa il mondo con quella saggezza (consiglio) che per ogni creatura umana (creato) è impossibile comprendere a fondo (è vinto pria che vada al fondo), affinché (però che) la Chiesa (la sposa), sposa di Cristo, che la sposò con alte grida di dolore e versando il sangue benedetto, andasse verso il suo amato (Diletto), più sicura e più fedele, mandò in suo aiuto (ordinò in suo favore) sulla Terra due capi (principi), che la guidassero sia riguardo alla fedeltà che alla sicurezza (quinci e quindi).
37-39. L'uno, san Francesco, fu tutto ardente di carità come un Serafino (fu tutto serafico in ardore); l'altro, san Domenico, risplendè sulla terra di sapienza come un Cherubino (di cherubica luce uno splendore).
40-42. Parlerò del primo, perché lodando (pregiando) l'uno, qualunque si prenda in considerazione (qual ch'om prende), si parla di entrambi (d'amendue si dice), poiché a uno stesso scopo furono indirizzate le loro opere.
43-48. Tra i fiumi Topino e Chiascio, il quale discende dal colle scelto (eletto) dal beato Ubaldo, digrada (pende) la fertile pendice (costa) di un alto monte, il Subasio, dal quale (onde) Perugia, verso Porta Sole, sente freddo d'inverno e caldo d'estate; e sul versante opposto (di rietro) soffrono (le piange) Nocera e Gualdo Tadino a causa dello stesso massiccio montuoso (per grave giogo).
49-51. Su questo pendio (Di questa costa), là dove è meno ripido (frange più sua rattezza), nacque per il mondo un sole, particolarmente luminoso e fecondo, come quando sorge nell'equinozio di primavera (tal volta) in estremo oriente (di Gange).
52-54. Perciò (Però) chi menziona quel luogo, non dica Assisi (Ascesi), poiché direbbe poco (corto), ma Oriente, se lo vuole denominare in maniera appropriata.
55-63. Non era ancora molto lontano dalla nascita (da l'orto) che egli cominciò a far sentire alla Terra il benefico influsso (conforto) della sua grande virtù (virtute: vedi Storie di parole, p. 259); poiché, ancora giovinetto, entrò in rotta con suo padre (in guerra del padre corse) per amore di una donna (la Povertà), alla quale, come alla morte, nessuno fa una lieta accoglienza (a cui ... la porta del piacer nessun diserra); e si unì a lei davanti al tribunale ecclesiastico (a la sua spirital corte) e alla presenza del padre (et coram patte); poi di giorno in giorno l'amò sempre di più.
64-72. Essa (la Povertà), vedova di Cristo, primo marito, rimase disprezzata e trascurata (dispetta e scura) senza che qualcuno s'interessasse a lei (santa invito) per più di undici secoli, fino all'arrivo di costui; né le giovò il fatto che Giulio Cesare (colui ch'a tutto 'I mondo fé paura) la trovò sicura con Amiclate, al suono della sua voce; né le giovò essere fedele (costante) e intrepida (feroce), tanto che patì (pianse) con Cristo sulla croce, quando perfino Maria rimase ai piedi (giuso) di essa.
73-75. Ma per non continuare a parlare in modo troppo oscuro (chiuso), intendi (prendi) ormai questi due amanti, di cui ho parlato diffusamente, (nel mio parlar diffuso) come Francesco e Povertà.
76-81. La loro concordia e il loro aspetto lieto (i lor lieti sembianti), l'amore vicendevole e il loro meravigliarsi e i dolci sguardi facevano sorgere (facleno esser cagion) santi pensieri (in chi li osservava); a tal punto che il venerabile Bernardo per primo si scalzò, e corse dietro a un così grande esempio di pace (a tanta pace) e, pur correndo, gli sembrò di essere lento (tardo).
82-93. O sconosciuta ricchezza spirituale! o bene fecondo (ferace)! Si scalza Egidio, si scalza Silvestro per seguire Francesco, sposo di Povertà, tanto è l'amore (piace) per quella sposa. Dopodiché quel padre spirituale e maestro se ne va a Roma con la sua donna e con quella famiglia che già cingeva i fianchi con l'umile corda (che già legava l'umile capestro). Né la mancanza di coraggio (viltà di cuor) gti fece abbassare lo sguardo (li gravò ... le ciglia) di vergogna per il fatto di essere figlio di Pietro Bernardone (un umile mercante) né per il fatto di avere un aspetto (parer) miserevole e disprezzato (dispetto) tanto da suscitare meraviglia; ma con atteggiamento fermo, degno di un re (regalmente), manifestò al papa Innocenzo III la sua regola severa (sua dura intenzione), e da lui ricevette la prima approvazione (primo sigillo) al suo ordine monastico (sua religione).
94-99. Dopo che crebbero di numero i poverelli seguaci di costui, la cui vita mirabile sarebbe celebrata (si canterebbe) meglio nella gloria dei cieli (piuttosto che da parte mia), il santo proposito (santa voglia) di questo pastore di anime (archimandrita) fu coronato (redimita) da una seconda approvazione (seconda corona) dello Spirito Santo (Etterno Spiro) per mezzo del papa Onorio.
100-108. E dopo che, per desiderio (sete) di martirio, predicò la parola di Cristo e degli apostoli (li altri che 'l seguiro) alla presenza del superbo Sultano (Soldan), e per aver trovato quella popolazione troppo immatura (acerba) per la conversione e per non restare inutilmente (indamo) laggiù, ritornò (redissi) in Italia dove la sua missione evangelizzatrice avrebbe potuto dare migliori risultati (al frutto de l'italica erba), sull'aspro monte (sasso) fra il Tevere e l'Arno ricevette da Cristo le stimmate, l'ultimo riconosci-mento (sigillo), che il suo corpo portò per due anni.
109-117. Quando a Dio, che l'aveva scelto per un bene tanto grande (ch'a tanto ben soffino), piacque di richiamarti in cielo (trarlo suso) per concedergli il premio che meritò nel suo farsi umile (nel suo farsi pusillo), egli raccomandò ai suoi frati, come ai legittimi eredi, la donna che aveva più cara (la Povertà), e ordinò loro che l'amassero fedelmente (a fede); e proprio dal grembo della Povertà (suo grembo) la sua anima splendente (preclara) volle partire, tornando alla sua sede celeste (al suo regno), e non volle altra bara per il suo corpo.
118-123. Pensa ora come fu colui che fu degno collega di Francesco nel guidare sulla giusta rotta (per dritto segno), in alto mare, la barca di san Pietro; e costui fu il nostro patriarca, san Domenico; per la qual cosa puoi comprendere (discerner) che chi lo segue osservando la sua regola (com'ei comanda), acquista meriti per la sua anima (buone merce cavea).
124-129. Ma il suo gregge (suo pecuglio) è diventato ghiotto.dLun_nuovo-cibo-(nova vivanda), cosicché necessariamente (esser non puote) si perde (si spanda) per pascoli lontani (per diversi salti); e quanto più le sue pecore vànno lontanè e fuor dàlra retta via (remote e vagabunde), tanto più tornano all'ovile prive di latte.
130-132. È vero (Ben) che ce ne sono alcune che temono gli effetti negativi ('t danno) (di tale sviamento) e si stringono al pastore; ma sono casi poche, che c'è bisogno di poca stoffa per fornire loro i mantelli (che le cappe fornisce poco panno).
133-139. Ora, se le mie parole non sono oscure (fioche), se sei stato attento nell'ascoltarmi, se richiami (revoche) alla mente ciò che è stato detto, il tuo desiderio (tua voglia) sarà in parte soddisfatto, perché capirai per quali motivi l'Ordine domenicano si va corrompendo (la pianta onde si scheggia), e capirai che cosa significa (che argo-menta) la mia rettifica (il corrbgger) "Se non si devia dalla regola" (se non si vaneggia) aggiunta a "Dove ci si arricchisce (U' ben s'impingua)"».


