30 maggio 2011

Cari prof, studenti, genitori essere valutati non è "umiliazione"

L'economista Tito Boeri ha scritto una analisi dei test Invalsi su Repubblica. E ha ricevuto molte reazioni, spesso dure, dal mondo della scuola. E ora su Repubblica.it prova a riassumere le contestazioni e rispondere

di Tito Boeri

Sapevo di toccare un nervo scoperto, ma non immaginavo di suscitare reazioni così virulente difendendo i test Invalsi nella scuola superiore con un mio precedente articolo. Sono peraltro a conoscenza solo di una minima parte di queste risposte, presumibilmente quelle più favorevoli perché affidate a messaggi di posta elettronica a me indirizzati, a lettere alla posta di redazione di Repubblica o a blog in qualche modo filtrati. Altre reazioni, presumibilmente più feroci, sono contenute nei blog intrattenuti da docenti che dichiarano di avere postato e vivisezionato il mio articolo. Alcuni docenti giungono fino a minacciare di incatenarsi alla sede del mio giornale. Li prego davvero di non farlo perché 1) il mio articolo non impegna certo Repubblica che ha una sua propria linea editoriale, e 2) il sito che coordino, http://www.lavoce.info/ (forse è questo che si intende per il "mio giornale"), ha solo una sede virtuale, cui difficilmente potrebbero incatenarsi.
Ringrazio comunque chi mi ha scritto per l'attenzione. Non riesco a rispondere a tutti e alcune obiezioni sono ricorrenti. Dunque posso a loro contro-obiettare in questa forma collettiva. Premetto che sono anche io un docente e che mi sottometto periodicamente a valutazioni. Ci sono infatti classifiche standardizzate che guardano alle mie pubblicazioni e al modo con cui vengono citate. Esistono
poi valutazioni degli studenti che seguono i miei corsi e vengono raccolti dati sugli esiti di questi studenti in altri esami e poi sul mercato del lavoro, valutando poi il valore aggiunto dei miei corsi. Certo qualche volta non posso non avvertire un senso di fastidio nel leggere qualche giudizio negativo di studenti o provare gelosia nel vedere che qualche collega più bravo di me mi precede nei ranking, ma, al contrario di chi mi ha scritto, non mi sento affatto "umiliato" da queste valutazioni. Mi sentirei umiliato, sia come docente che come contribuente, se non ci fossero perché vorrebbe dire che molti miei colleghi possono ricevere uno stipendio rimanendo inattivi senza che nessuno se ne accorga e che ogni mio sforzo per migliorare la qualità della ricerca e della didattica non viene minimamente monitorato e riconosciuto.
Alcuni docenti sostengono che i test Invalsi servono come strumento per "propagandare surrettiziamente delle ideologie" nel corpo studentesco. Non capisco di quale ideologia si tratterebbe dato che il metodo è lo stesso dei test Pisa condotti in tutto il mondo. Si tratta di metodiche consolidate a livello internazionale nella costruzione di test di competenza cognitiva. Allego comunque qui sotto alcuni esempi di domande del test Invalsi affinché tutti si rendano conto di cosa stiamo parlando. Dove sta l'ideologia, nelle reazioni ai test o nei test? Ai lettori l'ardua sentenza.
Altri docenti si lamentano della natura fredda dei test che "minano con quattro parole e poche crocette la professione docente", il che, incidentalmente, conferma che non si tratta di test propagandistici. Propongono allora valutazioni di ispettori ,"uomini che giudicano altri uomini" (si tratterebbe per la verità spesso di donne che giudicano altre donne). Non ho mai sostenuto che i test Invalsi debbano essere l'unico strumento di valutazione e concordo che valutazioni che prescindano anche da rilievi strettamente quantitativi siano utili. I test Invalsi sono solo uno degli ingredienti del processo valutativo. Hanno il vantaggio di essere comparabili tra scuole, regioni e addirittura paesi, a differenza delle valutazioni "soft" che molti docenti sostengono di preferire e alle quali, ripeto, non sono affatto contrario. Non vorrei solo che il "ci vuole ben altro" per valutare sostenuto da molti sia solo un modo per non farsi valutare del tutto, rendendo la valutazione talmente onerosa da non poter essere effettuata.
Lo sport nazionale in Italia è riempirsi la bocca di termini come "merito" e "meritocrazia", applicati sistematicamente agli altri, per poi rifiutare qualsiasi metrica, qualsiasi misura della propria produttività. Senza queste misure "merito" è un termine vuoto, perché diventa del tutto arbitrario. E' lo stesso atteggiamento mostrato dai nostri politici quando negano le statistiche ufficiali. Il Ministro Tremonti sostiene spesso che le statistiche dell'Istat sono inaffidabili (guarda caso quando documentano che durante il suo regno l'economia italiana non è cresciuta a differenza che in tutti gli altri paesi Ocse). Non vorrei che un simile atteggiamento affiorasse fra quei docenti che sostengono che i test standardizzati applicati in tutto il mondo sono del tutto fuorvianti.
Mi si contesta ancora il fatto di voler usare i test per differenziare le retribuzioni del corpo docente. A mio giudizio, allo stato attuale, i test servono semplicemente a informare gli insegnanti, gli studenti e le loro famiglie. Proprio per questo proponevo di fare i test in modo tale da poter rendere pubblici i dati scuola per scuola. A proposito: c'è chi contesta la possibilità di mandare ispettori a controllare che gli studenti non copino (talvolta gli stessi che propongono di fare valutare tutti i docenti da ispettori), sostenendo che non ci sono risorse per l'attività ispettiva. Ovvio che si tratterebbe di controlli a campione soprattutto sulle scuole dove si ha il sospetto che si siano riscontrati comportamenti volti a svilire il significato dei test.
Ritengo che in prospettiva, quando i test e altri strumenti di valutazione saranno consolidati, questi strumenti possano essere utilizzati anche per allocare in modo più selettivo le poche risorse disponibili (talmente ridotte che è in discussione la sopravvivenza stessa dell'Invalsi!). La valutazione dell'istruzione è una premessa fondamentale per assegnare più risorse alla scuola. Dato che le risorse sono limitate, occorre evitare in ogni modo di disperderle dandole a istituti che dimostrano di non arricchire ( o di arricchire troppo poco) le conoscenze degli studenti che si iscrivono in quelle scuole. Questo significa che bisogna tenere conto del livello delle conoscenze all'atto dell'iscrizione alla scuola. Premiando le scuole che operano in realtà difficili, che hanno magari punteggi bassi nel test, ma sono in costante miglioramento.
Le reazioni al mio intervento su Repubblica comunque dimostrano che l'Invalsi (e il ministro che in questi mesi si è impegnata soprattutto a difendere la condotta non solo diurna del nostro presidente del consiglio) abbiano fatto di tutto per non informare gli insegnanti. Molte delle domande che sono state poste al sottoscritto, andrebbero in effetti girate all'Invalsi. Mi auguro che molti di coloro che mi hanno scritto, cambino il destinatario e che l'Invalsi dedichi a queste richieste di chiarimento la dovuta attenzione.


«La Repubblica» del 30 maggio 2011

Il costo della rivolta contro i test Invalsi

di Tito Boeri


Solo a settembre sapremo quali sono le conseguenze della "rivolta" contro i test Invalsi nelle scuole superiori, quanti esami sono stati consegnati in bianco, quanti studenti hanno disertato le prove. Sapremo anche quanti docenti hanno permesso che i loro studenti copiassero gli uni dagli altri, rendendo il test di apprendimento del tutto inutile. Ma è tempo già ora di organizzare la rivolta di coloro che pagheranno il costo di queste "agitazioni": i docenti, a partire da chi si è visto invalidare il test sulla propria materia da un collega che magari non li ha neanche informati della sua intenzione di boicottare l'esame, gli studenti e le loro famiglie. La rivolta contro l'invalidazione degli Invalsi dovrebbe andare ben al di là della difesa di queste prove. Come tutti i test, anche gli Invalsi sono perfettibili, a partire dalle modalità con cui vengono svolte e valutate le prove. Ci devono essere ispettori che controllino che agli studenti non venga permesso di copiare e i risultati devono essere valutati da docenti diversi da quelli degli allievi che hanno sostenuto la prova, che hanno tutti gli incentivi a far fare bella figura ai propri studenti. Bisognerebbe, al contempo, raccogliere informazioni sugli studenti assenti alle prove in modo tale da dissuadere gli istituti dall'incoraggiare assenze selettive degli studenti con le performance peggiori. A questo punto i risultati dei test potrebbero essere resi pubblici, scuola per scuola senza timore di fornire segnali fuorvianti alle famiglie. Che devono comunque chiedere alle scuole informazioni aggiuntive rispetto ai test.
Ad esempio, nell'era di Internet ogni docente dovrebbe affiggere sulla pagina web della scuola una nota in cui descrive a grandi linee come intende organizzare il programma di insegnamento e illustrare i propri metodi didatticie criteri di valutazione. Il nostro sistema scolastico permette alle famiglie, soprattutto nelle grandi città, di scegliere la scuola a cui iscrivere i propri figli. Ci sono vincoli in questa scelta, ma molto meno che in altri paesi, dove l'iscrizione è dettata unicamente dalla residenza. Questa maggiore possibilità di scelta dovrebbe fondarsi su informazioni adeguate sul valore aggiunto offerto dai diversi istituti alla formazione di chi si prepara per il mondo del lavoro. Invece paradossalmente in Italia ci sono meno informazioni che altrove sui contenuti formativi dei programmi didattici, sugli sbocchi professionali e sull'accesso all'università dei diplomati nei diversi istituti. A cosa si deve questo paradosso?
Ci sono sicuramente barriere di natura ideologica ad ogni tipo di valutazione svolta dall'esterno. C' è poco da argomentare contro i pregiudizi. Bene ricordare un vecchio adagio popolare: "se non ti poni il problema di misurare una cosa, significa che quella cosa per te non ha alcun valore". Chi non vuole misurare la qualità dell'istruzione, non assegna alcuna importanza alla scuola. C' è poi il rifiuto dei test standardizzati. Molti docenti ritengono che solo loro siano in grado di definire parametri di valutazione adeguati, che tengano conto della specificità del loro programma di insegnamento. La ragione ultima, talvolta inconsapevole, di queste obiezioni è che chi viene valutato vorrebbe sempre costruirsi il proprio test. Quelli standardizzati servono proprio ad evitare che i docenti scelgano di adottare criteri di valutazione favorevoli ai propri studenti, dunque a se stessi. E permettono di svolgere comparazioni del livello di apprendimento prima e dopo l'operato di un docente, oltre che fra classi e scuole diverse. Ci sono poi i timori di alcuni docenti che la valutazione possa ritorcersi contro di loro. Nel caso dei bravi docenti sono paure del tutto infondate: i miglioramenti compiuti dagli studenti nelle loro materie vengono ben monitorati da questi test che, non a caso, sono in genere molto coerenti fra di loro.
Non è neanche vero che le prove distolgano le scuole dal perseguimento dei programmi didattici inducendole a preparare gli studenti per i test, anziché perseguire i programmi didattici. Le conoscenze che i test intendono valutare sono parte integrante degli standard minimi educativi. E non è affatto detto che il cosiddetto "teaching to the test", insegnamento finalizzato a una migliore performance nel test, sia efficace. Ma forse gli ostacoli più forti al miglioramento delle informazioni sulla qualità del nostro sistema scolastico vengono dalla politica. Senza questi dati non è possibile valutare le tante piccole modifiche, più di facciata che di sostanza, apportate da ministri che vogliono solo apporre una bandierina, mostrare di avere fatto una "riforma" che immancabilmente porta il loro nome. La mancanza di valutazione rafforza la discrezionalità della politica. Può fare tutti i cambiamenti che vuole, magari definendoli sperimentali. Tanto poi non ci sarà nessuno in grado di valutarne gli effetti.
I test standardizzati permettono di valutare queste pseudo-riforme. Ad esempio, uno studio condotto da Erich Battistin, Ilaria Covizzi e Antonio Schizzerotto dell'Irvapp di Trento e basato proprio sui test Invalsi ha dimostrato che il ripristino dei cosiddetti esami a settembre (al posto del recupero dei debiti formativi in corso d'anno) ha accentuato le differenze quanto a conoscenze linguistiche tra studenti liceali e studenti di scuole tecnico-professionali, peggiorando la qualità dell'istruzione soprattutto per chi viene da famiglie con redditi più bassi. Chi oggi rifiuta le valutazioni in nome dell'egualitarismo dovrebbe riflettere su questo risultato. Senza le informazioni offerte dai test standardizzati la battaglia contro la scuola di classe rischia di avere le armi spuntate.