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LE NOTE
2 > silogismi: il sillogismo è, nella filosofia, un ragionamento deduttivo per cui, poste due premesse, ne deriva un'unica conclusione necessaria.
4 > iura ... amforismi: il primo termine è latino e designa la scienza del diritto, il secondo fa riferimento al titolo di una raccolta di massime (Aforismi) del celebre medico Ippocrate e sta a indicare la scienza medica.
6 > sofismi: il termine filosofico indica dei ragionamenti corretti in apparenza ma che nella sostanza portano a conclusioni false.
16 > lumera: "luce"; deriva dal francese lumière, a sua volta derivante dal latino luminaria, neutro plurale di luminare (= fiaccola).
17 > sorridendo: il verbo sta qui a indicare non tanto il sorriso vero e proprio quanto il progressivo illuminarsi dell'anima nel momento in cui esprime la sua gioia, il suo amore-carità, parlando.
21 > onde cagioni: da dove fai derivare i tuoi pensieri; "cagionare" da "cagione" (= causa).
22-24 > si ricerna ... si sterna: si tratta di due latinismi. Il primo significa "si torni a esaminare" (da cèrnere); il secondo "si stenda" (da stèrnere).
25-26 > "U' ben s'impingua" ... "Non nacque il secondo": queste parole sono state pronunciate da Tommaso d'Aquino nel canto X del Paradiso (vv. 96 e 114). La prima espressione si riferisce all'Ordine domenicano, nel quale ci si arricchisce spiritualmente se non si va dietro a cose vane (come Tommaso aveva aggiunto subito dopo); la seconda a Salomone, esempio supremo di saggezza ancora insuperato.
28-30 > La provedenza ... al fondo: letteralmente: "la Provvidenza divina, che governa il mondo con quella saggezza che è come un abisso nel quale la vista di ogni creatura umana è vinta prima che possa attingerne il fondo". In altri termini, i disegni di Dio sono inconoscibili per l'uomo.
31-33 > però che ... benedetto: la perifrasi indica la Chiesa, sposa di Cristo per mezzo del sacrificio della croce. Le «alte grida» sono quelle che Gesù emise morendo («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», Matteo 27, 46).
35 > principi: è un latinismo (principes): "capi", "campioni". Si tratta di san Francesco e san Domenico.
36 > quinci e quindi: letteralmente: "da una parte e dall'altra".
37-39 > L'un fu ... splendore: san Tommaso nella Summa teologica afferma che i Serafini, gli angeli che sono al primo posto nella gerarchia angelica (nono cielo), sono detti così per l'ardore di carità, mentre i Cherubini, che si trovano al secondo posto (ottavo cielo), sono così chiamati per la loro sapienza.
41 > qual ch'om prende: è espressione con valore impersonale ricalcata sul francese (in francese on = si; ad esempio, ori dit que - si dice che).
43-45 > Intra ... pende: il Topino è un affluente del Chiascio, che, a sua volta, si getta nel Tevere. Per sottolineare l'importanza di Assisi, la città viene definita attraverso i fiumi e le città che la delimitano geograficamente. D Chiascio discende dal colle di Gubbio, nelle cui vicinanze (monte Ingino) visse vita eremitica Ubaldo Boccassini, vescovo di Gubbio dal 1129 al 1160. L'«alto monte» è il Subasio.
46-48 > onde ... Gualdo: il massiccio montuoso del Subasio ha a occidente Perugia, verso la quale digrada, raffreddandola d'inverno con la neve sulle sue pendici e riscaldando-la d'estate col calore che si riflette sul suo pendio. A nord-est dello stesso gruppo montuoso si trovano le due cittadine umbre di Nocera e Gualdo Tadino, che subiscono anch'esse gli effetti negativi della montagna. Alcuni commentatori interpretano il «grave giogo» in senso politico, come il governo di Perugia sulle due cittadine, avutosi tra il XIII e il XIV secolo.
49-50 > là dov'ella ... rattezza: letteralmente: "nel punto in cui rompe di più la sua ripidità".
50 > un sole: san Francesco.
53 > Ascesi: è la forma dell'italiano antico per Assisi.
55 > orto: è un latinismo, dal latino ortus ("nascita", ma anche "sorgere del sole"). In questo caso il termine latino è appropriato, in quanto, per definire Francesco, era stata usata proprio la metafora del sole.
58 > tal donna: è una metafora per indicare la povertà. Francesco nel 1207 fu citato in giudizio dal padre davanti la curia episcopale («la sua spirital corte») di Assisi, perché rinunciasse all'eredità paterna, in quanto aveva fatto già delle donazioni a favore della Chiesa. Francesco acconsenti e si spogliò pure degli stessi vestiti, abbracciando totalmente la povertà e scegliendola come regola di vita.
60 > la porta ... diserra: «Disserrare la porta del piacere vale propriamente: "aprire l'animo a un qualche oggetto con disposizione compiaciuta, lieta"» (Sapegno).
62 > et coram padre: alla presenza del padre. È un'espressione propria del linguaggio notarile. 0 padre può essere quello spirituale (il vescovo) e anche quello naturale (Pietro di Bemardone).