«La Repubblica» del 25 maggio 2011

Polverosa icona libertina con più fan che lettori

Padre della trasgressione e della narrativa «’ggiovane» degli anni Ottanta ormai ha fatto il proprio tempo

di Tommy Cappellini


Resta niente, di Pier Vittorio Tondelli, eccetto, come prevede la legislazione direttiva del postmoderno, il personaggio. E restano i suoi fan. Questi ultimi, grazie alla straordinaria mitosi cellulare della cultura gay, non mancano. Già, ma i lettori veri e propri? Alla Bompiani, quando gli si chiede il venduto di Tondelli, di cui hanno raccolto le opere in un unico volume nella stessa collana di Saint-Exupéry e Marguerite Yourcenar, nicchiano. Come accade quando si va a scavare sotto il marketing alla ricerca della sostanza. E non è novità che oggi si faccia marketing sulla nostalgia.
Con Tondelli, infatti, siamo dalle parti del vintage anni Ottanta, quando il Nostro, un po’ come Madonna, era sincero e provocatore, forse perché esisteva un residuo di moralità da abbattere. E fu così che, esattamente nel 1980 e like a virgin, Tondelli uscì con Altri libertini, il più autentico dei suoi titoli, sequestrato per oscenità dal procuratore generale dell’Aquila e ripubblicato da Feltrinelli cinque anni orsono in una speciale edizione, appunto, vintage. Ma ancora: quanti se ne nutrono? Pare che venda qualcosa di più Camere separate, romanzo successivo di un decennio e impregnato di quella casalinghitudine rosé che attualmente è il desiderio più pressante della comunità omosessuale, Ivan Cotroneo docet. Lo stesso percorso, insomma, che ci ha portato da Michel Foucault a Umberto Galimberti. E che, per via della prosa lirica e stucchevole, ci ha poi dato un Erri De Luca.
Detto questo, molto della biografia di Tondelli è considerevole: ha aperto la strada alla letteratura giovanile così come la conosciamo, espressione di una gioventù disgregata, che si consumava (e si consuma) nel consumo. Una subcultura. È pure stato talent scout e operatore culturale: a lui dobbiamo la scoperta di Silvia Ballestra, Giuseppe Culicchia, Andrea Canobbio e la collana «’ggiovane» Mouse to mouse per Mondadori, chiusa anzitempo (molto «anni Ottanta» fin dai titoli: Fotomodella di Elisabetta Valentini e Hotel Oasis di Gianni De Martino). Sempre a lui si deve il concetto editorial-commerciale di «under 25», poi declinato in altre modalità alfanumeriche, nonché il ricordo della casa editrice Transeuropa con cui collaborò e il carattere operativo degli editor di oggi, maestri molto fraterni e poco paterni. Come lui. I suoi titoli, però, rimangono a impolverarsi sugli scaffali dei drop out diventati avvocato, comprensibilmente vicino a quelli di David Leavitt. Nel migliore dei casi, vicino a quelli di Pasolini, lontano da Tondelli per il disperato distacco con cui urtava la propria epoca. Tondelli, al contrario, preferiva immergersi nel proprio tempo. Fino a sparirvi. Non è un caso che negli stessi suoi anni uscivano Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino e Il nome della Rosa di Eco: al di la delle vendite, come giustamente è stato notato, fu il momento preciso in cui la letteratura italiana arrivava «al capolinea della sterilità». A questo «analfabetismo letterario di ritorno» Tondelli diede l’imprimatur.
Oggigiorno abbiamo superato, volenti o meno, l’orizzonte della sua narrativa. Le fotografie di Tondelli che vediamo nel volume, comunque prezioso, Riccione e la Riviera vent’anni dopo, pubblicato da Guaraldi, sono commoventi. In alcuni casi struggenti. Non si dava delle arie, era persona piacevole e generosa, di una timidezza patologica, pur essendo titolare di best-seller, e vestiva in un modo impossibile e simpatico. Purtroppo, tra la via Emilia e il West, tra notti in spiaggia e dinner party, la sua letteratura, per dirla con Baglioni, è un sogno «sopra un treno che non è partito mai».


«Il Giornale» del 30 maggio 2011

Non fate più copiare gli studenti

Un appello culturale

di Giovanni Belardelli


L'educazione alla legalità comincia proprio con i valori della scuola


In questi giorni un gruppo di insegnanti e presidi va raccogliendo adesioni in calce a un appello che invita quanti saranno commissari e presidenti di commissione negli esami di terza media o di maturità a non «chiudere un occhio» se qualcuno copia e a non «fornire ai propri allievi traduzioni o soluzioni» durante lo svolgimento delle prove d'esame. Si tratta di un appello (si veda il testo in sul sito gruppodifirenze.blogspot) che sarebbe pleonastico nella maggior parte dei Paesi europei. E ancor più risulterebbe superfluo negli Stati Uniti, dove gli studenti universitari, nei loro «codici d'onore», s'impegnano non solo a non copiare ma - fatto per noi inconcepibile - a denunciare chi copia. Ma certo pleonastico non è in Italia, dove non sono rari i casi di insegnanti che fanno proprio le due cose appena citate: tollerano che si copi o addirittura forniscono loro stessi un «aiutino» agli studenti. Il fatto è che nella nostra cultura il copiare a scuola è spesso considerato come qualcosa di lecito, perfino come un atto di altruismo (da parte di chi fa copiare), mentre di solito percepiamo poco o nulla quanto simili comportamenti penalizzino l'equità e il merito, che richiedono il rispetto di regole certe nella valutazione di ciascuno.
I promotori dell'appello (al quale hanno aderito la Uil Scuola e l'Associazione nazionale presidi) scrivono di ritenere che la maggioranza degli insegnanti agisca di norma in modo corretto. Eppure il fatto stesso che abbiano sentito il bisogno di prendere una simile iniziativa lascia supporre che la minoranza che si comporta diversamente non sia quantitativamente insignificante. Del resto, l'anno passato l'Invalsi, i cui test in italiano e matematica ormai fanno parte integrante degli esami di III media, dovette invitare gli insegnanti delle discipline oggetto della prova a rimanere fuori dalle aule, per evitare appunto che loro stessi potessero suggerire agli studenti, come era avvenuto l'anno prima.
Dietro quelli che l'Invalsi chiamava pudicamente i «comportamenti opportunistici» di studenti e insegnanti non c'è soltanto una certa propensione nazionale al buonismo e all'indulgenza; c'è piuttosto, per quel che riguarda specificamente il corpo docente, la diffusione di una pedagogia fondata sulla comprensione e sul dialogo (cose sacrosante, naturalmente), che però non riesce ad affiancare all'una e all'altro - quando sia necessario - la sanzione. Ecco come un insegnante - la cui testimonianza si trova nel libro che un sociologo, Marcello Dei, ha appena pubblicato sull'argomento (Ragazzi, si copia, Il Mulino) - ha sintetizzato il proprio comportamento di fronte all'alunno sorpreso a copiare: «Il mio atteggiamento è di confronto. Voglio capire perché lo sta facendo, voglio discutere con lui, capirne le ragioni, e poi prendere delle decisioni, anche lasciarlo copiare o smettere di copiare. Ecco, dipende dalla discussione che ne nasce». Si tratta evidentemente di un caso limite, ma l'idea che il copiare non si configuri come un comportamento in quanto tale condannabile è invece abbastanza diffusa. In tanti insegnanti, si ricava dalla ricerca di Dei, sembra prevalere un atteggiamento fatto di disinteresse per il problema, di bonaria indulgenza, a volte di una sostanziale giustificazione del copiare che chiama magari in causa l'insicurezza psicologica dello studente o il fatto che, se quest'ultimo copia, è solo perché l'insegnante ha evidentemente spiegato male. Né è da sottovalutare il fatto che, fingendo di non vedere chi copia, un insegnante evita le scocciature a non finire - dalle proteste dei genitori all'eventuale ricorso al Tar - che un diverso comportamento avrebbe potuto provocare. Eppure, ci sono pochi dubbi sul fatto che, come scrivono i promotori dell'appello per la correttezza degli esami, l'educazione alla legalità comincia proprio con l'esempio di comportamenti coerenti con i valori e i principi che la scuola deve insegnare.

«Corriere della Sera» del 30 maggio 2011

26 maggio 2011

U. Saba, Mio padre è stato per me «l’assassino» (Segre)

Analisi del testo tratta dal volume Leggere il mondo, Ediz. Scolastiche Bruno Mondadori, vol. 8, pp. 80-81

di Segre - Martignoni


Mio padre è stato per me "l'assassino";
fino ai vent'anni che l'ho conosciuto.
Allora ho visto ch'egli era un bambino,
e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d'una donna che l'ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

"Non somigliare - ammoniva - a tuo padre":
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in
antica tenzone.


Il terzo dei quindici sonetti di Autobiografia ha come protagonista il padre (incontrato per la prima volta a vent'anni), ma il suo significato complessivo è sintetizzato nel verso finale («Eran due razze in antica tenzone»), dove Saba ricorda il radicale contrasto, di cultura e temperamento, che divise i genitori ancor prima della sua nascita.
Commentando il ricorso a una forma metrica chiusa, Saba rivela come la scelta del sonetto gli sia servita proprio «a chiudere e isolare i diversi periodi della sua vita, cavando di ciascuno l'essenziale» (Storia e cronistoria del Canzoniere): la madre ebrea e il ghetto, il padre «assassino» e la zia «benefica», il primo amico, la vita militare e la guerra, Firenze e Bologna, ma soprattutto Trieste e Lina.
Prima di confluire nel secondo volume del Canzoniere, Autobiografia (scritta in realtà nel 1922) è uscita nel 1923 con la serie di sonetti I prigioni.


Analisi del testo

Il sonetto riassume il dramma che segnò l'infanzia di Saba: l'assenza del padre, conosciuto solo attraverso le recriminazioni materne («l'assassino»; «Non somigliare... a tuo padre»), poi incontrato e valutato per la prima volta in modo diverso solo a vent'anni (irresponsabile come un bambino); l'atmosfera pesante dell'ambiente familiare.
In primo piano campeggia la figura paterna, descritta nei tratti fisici e soprattutto psicologici: l'immaturità e la leggerezza (gaio e leggero...; come un pallone, vv. 9-11), il fascino ma anche l'incapacità di stabilire rapporti duraturi (più d'una donna l'ha amato e pasciuto, v. 8).
Al contrario, la madre, cui sono parzialmente dedicate le terzine, tutti sentiva della vita i pesi (v. 10). L'inversione sintattica ha una netta funzionalità semantica ed enfatizza la fatica del vivere che in Saba connota sempre la figura materna: la madre rappresenta quindi l'autorità, il dovere, la punizione, mentre il padre la trasgressione, la fuga, il principio del piacere.
Il poeta sente nelle proprie contraddittorietà interiori il persistere di due mentalità inconciliabili, che riconduce all'opposizione fra la cultura ebraica (della madre) e quella cattolica (del padre). Giunto alla maturità, anche con il supporto della terapia psicoanalitica, Saba ricomporrà il dissidio: «... i parenti m'han dato due vite, / e di fonderle in una io fui capace» (Preludio, vv. 14-15).
Con insolita severità, in Storia e cronistoria del Canzoniere il poeta ammette la «sgradevolezza» di molti versi di Autobiografia, riscattata però – aggiunge – dal «calore dell'ispirazione». Tale sgradevolezza sarebbe dovuta alla presenza di «licenze poetiche» e di «termini arcaici» dentro il consueto «linguaggio piano e famigliare». Esemplifichiamo: la preposizione articolata pel (v. 7); l'aulico e arcaico tenzone (v. 14). Si aggiungano le ardue inversioni sintattiche necessarie a piegare la rigida struttura del sonetto alla fondamentale narratività autobiografica: il dono ch'io ho da lui l'ho avuto (v. 4); Di mano ei gli sfuggì (v. 11) ecc. e il già citato iperbato con anastrofe del v. 10.
Un'interessante particolarità deriva dalla compagine metrica: è stato osservato (Pinchera) che questo sonetto è scandito per distici («coppie di versi modulati per chiave dattilica»), il che destruttura la compattezza del sonetto tradizionale.

Postato il 25 maggio 2011

Addio a Giudici, semplicità come poesia

1924 - 2011 Scompare una delle voci più originali del '900: l'esperienza alla Olivetti, il soggiorno a Milano, l'impegno politico
di Paolo Stefano

Nei suoi versi solitudini urbane e angosce degli impiegati schiacciati dalla routine La scelta Negli anni 60 si definì uno dei tanti intellettuali non comunisti che trovarono nel Pci una speranza di socialdemocrazia


Una volta, in un'intervista del 2000, Giovanni Giudici disse che Saba gli aveva insegnato la pazienza: se te lo meriti, la vita viene incontro alle tue parole. Giudici andava fiero di aver avuto quella pazienza, anche perché per natura e carattere sembrava piuttosto un tipo impaziente. Basti guardare la sua biografia a zig zag.

Nato nel 1924 a Le Grazie, nei pressi di Portovenere, la perdita della madre a tre anni gli procura una «voragine di privazione» destinata a dilatarsi con gli anni e a improntare la sua poesia sullo «sgomento di esistere». Con il padre, che nel frattempo si sposa in seconde nozze, si trasferisce a Roma, dove frequenta collegi cattolici e dove, tra mille difficoltà economiche, gli riesce non semplice dissociarsi «dal poco rispettabile ceto dei morti di fame». Dopo un'iscrizione fugace a Medicina, voluta dal genitore, prevale la passione per la letteratura e decide di cambiare corso prima di unirsi all'antifascismo comunista, passando dopo l'8 settembre all'attività clandestina. Pendolare tra la sua Liguria e Roma, dopo aver passato sette mesi nella Guardia di Finanza, Giudici riprende gli studi e grazie all'amico Ottiero Ottieri conosce il vecchio sacerdote Ernesto Buonaiuti, che chiamerà «il mite eresiarca dei miei vent'anni». Eccola l'impazienza: l'educazione cattolica e l'adesione al partito Socialista (e poi al partito Comunista), la poesia e i primi racconti, le letture di Quasimodo, Sereni, Penna, Saba, le prime traduzioni da Eliot, ma anche la riflessione su Charles Péguy, Ernest Renan e Anatole France. Tra i propositi con cui apre il 1946 c'è quello di «seguitare il combattimento su tutti i fronti di battaglia», in primis letteratura e politica, che rimarranno i due interessi prevalenti della sua vita, insieme con il giornalismo, a cui si dedica dall'anno dopo, cronista e poi redattore dell'«Umanità», ma anche collaboratore dell'«Espresso». Fino al 1956 sarà impiegato degli uffici romani dell'USIS (United States Information Service). Il primo volumetto di poesie, Fiori d'improvviso, pubblicato a sue spese, è del 1953. Saba commenterà, per lettera, il suo esordio segnalando l'ascendenza montaliana e sabiana della sua ispirazione, elogiando la costruzione del verso, spronandolo a sperimentare «qualcosa che muova di più l'immaginazione» e augurandogli («non all'uomo, al poeta») «una qualche esperienza di vita: un grande dolore, un grande amore». L'amore Giudici l'aveva appena trovato in Marina Bernardi, sua futura moglie. Il dolore se lo portava dentro da sempre, ma forse Saba non lo sapeva. Giudici si affermerà un decennio dopo, con L'educazione cattolica, quando già da anni era stato assunto come impiegato della Olivetti a Ivrea, circondato da economisti come Franco Momigliano, sociologi come Luciano Gallino e Roberto Guiducci, dirigenti-scrittori come Paolo Volponi, collaboratori come Franco Fortini, Giorgio Soavi, Leonardo Sinisgalli, Geno Pampaloni. Da Ivrea a Torino, da Torino a Milano, le amicizie sono innumerevoli, così come le collaborazioni a giornali e riviste (prima tra tutte «Comunità», poi il «Corriere» e «l'Unità»). A Milano sarà compagno di stanza di Fortini, che sarebbe stato per lui «una specie di direttore di coscienza, che agiva sui giovani della "nouvelle gauche" come un Papa». La Milano del boom economico diventerà la sua città: conosce, tra gli altri, Montale, Sereni, il giovane Raboni e Vittorini, che nel celebre numero del «Menabò» (settembre 1961) dedicato a Letteratura e Industria ospita una serie di sue poesie con il titolo Se sia opportuno trasferirsi in campagna. Grazie a Fortini si avvicinerà al gruppo dei «quaderni piacentini» di Fofi, Cherchi e Bellocchio, si dichiara uno dei tanti intellettuali non comunisti che trovano nel Pci una speranza per realizzare la socialdemocrazia in Italia. Nel 1965 esce una raccolta antologica delle poesie del decennio precedente, La vita in versi, ed è lo stesso Fortini a segnalare l'amico come uno dei massimi esponenti dell'«internazionale crepuscolare».