67-69 > né valse udir ... fé paura: l'episodio è riferito da Lucano (Pharsalia, V, vv. 519-531). Amiclate era un pescatore talmente povero che, non avendo da temere alcun furto, teneva sempre aperta la porta della propria abitazione anche nel periodo più a rischio di scorrerie da parte dei soldati durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo; mostrò indifferenza anche quando lo stesso Cesare si presentò in casa sua.
70-72 > né valse ... croce: l'unione di Cristo e della Povertà, in quanto Cristo stesso mori nudo e quindi povero, è un motivo tradizionale nella letteratura religiosa riguardante san Francesco. La Povertà sali dunque sulla croce con lui, mentre la stessa Madonna rimase ai piedi del sacro legno
79 > Bernardo: Bernardo di Quintavalle, di Assisi, nato verso il 1170 e morto prima del 1246, fu il primo seguace di Francesco, dopo aver rinunciato anche lui alle proprie ricchezze. Fondò il primo convento di frati francescani a Bologna nel 1211.
83 > Egidio ... Silvestro: il primo nacque ad Assisi nel 1190 e morì a Perugia nel 1262. autore di una biografia di san Francesco (Vita aurea). Il secondo era un prete che si convertì alla povertà francescana dopo un sogno. Mori intorno al 1240.
87 > l'umile capestro: è il cordone che cinge il saio dei frati francescani. Questo termine, nella lingua italiana, indica anche la fune con cappio scorsoio che si usava per le impiccagioni, oppure la corda o cavezza con cui si legano gli animali.
9193 > ma regalmente ... a sua religione: Francesco, con i suoi seguaci,tra il 1209 e il 1210 si recò a Roma da papa Innocenzo III (1198-1216) per ottenere una prima approvazione, che fu solo orale, alla sua Regola, la quale fu poi confermata da papa Onorio III nel 1223. Pare che Innocenzo III avesse pronunciato, in questa occasione, le seguenti parole: «La vostra vita ci sembra troppo dura e aspra».
97 > redimita: è il participio passato del verbo di uso letterario "redimire" = incoronare (voce dotta dal latino redimire = cingere, da redimiculum = benda, fascia).
98 > Onorio: è il papa Onorio III, che, come già osservato, con la bolla del 1223 approvò definitivamente la Regola di Francesco.
99 > archimandrita è un grecismo. Il nome deriva dal greco archimandrites, composto di archi- (capo) + mandria (recinto, stalla e poi monastero); quindi è il superiore di un monastero importante.
101 > Soldan: si tratta del sultano d'Egitto al-Malik-al-Kamil, che Francesco tentò invano di convertire al cristianesimo nel corso di una missione in Terra Santa intrapresa nel 1219 insieme ad altri dodici fraticelli. Il piccolo gruppo di frati era stato fatto prigioniero dai Saraceni a San Giovanni d'Acri.
106 > nel crudo sasso: è il monte della Verna, situato fra l'alta valle del Tevere e quella dell'Arno, in Toscana. Qui Francesco ricevette nel 1224 le stimmate («l'ultimo sigillo», v. 107), quando in preghiera gli apparve Cristo in forma di serafino che gli concesse le stimmate o segni delle piaghe prodotte sul corpo di Cristo stesso al momento della crocifissione. Il santo le portò nel costato, sulle mani e sui piedi per altri due anni fino alla morte (1226). Il miracolo è narrato da san Bonaventura da Bagnoregio nella Legenda maior (XIII, 3).
111 > pusillo: è il latino pusillus ("piccino"); qui ha il senso di umile. San Francesco stesso parla dei suoi frati come di pusillus grex (= picco-lo gregge).
117 > e al suo corpo ... bara: sempre secondo il racconto di san Bonaventura, Francesco chiese di essere sepolto nella nuda terra della Porziuncola, la piccola cappella ancora oggi esistente e inglobata nella più grande basilica di Santa Maria degli Angeli, a pochi chilometri da Assisi.
119-120 > la barca di Pietro: è una metafora per indicare la Chiesa; così l'«alto mar» indica le difficoltà in cui la Chiesa stessa s'imbatte sul suo cammino. Il «dritto segno» è la meta celeste.
124-129 > Ma 'I suo pecuglio ... latte vòte: in questi versi si ha una metafora continuata. Il gregge è l'Ordine dei domenicani, che ha desideri diversi da quelli indicati dal suo fondatore, cioè beni materiali come le rendite derivanti dalle cariche ecclesiastiche, e così molti frati smarriscono la retta via allontanandosi dagli insegnamenti di san Domenico e perdendo quella ricchezza spirituale (il «latte») che dovrebbero offrire anche agli altri.
137-139 > perché vedrai ... si vaneggia: la pianta che si rompe («si scheggia») è una metafora per indi-care l'Ordine domenicano che si corrompe. Negli ultimi due versi Tommaso dice a Dante che avrà capito che cosa significa l'aver aggiunto una correzione («se non si vaneggia») alla frase che poteva sembrargli poco chiara («U' ben s'impingua»), correzione che è stata necessaria in quanto l'Ordine non è compatto sulla via dell'arricchimento spirituale, ma in parte è soggetto alla degenerazione.