In realtà senza rendere pienamente ragione della complessità solo apparentemente piana che fa di Giudici uno dei massimi poeti del Novecento, della necessità biologica della sua biografia in forma poetica (Autobiologia è la raccolta-chiave del '69), di quel programmatico abbassamento dei toni, che lo porta a una inquieta colloquialità, molto leggibile ma capace di trasmettere, con una forte dose di ironia, la solitudine angosciante e quasi kafkiana dell'individuo schiacciato dalle dinamiche del lavoro in uno scenario urbano-industriale restituito nei suoi tratti anche minimi. «Forse nessuno - ha scritto Zanzotto - ha rappresentato come Giudici, con volontà e insofferenza, consciamente o per coazione, il vissuto dell'uomo impiegatizio nella sua versione più tetra». La realtà messa in scena da Giudici attraverso un personaggio-maschera, smarrito e alienato alter ego dell'autore, si spinge ai limiti del surreale e dell'allucinazione. Con perfetta consequenzialità, Raboni ha detto che «la tentazione del non essere» veniva vinta da Giudici attraverso «il rifiuto del non dire». O forse, si potrebbe affermare, con Cesare Viviani, che Giudici «ha voluto sfidare la comunicazione: la vicenda dell'uomo sospeso nel vuoto dell'universo, il desiderio di conoscere l'angoscia di un ignoto irrimediabile possono anche essere detti - ma quanto è difficile! - con la semplicità del linguaggio comune». Nelle raccolte poetiche degli anni Settanta, Giudici non abbandona il suo ductus umile ma la scena si apre, sperimentando formule via via di prosa comico-grottesca o di frammenti memoriali da cui emergono oscuri traumi, sensi di colpa, ferite non risanabili («Nulla di giusto si compie senza dolore»).

Ma più in là la ricerca formale, esercitata anche nella intensa attività di traduttore, si impenna in soluzioni altamente letterarie, come nel libro più sorprendente, Salutz (1986), dove il poeta reinventa il sonetto per attraversare vari gradi dell'avventura amorosa riappropriandosi della tradizione petrarchesca. Quasi a voler anticipare nella forma il tema-guida della reclusione e dell' isolamento reso più esplicito in Fortezza (1990) e contraddetto dall'ulteriore apertura e affabilità delle ultime raccolte: diversamente dal frate incarcerato della raccolta precedente, in Quanto spera di campare Giovanni (1993), l'io narrante si trova ad abitare in una casa sul mare e può dire finalmente: «Mai ebbi un abitare / Così librato senza un prima e un poi». Lasciata Milano quasi un decennio fa, Giudici era tornato alle Grazie, dove era nato. Da tempo era entrato nella zona grigia di una malattia che lo rendeva estraneo a tutto, e lì forse avrebbe potuto ripetere serenamente quel che scrisse in una delle ultime poesie: «Navigando la mia mente / Dove qui nessuno parte / Vacuo tempo ricavando / Nuovi cieli, nuove carte».

«Giovanni Giudici, con la sua poesia e il suo impegno civile, ha dato tanto alle nostre comunità. Non ce ne dimenticheremo. Il prossimo 18 giugno, nel corso della festa della Marineria, i comuni del Golfo dei Poeti ne onoreranno la memoria». Lo annunciano Massimo Federici, Emanuele Fresco e Massimo Nardini, rispettivamente sindaci di La Spezia, Lerici e Porto Venere. In una nota i sindaci ripercorrono la vita del poeta dalla nascita, alle Grazie, nel comune di Portovenere, il 26 giugno 1924, dove oggi alle 17 si svolgono i funerali, fino all'inizio degli anni Novanta, quando tornò e si dedicò anche all'impegno politico locale. Giudici visse a lungo a Roma, dove studiò e iniziò la sua attività di poeta; poi a Ivrea e Torino, dove lavorò come copywriter all'Olivetti fino al 1958, quando si trasferì a Milano.



«Corriere della Sera» del 25 maggio 2011

Un artista cittadino conosciuto sul tram

di Franco Cordelli

Il poeta muore, noi prendiamo in mano i suoi libri, li sfogliamo, ritroviamo quella voce inconfondibile. La voce di Giovanni Giudici si fa ascoltare, non è mai baritonale o tenorile, non è mai «poetica»; e però, per esibire quest'abito di umiltà, così contrario all' esibizione, deve scartare di lato, arrestarsi sul più bello, girarsi da un'altra parte senza che noi (noi lettori, noi ascoltatori delle sue «prove di teatro», come s'intitola una poesia del 1977), senza che noi, dicevo, ci si accorga della sua abilità, della sua prodigiosa tecnica: una delle più elaborate e delle meno visibili del secondo Novecento. Con Giudici ho parlato una sola volta. Lo incontrai in un tram diretto a piazza Cavour. Scendemmo alla stessa fermata, il colloquio continuò per poco. Pensai che averlo visto in tram era simbolico. Un tram, nella sua Milano, lui sorridente, cordiale, cittadino fino al midollo. Ma che tipo di cittadino, ovvero di poeta, fu Giudici? Del cittadino ossessionato dalla città, ad essa morbosamente vincolato, nessuno ha interpretato con così profondo sentimento i tratti salienti, inclusa la sua stessa nevrosi. Il più accurato e fedele interprete della sua opera è stato Alfonso Berardinelli: «Giudici è un poeta senza miti, leggendo il quale a nessuno può venire in mente di mitizzare la poesia e i poeti. Si leggano i suoi versi, che sono probabilmente i più melodici, i più abilmente dissonanti della poesia italiana recente. E si dimentica la poesia-valore, la poesia-mito (...) Giudici è l'esatto contrario di Pasolini, che instaura incessantemente il mito di se stesso come poeta scrivendo un po' come viene, sicuro com' è di trovarsi sempre, per natura e per destino, nella grazia della poesia». Pure, benché controvoglia, a Giudici sono toccati i suoi miti. Il tema, ovvero il mito, della «vita in versi», ossia della vita e della poesia l'una contro l'altra armate eppure solidali, complici: «Inoltre metti in versi che morire/ è possibile a tutti più che nascere,/ e in ogni caso l'essere è più del dire». Ciò, fu tuttavia detto. Altro mito: il lavoro. Andrea Zanzotto osservò come il personaggio di Giudici, per quanti abiti mutasse nel corso della giornata e del tempo, era l' impiegato: di questo tipo umano nella società industriale Giudici spiò il grigiore, congetturò la soffocazione. Non per nulla uno dei suoi poemetti più belli e famosi resta Se sia opportuno trasferirsi in campagna, cioè andare via, fuggire (dalla città - dove si lavora, dove si è «impiegati»). E non per nulla (terzo mito) il padre fu una specie di suo doppio, quel padre specializzato nel nascondersi, nello scantonare dall' esistenza, nel tentativo di sfuggire ai creditori: Il male dei creditori è un altro suo canonico titolo. Con quel padre, in questa città, tormentato dal lavoro, schivando ogni rischio di «poesia», cosa per sé sognò il poeta Giovanni Giudici? Un punto di semplice, umana nobiltà: «In verità io non voglio separare e distinguere./ Resterei solo troppo a lungo - più della mia/ durata - e amo invece la compagnia».

«Corriere della Sera» del 25 maggio 2011

20 maggio 2011

Letteratura latina: dai Severi al Tardo antico

di Francesco Toscano





1. QUADRO STORICO

• alla morte di Commodo (192) il titolo imperiale fu messo all’asta e, solo grazie alla pressione delle legioni della Pannonia Superiore, si afferma Settimio Severo (193-211), che instaura una monarchia militare. Per le sue origine africane favorì la diffusione di culti orientali.
• Caracalla (211-218) è ricordato per la Constitutio Antoniniana, l’editto con cui si estendeva la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, soprattutto per incrementare le entrate fiscali. Venne così ulteriormente minato il predominio politico e culturale di Roma, anche se va registrato l’ampio diffondersi del diritto romano in tutto il territorio dell’impero.
• dopo i brevi regni di Elagàbalo (218-222) e di Alessandro Severo (222-235) si apre un periodo di anarchia militare.
• solo Diocleziano (284-305) cercò di riformare l’impero disfatto da scorrerie barbariche, dalla crisi economica, dall’inflazione sempre crescente. Divide l’impero in due parti affidate a due «Augusti» e a due «Cesari» che sarebbe succeduti ai primi dopo 20 anni (c.d. Tetrarchia). Si stabiliscono quattro capitali (Nicomedia, Milano, Sirmio, Treviri) e Roma è fuori (ne deriva un concreto policentrismo culturale e linguistico). Cercavano di intervenire contro l’inflazione nel 301 con l’editto sui prezzi; la riforma fiscale e territoriale bloccò il dinamismo della società romana.
• nel 312 emerge la figura di Costantino che sconfigge Diocleziano e che nel 324 sconfigge Licinio in Oriente concentrando su di sé il potere. Costantino concede nel 313 la libertà di culto a tutti i cittadini e favorisce i cristiani, cercando anche di intervenire in questioni dottrinali (convoca il concilio di Nicea nel 325 contro Ario). Nel 330 proclama Bisanzio nuova capitale.
• dopo la parentesi “pagana” di Giuliano (361-363), Teodosio (379-395) ripristina la politica costantiniana. Nel 380 con l’editto di Tessalonica rende la religione cristiana l’unica consentita, definendo perseguibile il paganesimo. Nel 395 divide l’impero in due sancendo la superiorità dell’Oriente.
• già dalla fine del IV sec. d.C. si sente forte la pressione di popolazioni germaniche contro il limes danubiano e renano. All’inizio furono accolti grazie alla stipula di foedera i Visigoti, poi i Vandali e gli Ostrogoti.
• nel 404 la capitale dell’impero d’Occidente diventa Ravenna. Dopo la morte di Stilicone Roma viene saccheggiata dai Visigoti nel 410 e dai Vandali nel 405. Nel 476 Odoacre, un generale barbarico, depone Romolo Augustolo e fa atto di sottomissione all’imperatore d’Oriente, mettendo fine all’impero Romano d’Occidente.

Leggere da soli:
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, pp. 130-131, sulle ipotesi relative alla fine del mondo antico
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, p. 154, sul rapporto fra gli imperatori del IV secolo e il Cristianesimo



2. IL RAPPORTO FRA CULTURA E RELIGIONE

• difficile fu il rapporto fra lo stato e il Cristianesimo, anche a causa di leggi ambigue, passibili di interpretazione favorevoli o contrarie. I cristiani pur perseguendo una religio illicita, erano integrati nella vita pubblica: non si opponevano all’autorità costituita (il c.d. lealismo - cfr. Tacito), anzi rispettavano le leggi come fosse un obbligo di coscienza davanti a Dio. Ciò nonostante ci furono persecuzioni gravissime, come quella del 250 promossa da Decio, e quella del 301 da Diocleziano.
• spesso vennero criticati calunniando l’absurdum cristiano del Dio fattosi uomo e risorto per salvare ognuno, ma il contenuto intimo e vero del messaggio era la risposta cercata anche dalla cultura “alta” dei pagani.
• per quasi due secoli il Cristianesimo non produsse cultura (anzi, molti intellettuali convertiti smisero di essere intellettuali, come Tertulliano, Cipriano, Mario Vittorino), perché secondo alcuni la religione cancellava la sapienza pagana: si doveva rifiutare la filosofia e le sue manifestazioni artistico-letterarie
• ma ci fu anche un altro atteggiamento più conciliante nei confronti della cultura pagana. Soprattutto per gli scrittori cristiani di Alessandria, fra cui spicca Giustino (100-165), la cultura pagana è propedeutica alla fede. La verità greca, ad esempio tende al Vangelo, perché Dio si è rivelato profeticamente agli Ebrei, ma si è manifestato sotto forma di semi, di verità anche ai Greci. Non tutta la filosofia antica è accettata: vengono rigettati l’epicureismo e il cinismo (pensieri atei) e, al contrario, vengono amati gli stoici e i platonici
• nonostante l’emarginazione e la persecuzione del III secolo, prevalse la linea dell’integrazione fra cultura classica e cristiana ormai attuata nel IV secolo. Proficuo fu il dialogo con il neoplatonismo, anche per dare soluzioni a problematiche teologiche
• il regno di Giuliano l’Apostata segnò un momento di riscossa pagana e tradizionalista, guidato dai Simmachi e Nicomachi, altolocate famiglie romane
• ma l’osmosi fra le due culture fu la via perseguita da personaggi come Ambrogio (vescovo di Milano; 340-397), Lattanzio (250-325, «Cicerone cristiano», lo definì S. Girolamo), Girolamo (347-420) e soprattutto Agostino (354-430, vera summa del pensiero filosofico pagano).


3. IL QUADRO LETTERARIO

• già nel II secolo i generi poetici si erano progressivamente esauriti (la pensa diversamente il Di Sacco, vol. 5, p. 31), lasciando spazio solo ai poetae novelli; nel III secolo la situazione non cambia. La poesia resta un gioco colto e raffinato, un lusus utile solo per mettere in mostra versi “strani“ (ropalici, reciproci, ecoici) o memorabili (è l’epoca dei centoni). Comunque rimane fuori dal mondo.
• l’idea che la produzione letteraria dovesse porsi al servizio della fede cristiana finì per modificare sensibilmente lo scopo e le caratteristiche formali delle nuove opere. Cambia il destinatario che ora non è più un’élite, ma un gruppo di persone più ampio e più umile. Da tale assunto nasce una lingua e una letteratura nuova:
- si allarga il lessico per inglobare parole nuove, si adattano moduli sintattici propri del latino parlato (traduzione della Bibbia)
- la letteratura era chiamata a còmpiti nuovi, come difendere la fede dagli attacchi dei detrattori, istruire ed esortare i fedeli, interpretare e commentare la Scrittura, testimoniare la morte eroica dei martiri: solo in parte trovò modelli pagani
- le prime grandi manifestazioni sono legate all’apologìa (o apologetica), ma col passare del tempo la letteratura servirà per dare alla fede una sistemazione teologica e dottrinaria (nascerà la cosiddetta patrìstica). I filoni spesso si accavallarono, perché diffondere e difendere avevano bisogno di approfondimento filosofico e teologico. Fra gli apologèti (o apologìsti, da apologhìa, cioè «difesa») ricordiamo:
 Minucio Felice (100-170) con il suo Octavius, una disputa filosofico-religiosa in cui si scontrano due posizioni, cioè l’accusa di ignoranza rivolta ai cristiani e l’affermazione che ormai il dubbio prodotto dalla vecchia filosofia pagana ha prodotto solo contraddizioni e relativismo
 Tertulliano (155-220) con il suo Apologeticum, in cui risponde ad ogni accusa rivolta dai pagani ai cristiani, sottolineando il lealismo di questi ultimi verso lo stato. Tertulliano crea il latino cristiano come lingua letteraria, ricavandolo dalle tradizioni retoriche, giuridiche e filosofiche; inventa i nuovi termini per i nuovi concetti teologici, come Trinitas, libera arbitrii potestas e persona
- in indipendenza dal contenuto, ci fu una generica spinta verso il realismo, inteso come temi e circostanze legati all’esistenza comune, finora esclusi dalla letteratura ‘alta’. Rigettato il principio della retorica classica, secondo il quale a temi bassi convengono toni bassi, la variazione degli stili (alto, medio e basso) non dipende più dal soggetto trattato (che resta sempre alto, essendo, direttamente o indirettamente, Dio), ma dalla volontà dello scrittore di provocare determinati effetti sui suoi lettori
- visto il diffuso analfabetismo, si torna ad una cultura profondamente orale, essenzialmente basata sulle omelìe e sulle letture pubbliche degli Atti dei martiri
- infatti le prime opere composte direttamente in latino appartengono al genere degli Acta Martyrum, nato per commemorare le eroiche morti patite dai martiri cristiani. Nascono come trascrizione degli interrogatori degli imputati, che potevano così testimoniare (màrtyr in greco significa «testimone») la propria fede. Accanto ad essi troviamo le Passiones, descrizioni con andamento narrativo delle torture subite. Presto assumeranno un carattere spettacolare, a metà fra l’epica e il romanzo.

Leggere da soli:
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, pp. 44 - 45 e p. 101 sulla formazione del latino cristiano
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, p. 107 dall’Octavius sulla superiorità morale del cristianesimo
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, pp. 120 - 121 sulla vita dei primi cristiani vista da Tertulliano



4. LA POESIA

• dopo una prima fase di disinteresse, la cultura cristiana sembra interessarsi della poesia, forse per la scarsa dimestichezza che ne hanno gli strati sociali che subito aderiscono al Cristianesimo. In realtà, sin dall’inizio si diede particolare attenzione al canto liturgico, che venne elaborato sia nell’aspetto musicale, che in quello letterario. Fu Ambrogio a conferire dignità letteraria all’innografia cristiana e bisognerà aspettare papa Gregorio I (590-604) per arrivare al cosiddetto canto gregoriano
• sin dalla metà del IV secolo assistiamo a tentativi di mediare tra la cultura pagana e quella cristiana in ambito poetico. La poesia cristiana, infatti, conciliati i contenuti della fede con la tradizione classica, può volgersi a magnificare le glorie della fede, riutilizzando il linguaggio e i modelli della classicità. Virgilio risulta il più amato fra i poeti pagani. Nascono così le opere di Prudènzio (morto nel 405) e di Paolino di Nola (morto nel 431).


5. LA PROSA STORIOGRAFICA

• le origini della storiografia cristiana si connettono agli Acta Martyrum e alle Passiones del II-III secolo. Dopo la fine delle persecuzioni spesso vengono presi come modelli di santità i vescovi e, dal IV secolo, i monaci. Nascono allora le biografie di questi santi uomini
• la biografia cristiana tende a recuperare i moduli della grande biografia greco-romana e infatti, S. Girolamo scrive il De viris illustribus (135 biografie di scrittori, composto nel 392), appropriandosi dei modelli svetoniani. Evidenti le differenze: nelle biografie degli imperatori prevale il gusto per l’aneddoto erudito e piccante; nelle biografie cristiane si mira allo scopo educativo, a consolidare la fede dei credenti
• agli inizi del IV secolo la storiografia riceve un grande impulso dall’opera di Eusebio di Cesarèa, autore di una Storia ecclesiastica, scritta in greco nel 312. La vicenda umana è rivisitata alla luce della Provvidenza divina che l’orienta e la guida in senso lineare e non più ciclico. Ha un carattere universale e non nazionale, con un’attenzione secondaria per i fatti politico-militari. Mancano del tutto la monografia politica e quella annalistica
• molti si occupano di storia ecclesiastica, scrivendo le biografie degli scrittori cristiani, la storia delle eresie e delle persecuzioni (Lattanzio, De mortibus persecutorum)
• la storiografia pagana del IV secolo ha come unici rappresentanti Eutropio, un epitomatore autore del Breviarium ad Urbe condita, e Ammiano Marcellino con i suoi Rerum gestarum libri XXXI, che narrano annalisticamente la storia di Roma da dove l’aveva lasciata Tacito (Nerva nel 96 d. C.) alla morte dell’imperatore Valente (378). Singolare la Historia Augusta, raccolta di biografie di imperatori del II-III secolo, attribuita a sei diversi scriptores, attivi sotto Diocleziano e Costantino, con Svetonio come unico modello.

Leggere da soli:
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, pp. 184 – 186 sulle fonti e il metodo di Ammiano Marcellino e il confronto con Tacito


6. LA POESIA PAGANA

• dopo secoli di produzione poetica all’insegna del lusus e dell’eleganza formale, ritorna il desiderio di una poesia grande ed impegnata, sul modello epico. Figura di gran rilievo è Claudiano (370-404), che vive e opera presso la corte imperiale d’Occidente tenuta da Onorio. Dal 395 scrive carmi per l’imperatore e per il grande generale Stilicone, ultimo difensore della romanità contro la barbarie. Sa proporre grandi ideali e ampie visioni, in un latino elegantissimo; ma sa anche piegare l’esametro verso il grottesco, quando deve colpire i nemici di Stilicone (in questo divenendo simile a Giovenale)
• ultima grande voce pagana è Rutìlio Namaziàno (vissuto a cavallo fra IV e V secolo), che interpreta i traumatici eventi contemporanei secondo le categorie della cultura pagana: gli dei sono adirati contro i cristiani e hanno perciò voluto punire Roma e il suo impero (nel 410 c’era stato il sacco di Roma). La sua opera si intitola De reditu, un poemetto in distici elegiaci, in cui racconta un viaggio di ritorno dalla natia Gallia compiuto via mare nell’autunno del 417.