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PERSONAGGI
SAN TOMMASO D'AQUINO

Nacque a Roccasecca, presso Aquino (attualmente in provincia di Frosinone), da famiglia nobile, nel 1226. Dopo aver studiato all'Università di Napoli entrò nell'Ordine domenicano (1244) contro il volere della famiglia e fu discepolo, a Parigi e a Colonia, di Alberto Magno. Insegnò teologia all'Università di Parigi, Napoli, Roma e Orvieto, al seguito di papa Urbano IV. Morì nel 1274 nell'abbazia di Fossanova. Fu il massimo esponente della filosofia scolastica, incentrata sull'accordo della ragione con la fede, in quanto derivanti entrambe da Dio. Tentò quindi di chiarire i dogmi oggetto di fede con l'ausilio della ragione (filosofia ancilla theologiae, cioè "la filosofia è ancella della teologia"). La filosofia, secondo il suo pensiero, poteva sussistere a fianco della teologia, in quanto entrambe le vie erano valide per giungere alla stessa verità. Cercò di conciliare il pensiero di Aristotele col cristianesimo. La sua filosofia è detta tomismo (da Thomas, forma latina di Tommaso). Scrisse numerose opere, tra cui la famosa Summa theologiae (Compendio di teologia), la Summa contra gentiles (Compendio contro i gentili, cioè contro i musulmani), le Questiones quodlibetales (Questioni su argomenti vari), il De unitate intellectus contra averroistas (L'unità dell'intelletto contro gli averroisti).

SAN FRANCESCO D’ASSISI
Nacque ad Assisi nel 1181 o 1182 da Pietro di Bernardone, un mercante di tessuti. Non si dedicò molto agli studi (sapeva un poco di latino e francese), trascorrendo una giovinezza serena e spensierata. Dopo aver partecipato a varie battaglie e aver tentato la carriera militare, avvenne in lui una profonda trasformazione che culminò nella conversione. Ritiratosi per un mese a meditare nella chiesetta di San Damiano, fu cercato vanamente dal padre. Con quest'ultimo i rapporti si guastarono definitivamente quando Francesco, che aveva venduto alcuni beni di famiglia per sovvenzionare i restauri della chiesa, fu citato in giudizio davanti al vescovo. In tale occasione rinunciò pubblicamente ai propri averi, spogliandosi anche delle vesti e affermando che da allora non avrebbe più invocato il padre Pietro ma il «Padre nostro che è nei cieli» (1207). Anziché dedicarsi alla pratica ascetica o alla vita contemplativa, cercò di rendere partecipi della missione spirituale di restaurazione della Chiesa che intendeva intraprendere altri confratelli, unitisi ben presto a lui. Li chiamò a seguire il suo programma, sulla base dell'affermazione evangelica secondo cui occorre predicare il Regno dei cieli senza avere con sé né oro, né argento, né bisacce, né tuniche, né sandali (Matteo 10, 7 ss.); un programma quindi improntato a un'estrema povertà, che fu la sostanza della Regola presentata al papa Innocenzo III nel 1210, da quest'ultimo approvata oralmente, non senza qualche difficoltà. Una leggenda attribuì allo stesso papa il sogno nel corso del quale avrebbe visto Francesco sostenere con le sue spalle l'edificio della Chiesa pericolante.
Ritornato ad Assisi, cercò invano di recarsi in Oriente e progettò missioni ir quelle terre lontane. Nel 1219 riuscì a raggiungere la Terra Santa ove ebbe contatti col sultano al-Malik-al-Kamil, che cercò inutilmente di convertire Ritornato in Italia, si dedicò a definire la propria Regola, anche per porre ordi ne fra i suoi seguaci tra cui non mancavano contrasti. La Regola fu approvati dal papa Onorio III nel 1223, anno di nascita dell'Ordine francescano. Co corpo indebolito da varie malattie, si ritirò sul monte della Verna, pressi Arezzo, ove ricevette le sacre stimmate o piaghe, simili a quelle di Cristo. Pu provato fisicamente e ridotto quasi alla cecità, nel 1223 si recò a Greccio ove ebbe l'idea di far rappresentare per la prima volta il presepe. Nel 1225 detti il celebre Cantico delle creature. Mori ad Assisi, nella Porziuncola, il 3 ottobri del 1226. Fu canonizzato nel 1228. È patrono d'Italia. Numerosi i cicli pittorici e scultorei che s'ispirarono alla vita del santo (celebre fra tutti quello d Giotto ad Assisi).