Leggere da soli:
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, pp. 240-241 sulla visione di Roma che ha Rutìlio come patria di ogni virtù



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L’ETÀ DELLA PATRISTICA



• nella generale fioritura culturale e letteraria del tempo che va da Teodòsio (379-395) alla morte di Onòrio (423) la cultura cristiana compie un salto di qualità grazie all’opera di tre giganti, quali Ambrogio, Girolamo e Agostino, i cosiddetti Padri della Chiesa occidentale (leggi box a p. 164), che influenzarono non solo la storia della Chiesa, ma soprattutto definirono la civiltà europea
• con loro giunge a compimento la sintesi tra la cultura classica e la cultura cristiana, arrivando anche a definire con compiutezza l’identità culturale della Chiesa latina
• sono personaggi importanti anche dal punto di vista politico, in opposizione ai pagani, agli eretici e alle popolazioni barbariche ormai incombenti sui resti dell’impero
Ambrogio (340-397) attinge dall’elaborazione filosofica e teologica precedente e nel suo De officiis ministrorum (trattato in tre libri sui doveri dei sacerdoti) fonde l’etica stoica di Panezio e di Cicerone con il nuovo concetto cristiano di charitas. Sul piano politico afferma che il potere temporale è subordinato a quello spirituale nelle questioni relative alla fede e alla morale
• da una parte Girolamo (347-420), dall’altra Agostino (354-430) elaborano il problema culturale del delicato rapporto con i classici pagani. Entrambi giungono ad una giusta armonizzazione fra i contenuti delle opere degli antichi scrittori e l’humanitas rinnovata dal cristianesimo. Sotto questo aspetto resta emblematica la frase agostiniana credo ut intellegam, intellego ut credam, in cui viene recisa alla radice la supposta dicotomia fra fede e ragione, e si imposta un circolo virtuoso fra sapere umano e intelligenza di Dio.

Leggere da soli:
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, pp. 285 - 287 sul ruolo dell’intellettuale e su quello della traduzione che ha Girolamo
- Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, vol. 5, pp. 295 - 296 sul pensiero filosofico-teologico di Agostino




Postato il 20 maggio 2011

E. Montale, La speranza di pur rivederti (Segre)

La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;
e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:

(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).




Analisi del testo
E' uno dei venti componimenti della seconda sezione delle Occasioni, che ha titolo collettivo Mottetti ed è stata scritta nel 1937.
Il componimento, ispirato da Clizia, è un unico enunciato che si suddivide in tre periodi ritmici. Nei primi due versi, Montale si rivolge a Clizia dicendole che la speranza di vederla nuovamente svaniva sempre più; questa è la condizione in cui versa il poeta, in cui matura il dubbio espresso in seguito (espresso dalla congiunzione e posta al principio del terzo verso).
Nel secondo periodo ritmico egli afferma che (allora) si chiese se la realtà in cui viveva, la grande quantità di immagini che impedivano di vederla e di sentirla, avesse i segni della morte o non avesse in sé, portato dal passato, un segno luminoso della sua presenza, per quanto distorto e reso debole dal tempo trascorso e dalla lontananza.
Negli ultimi tre versi l’autore indica tra parentesi il luogo e l’occasione che gli hanno ispirato questa poesia: era a Modena e stava passeggiando sotto i portici quando incontrò un servo in livrea che portava a spasso due sciacalli.

Commento
La poesia è formata da tre periodi ritmici che compongono un mottetto: il primo è formato da un endecasillabo e da un quinario; il secondo da quattro endecasillabi e da un quinario; il terzo da un settenario, un endecasillabo ed infine da un altro settenario. Non è presente nessun tipo di rima ma è curioso notare come le rime che chiudono il primo e il secondo periodo si ritrovino, baciate, alla fine del mottetto.
E’ molto importante sottolineare il fatto che l’autore "spiega" questa poesia in un "auto commento" pubblicato sul "Corriere della sera" del 16 febbraio 1950 in cui sotto il nome di Mirco si cela lo stesso Montale: senza questa testimonianza la poesia sarebbe rimasta enigmatica. Si tratta di una via di mezzo tra la recensione del critico e la spiegazione del testo data dall’autore sull’esempio della Vita Nuova dantesca.
Un pomeriggio d’estate Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo "pensiero dominante" (ecco una "confessione" dell'importanza fondamentale di Leopardi nella poesia di Montale: Il pensiero dominante è un noto canto del recanatese, nota mia), stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflettesse su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non gaio. Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagniuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti, né bassotti, né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: "Che cani sono questi?" E il vecchio secco e orgoglioso: "Non sono cani, sono sciacalli". (Così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi con la sua pariglia).
Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! Pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine?
Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte à surprise (scatola a sorpresa) della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli, ... E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo. Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: "La speranza di pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se questo che mi chiude – ogni senso di te, schermo d’immagini, – ha i segni della morte o dal passato – è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo barbaglio."
S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E terminò così: "(a Modena fra i portici, – un servo gallonato trascinava – due sciacalli al guinzaglio)". Dove la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordi intimo e lontano. (...)
Ho toccato un punto (un punto solo) del problema dell’oscurità o dell’apparente oscurità di certa arte d’oggi: quella che nasce da un’estrema concentrazione e da una confidenza forse eccessiva nella materia trattata.

Fonte: http://www.riccati.altervista.org/anto_ita/testi_ri/montal_3.htm


Postato il 20 maggio 2011

17 maggio 2011

Specialisti nell’annullare le riforme (altro che meriti e qualità)

Istruzione e test di valutazione

di Maurizio Ferrera



In Italia la strada delle riforme è costellata di trappole. Una di queste funziona così. Si prende atto di un problema, si osservano le esperienze di Paesi più avanzati, si avvia un percorso di cambiamento. Le categorie colpite si mobilitano, spesso mascherandosi dietro slogan ideologici. A questo punto scatta la trappola. Nel dibattito culturale si levano voci scettiche o critiche nei confronti delle riforme. Il tipico argomento è: i nuovi strumenti non funzioneranno, anche all’estero stanno facendo marcia indietro, rimettiamo in discussione gli obiettivi. Alla fine, le riforme si bloccano, vince lo status quo. Questo meccanismo ammazzariforme rischia oggi di attivarsi nel campo dell’istruzione. A farne le spese potrebbero essere i timidi passi che si stanno compiendo nelle scuole con i test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) e nelle università con la misurazione della produttività scientifica dei docenti. La storia è nota. Da anni le scuole italiane ottengono pessimi punteggi nelle indagini Pisa-Ocse (il Programma per la valutazione internazionale dell’allievo voluto dall’Organizzazione per la cooperazione economica europea) mentre le università si collocano nella fascia bassa delle graduatorie internazionali. Le eccellenze, che pur esistono, sono disperse, non visibili né valorizzate. I test Invalsi e la valutazione della ricerca rappresentano un meritorio tentativo di migliorare la situazione. Le resistenze dei docenti a farsi «misurare» erano prevedibili e in passato si sono manifestate anche all’estero. Da mettere in conto era pure il disorientamento degli studenti di fronte a inedite modalità di verifica. Il boicottaggio delle prove Invalsi, organizzato in varie scuole dai sindacati autonomi, getta però ombre preoccupanti sulla riuscita dell’operazione. Accanto ai triti slogan antimeritocratici dei Cobas, nelle dichiarazioni di presidi e insegnanti sono emerse antiche diffidenze verso il confronto comparativo e il principio di responsabilità individuale. Poche settimane fa è stata istituita l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca (Anvur). Che diranno i rettori e che faranno i sindacati quando una parte (speriamo cospicua) del finanziamento pubblico sarà collegato alle misurazioni Anvur, basate su criteri trasparenti e uguali per tutti gli atenei? Nel dibattito pubblico s’intravedono già i segnali della trappola più insidiosa: la delegittimazione culturale della riforma, anche da parte di autorevoli intellettuali. Si è cominciato a dire che i test sono un pericoloso strumento nozionistico che mortifica l’autonomia dei docenti e distorce gli obiettivi della didattica. Le misure bibliometriche vengono a loro volta attaccate in quanto per loro natura incapaci di cogliere l’«autentico» valore dei prodotti di ricerca. Sappiamo bene che non esistono metri aurei per valutare e che nei Paesi all’avanguardia è in corso un dibattito su come raffinare e calibrare gli strumenti sinora utilizzati. Ma l’Italia è in retroguardia, il nostro problema non è stabilire se sia meglio Cambridge o Oxford, ma fissare qualche paletto in una situazione di caos indifferenziato che penalizza soprattutto gli studenti. Se non introduciamo rapidamente dei segnalatori di qualità, per quanto grezzi e imperfetti, resteremo intrappolati in questo caos. E abbandoneremo a se stessi (magari costringendoli alla fuga verso l’estero) quei «capaci e meritevoli» di cui parla la nostra Costituzione, giustamente fiduciosa nella possibilità di riconoscerli e valorizzarli.




«Corriere della Sera» del 16 maggio 2011

Quelli che la scuola non si può criticare

L’istruzione soffre a causa di un modello culturale perdente nel mondo e adottato con decenni di ritardo Ma chi osa mettere il dito nella piaga, attaccando test e metodi didattici, viene screditato come estremista

di Giorgio Israel

Un collaudato metodo per screditare le posizioni altrui è ignorare gli argomenti su cui poggiano, appiattirle su quelle estreme, e ignorare l’identità di chi le sostiene. È quel che sta accadendo nel dibattito sulla valutazione innescato dalla vicenda dei test Invalsi. Per screditare chi critica la via che si sta imboccando sulla valutazione lo si addita come avversario di ogni forma di valutazione, come il membro di una corporazione che si difende dal «merito». Il titolo dell’articolo di Maurizio Ferrera (Corriere della Sera di ieri), che forse neanche l’autore condivide, è un esempio di questo metodo: «Specialisti nell’annullare le riforme (altro che meriti e qualità)». Nell’articolo si deplora che «autorevoli intellettuali» stiano «delegittimando culturalmente» le riforme criticando i test e, sul fronte della ricerca scientifica, i sistemi bibliometrici. Sappiamo bene, si dice, che nei paesi all’avanguardia è in corso un dibattito per «raffinare e calibrare» gli strumenti utilizzati, ma noi, che arriviamo ultimi, non possiamo sottilizzare.
Bene, ma all’estero il dibattito non verte sul «raffinamento», bensì sull’opportunità di un cambiamento totale di direzione. Sono mesi che tento di trasmettere il contenuto di questo dibattito, ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Un anno fa alcune tra le massime istituzioni mondiali in tema di numeri hanno prodotto un documento (Citation Statistics, reperibile in rete) che demolisce il sistema bibliometrico. Uno scienziato autorevole come Douglas Arnold (presidente di SIAM, Society for Applied and Industrial Mathematics) ha chiesto la sospensione (non il calibramento) della bibliometria accusandola di distruggere l’integrità scientifica e ha rincarato la dose con un articolo intitolato Numeri scellerati. Un anno fa, tutte le riviste di storia e filosofia della scienza hanno redatto un manifesto contro la bibliometria. E potrei continuare.
Sul fronte della scuola non è lecito ignorare le denunce dei disastri prodotti dalle ideologie dell’autoapprendimento e dell’insegnante come passacarte delle tecnologie educative e valutative confezionate da improbabili «esperti»: critiche avanzate da personalità come Laurent Lafforgue (in Francia) o Alicia Delibes (in Spagna). Non è lecito ignorare il recentissimo libro (The Death and Life of the Great American School System) di una protagonista delle riforme statunitensi dell’istruzione, Diane Ravitch, che non parla di «ritocchi» ma di fallimento del sistema dell’«accountability» e del «testing». Ravitch non dice che i test sono inutili ma che vanno usati con grande moderazione e non dando a credere che abbiano validità scientifica e che siano oggettivi. Invece qui si ripete tutti i giorni, con una sordità pari alla supponenza, che il sistema dei test permette una «misurazione oggettiva» delle competenze e del loro valore aggiunto. Si parla pomposamente di «standardizzazione scientifica», il che fa ridere chi sappia che cosa sia una misurazione scientifica.
È il tipico modernismo in ritardo all’italiana, vera forma di provincialismo: adottare le riforme costruite qualche decennio prima altrove, con un dogmatismo giustificato in nome del nostro ritardo. Così fu per la riforma della scuola primaria, quando, ad esempio, si decise di introdurre la «teoria degli insiemi», seguendo un modello che in Francia stavano precipitosamente abbandonando, e così ancor oggi siamo afflitti da questa pessima eredità.
In realtà, la questione è di politica culturale. Il modello di una scuola basata sulla centralità dei contenuti e della figura dell’insegnante, e su un rigoroso sistema di valutazione che ruoti attorni alla pratica delle ispezioni e così inneschi un processo di crescita culturale, non appartiene solo alla tradizione «conservatrice» e «di destra». Appartiene anche, e fortemente, a una tradizione di sinistra. Basti pensare a quanto scriveva uno degli intellettuali comunisti più innovativi in tema di istruzione, Lucio Lombardo Radice. Rivendicando il valore rivoluzionario dei «metodi attivi nell’educazione della mente», ammoniva che «secondo certe tendenze “estremistiche” e superficiali, oggi purtroppo di moda nel nostro paese, “attivismo” significherebbe invece liquidazione di ogni sforzo, di ogni noia, di ogni sistematica disciplina mentale e con ciò di ogni organico sapere. Si esalta una scuola nella quale è sempre domenica, nella quale ad ogni ora si celebra la festa dello spirito creatore, nella quale ogni attività è individuale, libera, piacevole, giocosa. Al bando la geografia sistematica: basta organizzare un viaggio, reale o ideale, della classe in un’altra regione studiandone le carte, le comunicazioni, i prodotti, i costumi. Morte alla scienza classificatoria: tre mesi di osservazione ed esperimenti sulle lumache formerebbero lo spirito scientifico assai più di un’organica visione (in buona parte necessariamente libresca, o frutto di lezioni ex cathedra) delle grandi linee della evoluzione delle specie. Basta con le date, colla successione cronologica e le periodizzazioni storiche; episodi, racconti, immedesimazione con pochi “eroi” darebbero il vero senso della storia. Si va molto al di là della confusione tra due momenti educativi: si arriva ad annullarne uno, quello basilare, riducendo la scuola a escursione, esercitazione, libera ricerca, lettura occasionale». E difendeva lo «studio-lavoro, la lettura-riflessione, lo sforzo di comprensione tenace, l’applicazione disciplinata, organica, paziente, la faticosa organizzazione della propria mente e del proprio sapere».
Si chiederà cosa c’entri questo con la valutazione mediante test. C’entra, eccome, per chi abbia esaminato attentamente la natura dei test proposti - e lo faremo analiticamente, se ne può star certi - e la devastante attività di addestramento al superamento dei test che ha messo in campo una pubblicistica da quiz molto al di sotto degli standard temuti da Lombardo Radice. Si tratta di quelle pratiche che, come denuncia la Ravitch, hanno minato la qualità della scuola americana, come hanno minato la qualità dell’insegnamento matematico in Finlandia. C’entra, perché tutto rientra nella sciagurata idea secondo cui quel che conta è solo la metodologia («come» si pensa e non i contenuti).
Si diceva che il problema è di politica culturale. Una sinistra in crisi di orientamento si è rifugiata nel modello tecnocratico, come una «teologia sostitutiva». La destra, afflitta dal solito complesso di inferiorità culturale, spesso si accoda. Così, l’unico indirizzo in campo resta sempre quello della «micidiale coppia» Berlinguer - De Mauro (secondo l’efficace definizione di Paola Mastrocola). Insistere su questa via, accoppiando procedimenti di valutazione automatizzata con l’ideologia dell’insegnante-facilitatore, della scuola open space, della distruzione dei contenuti a favore della tecnologia e della dittatura della metodologia, questo sì che è diabolico.
All’indirizzo «micidiale» trasversale deve contrapporsi il fronte del buon senso. Fa quindi piacere che il senatore Rusconi - con un «messaggio chiaro e forte» rivolto al suo partito, il Pd - dica che la qualità della scuola non la fanno computer e lavagne multimediali, bensì gli insegnanti. E, aggiungo, insegnanti «maestri», insegnanti di qualità, non «facilitatori» passacarte; insegnanti da reclutare coi concorsi e poi valutati, non mediante assurdi parametri come il «valore aggiunto» di apprendimento, bensì sui contenuti, con un sistema ispettivo da costruire in modo meditato, tenendo conto dei pro e contro delle esperienze estere.

«Il Giornale» del 17 maggio 2011

16 maggio 2011

La sottile differenza fra dissenso e intolleranza

Libertà di fischio? Contestazioni e libertà d'opinione

di Pierluigi Battista

Quando il fischio (preventivo) diventa intimidazione e intolleranza


Nella neolingua che ci asfissia la chiamano «libertà di fischio». Ma è un equivoco: la libertà d'opinione prevede che si fischi dopo aver ascoltato, non per mettere a tacere preventivamente le opinioni da cui si dissente. Si dice: c'è una ricca tradizione di loggionisti che a teatro sbertucciano a suon di fischi il cane che si produce in una pessima esecuzione sul palcoscenico. Ma è tutta un'altra storia. Il loggionista, melomane appassionato, fischia perché hanno suonato male. Non impedisce di suonare. Non è un intollerante. Come quelli che, sempre più di frequente in Italia, chiamano libertà la loro vociante protervia. L'ultima scena è al Salone del libro di Torino, dove un folto gruppo di donne ha impedito la presentazione di un volume anti aborto del Movimento per la vita. Era legittimo essere in disaccordo, naturalmente. Ma bisognava rispettare quelli che erano d'accordo. O semplicemente che erano interessati ad ascoltare gli oratori. Chi invece ha inalberato il vessillo della libertà di fischio ha ostacolato l'esercizio di due diritti. Quello di chi non ha potuto parlare. E quello di chi non ha potuto ascoltare. Un doppio atto di prepotenza. In Italia si fa fatica a stabilire la differenza tra libertà di dissenso e intolleranza pura. Il fischio, l'interruzione, il lancio di oggetti, la coreografia della contestazione hanno oltrepassato la ritualità delle manifestazioni in cui solitamente si consuma la liturgia delle manifestazionidi piazza con annesso, ripetitivo, cerimoniale copione del dissenso di piazza(dal 25 aprile all'anniversario della strage di Bologna). Oramai la mistica dell'interruzione preventiva, non di rado violenta, sempre intimidatoria, ha invaso presentazioni di libri (l'apice è stato raggiunto con quelle di Giampaolo Pansa), convegni, comizi, dibattiti, feste di partito, persino prolusioni accademiche non gradite, come accadde con il discorso imbavagliato di Benedetto XVI all'Università di Roma, cui si dovette rinunciare per motivi di ordine pubblico: uno straordinario successo dell'intolleranza. Hanno impedito di parlare al leader della Cisl Bonanni durante la festa del Partito democratico, a Dell'Utri che voleva esibire i suoi diari pseudo mussoliniani, a Marcello Veneziani nell'ateneo romano perché a un «fascista» viene negato il diritto di esprimere un' opinione. Non volevano addirittura che parlasse lo scrittore israeliano Amos Oz a Torino. Giuliano Ferrara venne preso a sassate (si disse solo pomodori, ma era una minimizzazione eufemistica) in un comizio bolognese. Ogni volta si è sbandierato il «diritto al dissenso» come nobile motivazione. E il diritto di parola? Quello non viene preso in considerazione. Eppure il meccanismo della «contestazione» è facilissimo, collaudato, semplice da maneggiare. Basta essere un piccolo e compatto gruppetto, avere fiato nei polmoni, conoscere il repertorio dell'insulto, saper spintonare, lanciare oggetti contundenti, odiare a sufficienza chi viene considerato indegno di esprimere un'opinione diversa bollata come «scandalosa», «offensiva», «oltraggiosa», e il gioco è fatto: chi doveva parlare non parla e chi impedisce di parlare conquista la ribalta mediatica. Un'intimidazione ben riuscita. Alla prossima occasione ci penseranno due volte prima di consegnare una sala, un tendone, una piazzetta, un'aula universitaria, un qualunque luogo raggiungibile dai fischiatori, a chi viene bollato con il marchio del reprobo e destinato a essere zittito. Ecco perché l'indulgenza verso l'intolleranza mascherata da «libertà di fischio» è pericolosa: perché alimenta la paura, istiga al conformismo quietistico, mette in guardia dal formulare opinioni che si presumono sgradite, o comunque impopolari, capaci di scatenare la furia dei professionisti del fischio. Trasformare una discussione in un problema di ordine pubblico avvilisce la democrazia, deprime il dibattito tra tesi contrapposte, annichilisce l'idea che una democrazia liberale si fondi sul sano antagonismo delle idee e delle opinioni: argomento contro argomento e non aggressioni ripetute contro le persone costrette a restar zitte mentre l'unico argomento consentito è quello del fischio. Inoltre crea un'assuefazione alla scenografia della contestazione che rompe ogni argine e si nobilita come genuina sollevazione popolare, anche quando le persone che fischiano e ululano sono sempre le stesse, itineranti di piazza in piazza per recitare sempre lo stesso, umiliante spettacolo. Uno spettacolo mal recitato. Che meriterebbe i fischi, davvero. Ma solo quando è stata pronunciata l'ultima battuta, e cala il sipario sugli intolleranti.