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ANALISI DEL TESTO
La condanna delle cure terrene ■ In apertura del canto si ha la trattazione di un motivo tipico del Medio Evo mistico e ascetico, quello del contemptus mundi o disprezzo del mondo. Le attività o gli interessi mondani, terreni, vengono svalutati e ridimensionati. Dante ha fatto propria la dimensione paradisiaca e assume ormai costantemente una prospettiva dall'alto, sia spaziale sia morale. Nei primi dodici versi, introduttivi alla tematica del canto (la svalutazione dei beni mondani e l'esaltazione della povertà nella santa figura di Francesco), domina, tra le altre, un'antitesi spaziale: «quei che ti fanno in basso batter l'ali!» (v. 3), «mera roso in cielo» (v. I i). “Basso-alto" è infatti la coppia oppositiva metaforica fondamentale della Commedia. A ciò si aggiunge un’altra antitesi (legare-sciogliere) a essa collegata: ciò che sta in basso, quindi le passioni mondane e i beni materiali, "involgono" («nel diletto de la carne involto», v. 8), cioè avvolgono, avviluppano, irretiscono irrimediabilmente, distogliendoci dai veri beni spirituali; mentre il privilegiare questi ultimi "scioglie" («da tutte queste cose sciolto», v. 10), ci rende cioè liberi dalla schiavitù delle lusinghe terrene. In questi versi sono passate in rassegna alcune delle principali occupazioni umane, sia nobili sia meno nobili, ma tutte accomunate nella condanna che deriva dalla loro vanità o insensatezza, in quanto «ti fanno in basso batter l'ali!»: vanità che coinvolge l'uomo di legge, il medico o addirittura il sacerdote, come il ladro, il lussurioso o l'ozioso. Nel condannare alcune attività in sé non disprezzabili, come la professione di medico e giurista o la carriera ecclesiastica, Dante intende riferirsi a quelli che le esercitano o intraprendono per il solo amore del denaro e del potere. La lunga elencazione è ritmata sintatticamente dall'anafora del «chi» e dal marcato polisindeto («e... e... e...»). L'eroe di cui si parlerà tra poco, Francesco, è l'esempio più convincente di saggia rinuncia alle ingannevoli attrattive terrene.

I dubbi di Dante e la presentazione di san Francesco e san Domenico ■ Dopo questa parentesi di natura etica, ricomincia la narrazione. La corona dei beati si ferma, ciascuno riprende il suo posto, e uno di loro, san Tommaso, man mano che la sua luce aumenta d'intensità, torna a parlare a Dante per chiarirgli due dubbi. Il primo riguarda il senso della frase «U' ben s'impingua», cioè "dove ci si arricchisce spiritualmente", pronunciata dal santo nel canto precedente e riferita all'Ordine domenicano; il secondo concerne Salomone, definito, nello stesso canto, il più saggio degli uomini. La risposta al primo sarà fornita nel corso di questo stesso canto, ma preceduta dall'ampia biografia di san Francesco, giacché «d'amendue / si dice l'un pregiando, qual ch'om prende» (vv. 40-4I), cioè qualunque dei due santi si prenda in considerazione, Francesco o Domenico, si parla di entrambi «perch'ad un fine fur l'opere sue», perseguirono cioè lo stesso scopo di riformare spiritualmente la Chiesa. La risposta al secondo dubbio sarà data nel canto XIII del Paradiso (vv. 33-111). Com'è possibile che Salomone sia stato l'uomo più sapiente se la massima sapienza umana era in Adamo e Cristo? Salomone, precisa san Tommaso, fu il primo in sapienza non in quanto uomo ma in quanto re, cioè in relazione alle sue capacità di governo.
L'esordio di Tommaso è caratterizzato da un eloquio alto, fitto di latinismi («si ricerna», «si sterna», «consiglio», nel senso di "intelligenza", «principi», nel significato di "capi", "campioni"); presenta un'elaborata perifrasi con ripetute metafore (vv. 3I-33). Questi ultimi versi introducono la consueta allegoria nuziale, tipica del linguaggio dei mistici e anche delle Sacre Scritture, ove per «sposa» è da intendersi la Chiesa e per "sposo" Cristo. La presentazione dei due «principi», Francesco e Domenico, avviene contemporaneamente e inscindibilmente, tanto la loro opera di salvezza e di riforma spirituale della Chiesa è complementare. Occorre precisare subito che, nell'economia generale del Paradiso, ai due santi è dedicato uno spazio analogo con attento e preciso parallelismo e simmetria, dacché l'elogio dell'uno occupa in gran parte il canto XI e quello dell'altro il canto XII, con rispondenze puntuali anche nel numero di versi dedicati alla trattazione di aspetti peculiari della loro vita e opera. Da ciò si deduce facilmente come i due canti siano stati concepiti unitariamente. L'unica distinzione riguarda la caratterizzazione psicologica e la dote peculiare dei due santi:
«L'un fu tutto serafico in ardore;
l'altro per sapienza in terra fue
39 di cherubica luce uno splendore».

La delimitazione spaziale del luogo di nascita e la metafora del sole ■ Ha finalmente inizio il panegirico (o discorso di lode) di Francesco, secondo lo schema agiografico consueto (la predestinazione alla santità, la nascita, la vocazione, le approvazioni papali del suo Ordine, la morte). Si ha dapprima una precisa collocazione spaziale, ampia e dettagliata che delimita, nello spazio altamente simbolico di due fiumi, il luogo di nascita del santo. In quello stesso spazio, o meglio nelle sue vicinanze, visse infatti un eremita, Ubaldo Boccassini che fu poi vescovo di Gubbio; inoltre il fianco occidentale del monte Subasio è definito «fertile»: i due elementi (la presenza di un eremita e la fertilità della pendice del Subasio) connotano positivamente quel territorio, alludendo simbolicamente al grande evento della nascita di Francesco in quel medesimo luogo circoscritto dai due fiumi. Questa complessa perifrasi geografica rientra nei canoni dell'orazione celebrativa, ma allo spazio astratto e idealizzato, tipico dell'agiografia e della leggenda francescana, si sostituisce quello concreto e topograficamente preciso di un determinato territorio, quello umbro.
Anche i nomi e le immagini hanno una forte connotazione simbolica. Francesco, quando nasce, è un sole, per cui il luogo di nascita non deve essere chiamato Assisi, ma «Oriente», ed egli nasce particolarmente splendente e luminoso come quando l'astro diurno sorge nell'equinozio di primavera dal Gange, cioè nel punto più orientale conosciuto allora. Inoltre Assisi si trova proprio a est di Perugia, dirimpetto a quella «Porta Sole» (v. 47) che nel nome sembra anticipare la metafora solare riferita al santo. La medesima metafora è tipica anche della leggenda francescana e trova rispondenza in un passo dell'Apocalisse (7, 2): «Vidi un altro angelo che saliva da Oriente, con le insegne di Dio vivo». L'angelo viene ovviamente identificato con Francesco. Nel nome «Ascesi», la forma predominante nell'italiano antico, c'era implicito anche il significato allegorico dell'ascesa, del salire, secondo il gusto medievale per le etimologie, a dir il vero per la maggior parte fantasiose. E il tema dell'ascesa è fondamentale nel canto, preannunciato fin da questo momento e ripreso alla fine della vita del santo con la sua salita al cielo.

La centralità del motivo della povertà nel san Francesco di Dante ■ La connotazione solare del santo non lo abbandona neppure dopo la nascita, dacché essa è indicata qui col termine latino di «orto» (dal verbo latino orior, oreris, ortus sum, oriri = sorgere, nascere) che rientra nel campo semantico del sole (del resto la parola «oriente» ha la stessa etimologia); ma anche perché, come il sole, Francesco fa sentire subito i suoi benefici effetti sulla Terra:
«Non era ancor molto lontan da l'orto,
ch'el cominciò a far sentir la terra
57 de la sua gran virtute alcun conforto».

Però, soprattutto a questo punto, il panegirico dantesco si stacca dalla tradizione agiografica e assume un'identità particolare. Al centra della biografia dantesca del santo non c'è la sua celebrata umiltà, o la sottomissione alla Chiesa, non troviamo gli aneddoti di cui si arricchisce subito la letteratura agiografica sul santo, quali miracoli o visioni. Dante introduce e sviluppa sostanzialmente un unico motivo, quello della povertà. Essa assume prima le sembianze accattivanti di una donna («ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse [...]», vv. 58-59), di cui egli s'innamora appassionatamente («poscia di dì in dì l'amò più forte», v. 63), poi della sposa di Cristo, suo «primo marito», infine della sposa di Francesco stesso. Per lei non esita a rompere i legami familiari e a guastare definitivamente i rapporti col padre, fino alla rinuncia pubblica dei beni paterni davanti al tribunale ecclesiastico.
La centralità del motivo della povertà è ribadita dal fatto che essa viene menzionata come l'attributo essenziale di Cristo e che, nei suoi riguardi, occupa gerarchicamente un posto più importante della Madonna; infatti «dove Maria rimase giuro, / ella con Cristo pianse in su la croce» (vv. 7I-72), cioè la povertà personificata sarebbe salita insieme a lui sulla croce, mentre la Madonna rimase ai piedi di essa: ciò ad indicare che Cristo morì nudo e quindi in assoluta povertà.
Da tutto ciò deriva l'equazione Francesco = Cristo, in quanto entrambi mariti della Povertà, ma si ricordi che ai versi 32-33 Cristo è definito anche sposo della Chiesa; dunque potremmo dire che in seguito alla proprietà transitiva giungiamo a un'equivalenza fondamentale tra Chiesa e Povertà. I quattro termini vengono così a essere strettamente e significativamente collegati e costituiscono i cardini dell'interpretazione che Dante ha inteso dare della figura del santo.

Il proselitismo e le tre approvazioni della Regola ■ Successivamente la biografia assume sempre più i connotati dell'épos, cioè della narrazione poetica di imprese memorabili, in questo caso dal punto di vista religioso. San Francesco è l'eroe che fa proseliti, molti non esitano a farsi suoi seguaci. Le azioni si fanno rapide, quasi frenetiche, rese con un ritmo incalzante per effetto della frequenza di verbi di movimento («si scalzò», «corse e, correndo», «Scalzasi [...] scalzasi», «sen va»), per la successione di frasi brevi legate dal polisindeto, che sembra dare l'idea dell'affanno della corsa («tanto che 'l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo», vv. 79-8I) o unite per asindeto, che traduce sintatticamente l'agilità dei movimenti:
«Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
84 dietro a lo sposo [...]».

L'insistenza sulla significativa azione dello scalzarsi e del procedere a piedi nudi richiama la corrispondente affermazione evangelica secondo cui occorreva predicare il Regno dei cieli senza avere con sé né oro né argento, né bisacce, né tuniche, né sandali (Matteo 10, 7 e ss.), affermazione che Francesco assunse integralmente come suo programma. i Il poverello di Assisi è animato dal coraggio e non si cura dell'opinione comune (vv. 89-90), ma persegue tenacemente l'obiettivo di fondare il suo Ordine, previa approvazione della Regola (vedi Il sapere del dotto medievale, p. 679), perciò «regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe / primo sigillo a sua religione» (vv. 91-93). Si noti l'avverbio «regalmente», che denota l'atteggiamento fermo, degno di un re. È questo il primo riconoscimento ufficiale, seppure verbale, della Regola; gli altri due sopravverranno con un crescendo d'importanza e di sacralità che non ammetterà più dubbi sulla legittimità di quella. Infatti «di seconda corona redimita / fiu per Onorio da l'Etterno Spiro / la santa voglia d'esto archimandrita» (vv. 97-99). Il papa Onorio III concede l'approvazione scritta, ma agisce come puro strumento dello Spirito Santo («Etterno Spiro»), mentre il riconoscimento assume la forma metaforica di una corona che recinge la testa del santo, definito solennemente con un grecismo del sottocodice'religioso «archimandrita» o "fondatore di un Ordine religioso".
Ma l'operosità del fraticello non conosce ostacoli, neppure di natura geografica: si reca allora con alcuni compagni in Terra Santa per cercare di convertire, ma vanamente, il sultano; poi ritorna in Italia al fine di mettere a frutto la sua predicazione e il suo esempio e stabilisce per sua dimora il «crudo sasso intra Tevero e Arno» ove «da Cristo prese l'ultimo sigillo, / che le sue membra due anni portarno» (vv. I06-I08). Ancora una delimitazione geografica, compresa tra due fiumi, a sottolineare l'eccezionalità di colui che l'ha scelta come residenza, non certo idillica, ma un «crudo sasso», un paesaggio aspro e severo fatto per la meditazione e la preghiera. In mezzo a questa natura impervia e selvaggia riceverà, con le stimmate, la terza e conclusiva conferma al suo apostolato attraverso l'intervento diretto di Cristo medesimo.

La motivazione storica e morale del taglio dato alla biografia del santo ■ La parte conclusiva della biografia è quella ovviamente della morte, ma anche in questo caso l'autore pone l'accento sul testamento spirituale di Francesco, che raccomanda ai suoi fratelli di amare fedelmente «la donna sua più cara», la Povertà, così come poveramente, senza nemmeno una bara, vuole morire lui stesso.
Si deve dare, a questo punto, un'ulteriore motivazione dell'insistenza sul motivo centrale del canto. L'interpretazione dantesca non può prescindere né dalle idee politico-religiose del poeta fiorentino né dalle circostanze storiche dei tempi in cui si trovava a vivere, che sono quelle più volte richiamate: una Chiesa coinvolta negli affari mondani, nel lusso, nel vizio di simonia, ben lontana dal cristianesimo evangelico, guidata da papi teocratici come Bonifacio VIII, che non esitano a usurpare i diritti degli imperatori per sostituirsi a essi nel governo delle cose temporali. Da questa degenerazione derivano il disordine morale e politico e le ripercussioni sul benessere individuale e sociale. Dante ha presente tutto questo e non può non mettere in luce il fulgido esempio di coerenza evangelica di Francesco.
Ecco perché il san Francesco di Dante differisce ad esempio da quello, più o meno contemporaneo, affrescato da Giotto ad Assisi, ove si dà largo spazio a miracoli e visioni edificanti e poco all'ideale ascetico della povertà.

La critica all'Ordine domenicano ■ In sintonia con questo spirito polemico è la chiusa del canto, ove per bocca di Tommaso, dopo un richiamo alla grandezza del collega di Francesco, san Domenico, e alla sua altrettanto grande statura morale e religiosa, si rimprovera aspramente l'Ordine domenicano per la sua degenerazione. Si riprende allora la tradizionale metafora evangelica del gregge, arricchita da quella del cibo; la «nova vivanda» di cui quel gregge «è fatto ghiotto» lo spinge a perdersi in pascoli lontani che lo fanno deviare dalla retta via; perciò quelle pecore non hanno più latte da offrire. La metafora continuata intende alludere alla maggior parte dei Domenicani che, distratti da beni materiali o da occupazioni intellettuali profane, non riescono più a fornire il nutrimento spirituale a chi ne ha bisogno. Esiste, è vero, qualcuno che si stringe ancora intorno al pastore ed è quindi fedele al suo insegnamento, ma sono talmente pochi costoro che c'è bisogno di poca stoffa per cucire le loro tonache.

Postato il 20 aprile 2011

19 aprile 2011

Toh, via l’art. 18 = meno precari

Ichino e LCdM sognano la rivoluzione liberal di Treu e Biagi

di Marco Valerio Lo Prete

Contratto unico a tempo indeterminato, licenziamento libero e più sussidi di disoccupazione. Parla Nicola Rossi

Contratto unico a tempo indeterminato per tutti i lavoratori dipendenti, possibilità garantita per il datore di lavoro di licenziare per motivi economici e sostegno “alla scandinava” per il licenziato: è questa, in sintesi, la proposta avanzata lo scorso fine settimana sul Corriere della Sera da Pietro Ichino (giuslavorista e senatore del Pd), Luca Cordero di Montezemolo (presidente di Ferrari e di ItaliaFutura) e Nicola Rossi (economista, parlamentare fuoriuscito dal Pd e oggi vicino al think tank montezemoliano). Una proposta che due giorni fa ha ricevuto anche l’endorsement del presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Considerato che in ballo c’è la deregolamentazione dei licenziamenti, ovvero il superamento di fatto dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, viene quasi da chiedersi dove sia finita la timidezza di industriali e riformisti vari che nel 2002, quando il governo Berlusconi propose una modifica di quell’articolo dello Statuto, rifuggirono dalla battaglia: “Per noi andare oltre l’articolo 18 vuol dire superare una discriminazione nei confronti di un numero enorme di lavoratori, non solo giovani oramai – dice Nicola Rossi al Foglio – l’apartheid che vige nel nostro mercato del lavoro divide infatti 9 milioni di lavoratori protetti (dipendenti pubblici e di aziende private cui si applica lo Statuto) da 9 milioni di lavoratori dipendenti, tra cui molti precari”. Più flessibilità, meno precari, chiaro. Ciò però non spiega del tutto il ritrovato coraggio di chi latitò nel 2002 e ancor prima nel 2000, in occasione del referendum abrogativo dell’articolo 18 proposto dai Radicali: “Mettiamola così, il sostegno trasversale è dovuto al fatto che noi oggi stiamo chiaramente proponendo di sostituire una tutela normativa che solo nominalmente protegge tutti, come quella dell’articolo 18, con un’altra tutela molto più efficace”. Quale? “Nel nostro progetto non è previsto soltanto un contratto a tempo indeterminato per tutti – osserva l’ex senatore del Pd – Allo stesso tempo viene introdotto un sostegno più significativo al reddito del dipendente licenziato, proporzionale alla durata dell’esperienza lavorativa, e un’assistenza più efficace per ricollocarsi nel mercato del lavoro”.
La flexsecurity nord europea, però, ha un costo. Stato e imprese saranno disposti a sostenerlo? “Gli oneri aggiuntivi li abbiamo stimati e sono pari allo 0,5 per cento in più delle retribuzioni lorde attuali. Si tratta di costi che sarebbero già bilanciati dalla migliore flessibilità che sarà garantita agli imprenditori dalla riforma. Ma comunque, a ulteriore copertura, chiediamo un atto di solidarietà intergenerazionale: si tratta di spostare più in là di un anno l’età pensionabile attuale”. Dopo il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, insomma, dovrebbe cadere un altro tabù: “Non possiamo negare il fatto che oggi, impedendo ai giovani di lasciare la casa dei genitori o di sostenersi autonomamente senza l’aiuto della famiglia, stiamo addossando i costi di una generazione all’altra – osserva Rossi – ma una società civile non dovrebbe mettere i suoi giovani in questa condizione”. L’economista liberista proprio su questo punto, non trattiene la sua delusione: “La sinistra ha del tutto dimenticato cosa voglia dire veramente il termine ‘solidarietà’, a partire da quella che decliniamo come ‘solidarietà intergenerazionale’”.
E con questa chiosa è sistemata l’ala più conservatrice dell’attuale opposizione. Ma cosa dovrebbero dire allora tutti quelli che in questi anni hanno sostenuto la lenta e laboriosa formazione di un apparato riformatore sulla scorta delle proposte di personalità come Treu e Biagi? Chiedere di “riscrivere il diritto del lavoro”, come fate con Ichino e Montezemolo, suona come una sconfessione di tutto ciò: “Assolutamente no – replica Rossi – le riforme del mercato del lavoro hanno funzionato eccome. A dimostrarlo c’è l’andamento del tasso di disoccupazione italiano”, effettivamente ancora più basso rispetto alla media europea, “e il contributo che a ciò hanno dato le nuove forme contrattuali”. “L’errore”, secondo Rossi, “è quello di aver fatto le cose a metà: non abbiamo adeguato il sistema di welfare a questo nuovo mercato del lavoro”.
Eppure, come paventato ieri dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, stabilire d’imperio che i nuovi rapporti di qui in avanti possano essere costituiti solo a tempo indeterminato potrebbe portare a un irrigidimento complessivo e non aiutare la creazione di posti di lavoro: “La nostra proposta – conclude Rossi – non mira a cancellare le forme di contratto che sono evidentemente conseguenti alle esigenze della produzione. La flessibilità va perseguita in modo trasparente, eliminando le espressioni più patologiche della precarietà (contratti a progetto, partite iva fasulle, etc.) ma mantenendo ovvie eccezioni come i contratti a contenuto formativo, quelli di sostituzione temporanea e quelli stagionali”.

«Il Foglio» del 12 aprile 2011