«Il Corriere della sera» del 14 maggio 2011

Il decalogo salva-nozze della nonna

Nel 1906 Emilia Bernardini Macor teneva una rubrica con consigli su come gestire la coppia, trattando l’uomo con condiscendenza per fargli credere di essere lui a comandare. Un secolo dopo un libro li riscopre e la pronipote li commenta

di Annamaria Bernardini De Pace

La mia bisnonna paterna si chiamava Emilia Bernardini Macor e, dalla fine dell'ottocento, prima sul Corriere Meridionale poi sulla Provincia di Lecce, testate dirette e fondate dal marito Nicola, curava rubriche di costume, moda e cultura.
Il titolo delle sue pagine incuriosisce ancora oggi: «Di piatto, di taglio, di punta», «Punti, appunti e puntini», «Farfalle erranti». Ho avuto finalmente l'occasione di leggere i suoi pezzi quando ho ricevuto in regalo il libro della studiosa Annalisa Pellegrino, alla grande giornalista dedicato, edito da Mario Congedo.
Un articolo in particolare voglio condividere con i lettori del Giornale, soprattutto per sottolineare quanto fosse significativa la scrittura femminile 106 anni fa (questo pezzo è del 22 gennaio 1905) e, soprattutto, quanto sorprendente. Scritto da una madre di cinque figli, sempre in pantaloni e che fumava il toscano mentre si occupava della redazione del giornale.
La mia bisnonna viveva nel meridione d’Italia, ancora oggi considerato dai più territorio di arretratezza culturale e sociale. E, invece, un giornale quotidiano, non certo allora indirizzato a un pubblico anche femminile, grazie agli uomini che lo dirigevano si rivolgeva alle donne per proporre alle nuove generazioni modelli culturali e comportamentali che uscissero dallo stereotipo della femmina meridionale schiava del marito, spettatrice più che attrice oltre i confini della casa familiare. Erano i tempi di Matilde Serao e Carolina Invernizio; non si poteva pretendere di agganciare il pubblico della buona borghesia con idee progressiste quali il divorzio o la parità dei sessi: tuttavia i consigli che Emilia Bernardini offre in questo decalogo - e che oggi, se seguiti, in parte, darebbero linfa a molti matrimoni disseccati in attesa di divorzio - trovano un’interessante mediazione tra l’apparire moglie docile e l’essere moglie forte. Basta meditare sul significato profondo e strategico, nonché sull'invito alla protezione della propria dignità. In particolare nel suggerimento numero 9.

Ecco il Decalogo della buona moglie.

A Guardati dalla prima contesa con tuo marito, ma se ciò avviene, troncala subito, è meglio che se ne uscissi vittoriosa.

B Non dimenticare che sei maritata ad un uomo e non ad un santo, acciocché non ti sorprendano le sue imperfezioni.

C Non tormentarlo ogni momento per denaro, ma cerca di sopperire a tutto con la somma che egli ti assegna.

D Se tuo marito non possedesse un cuore, egli è fuor dubbio, fornito di uno stomaco, perciò tu farai bene a preparargli cibi buoni e sani, per acquistarti il di lui favore.

E Di quando in quando, non sempre, lascia a lui l'ultima parola, ciò lo metterà di buon umore e a te non nocerà punto.

F Leggi, oltre agli annunci di nascita, di matrimonio, di morte, anche gli articoli dei giornali. Sii informata di ciò che succede nel mondo, così fornirai a tuo marito occasioni di poter parlare in casa degli avvenimenti senza che egli vada ad informarsene.

G Anche in contesa, sìì sempre gentile con lui. Ricordati che tu lo vedevi di buon occhio quando era tuo fidanzato: ora non lo guardare con occhio torvo.

H Lascia talvolta che egli sostenga di saperne di più di te; egli avrà coscienza della propria dignità e sarà bene che tu ceda qualche volta per dimostrare che non sei infallibile.

I Sii verso tuo marito un’amica, perché egli sia un uomo prudente; se non lo è, cerca allora di elevarlo a tuo amico, innalzati, ma non abbassarti a lui.

J Stima i parenti di tuo marito, se non riesci ad amarli, e soprattutto sua madre; egli l'amò molto tempo prima di te.

Credo che se le mogli, nel tempo, avessero seguito questi insegnamenti, oggi probabilmente io sarei senza lavoro. Negli anni 70 non ci sarebbero state le battaglie per il divorzio. Le donne sarebbero certo più onorate.
Sempre che i mariti, nel frattempo, avessero perso l'inestinguibile vizio di tradire. Perché «farfalle erranti» sono più gli uomini, che le donne (per ora).

«Il Giornale» del 16 maggio 2011

15 maggio 2011

Mostra sui Preraffaelliti (maggio 2011)

Ieri sera, sabato 14 maggio 2011, sono stato alla GNAM per vedere la Mostra sui Preraffaelliti, che sono un movimento di fine Ottocento che mi ha sempre affascinato.

La mostra è notevole, anche se è solo l'inizio, un assaggio per farsi venire voglia di cercare altri quadri o creazioni degli autori più famosi, come Dante Gabriel ROSSETTI, Edward BURNE-JONES, John William WATERHOUSE...

Posto alcune delle creazioni che mi hanno colpito di più, consigliandoti di andare a vedere la mostra, perché vale la pena.



Dante Gabriel Rossetti, Venus Verticordia (1866)



John William Waterhouse: Psyche opening the golden box (1903)


Postato il 15 maggio 2011

14 maggio 2011

E. Montale, Casa sul mare (Baldi)

Metro: versi endecasillabi, con qualche settenario. Irregolari le rime e le assonanze

di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria



Dal testo alla storia. Dalla storia al testo. Volume III, tomo secondo/b, edizione gialla, pp. 812 ss.


Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.




NOTE
1. cure: preoccupazioni.
2. dividono: spezzano, indeboliscono.
3. pompa: che fa salire l’acqua.
4. che tentano ... flussi: che le onde del mare, col loro movimento continuo e lento, lambiscono. Flussi è soggetto di tentano, posposto per anastrofe.
5. Nulla ... leni: il mare (la marina, soggetto) non rivela, non lascia vedere nulla, se non foschie quasi immobili (pigri fumi), che il debole alitare del vento (i soffi leni) scompone, lasciando intravedere delle insenature (conche).
6. bonaccia: condizione di calma assoluta della superficie del mare.
7. l’isole ... migrabonde: le nuvole, che si spostano nel cielo (migrabonde).
8. la Capraia: isola di fronte alle coste toscane, che, nelle giornate più serene e limpide, si può vedere dalla Liguria, come la Corsica (detta dorsuta perché attraversata dal "dorso" di una catena montuosa).
9. vanisce: svanisce, scompare (ma c’è, in più, il senso sofferto della "vanità" di tutte le cose).
10. poca ... memorie: corrisponde, sul piano esistenziale, ai pigri fumi (v. 10) del paesaggio marino appena delineato. La memoria offuscata, o del tutto impossibile, è tema caro a Montale: cfr. Cigola la carrucola del pozzo, Non recidere, forbice e La casa dei doganieri.
11. che torpe: che trascorre come intorpidita, con un’estrema lentezza.
12. frangente ... destino: il destino di ogni uomo è rappresentato dall’immagine delle onde (frangente) che si infrangono sugli scogli. Il loro monotono movimento rappresenta il ripetersi sempre uguale della vita. Riprende l’immagine già proposta all’inizio con i minuti [...] eguali e fissi, paragonati al girare della pompa. Un’immagine analoga anche nella Casa dei doganieri: «Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende» (vv. 19-20).
13. ti s’appressa: si avvicina per te.
14. passerai ... tempo: entrerai nell’eternità, avrai la certezza di una vita nuova e duratura.
15. s’infinita: raggiunge l’infinito, diventa immortale. «È un neologismo che ribadisce il verso precedente e si riallaccia all’ultimo» (Guglielminetti). È probabile che Montale abbia voluto emulare Dante, il quale aveva coniato il verbo «s’india», "diventa simile a Dio" (cfr. Paradiso, IV, v. 28: «De’ Serafin colui che più s’india»). Al Dio dantesco Montale sostituisce un più generico "infinito", in cui si racchiude il senso della sua teologia pessimistica e negativa.
16. disegno: del destino, che ci fissa in una condizione immutabile.
17. il varco: il punto, o luogo, che separa il tempo terreno dall’eterno (v. 37), dall’infinito. Corrisponde anche all’ipotesi di un passaggio dalla realtà contingente delle cose a una più profonda conoscenza dell’essere, ossia ad una realtà superiore capace di dare certezze definitive. Il motivo del varco ritorna nella Casa dei doganieri, v. 19.
18. qual ... ritrovi: possa ritrovarsi quale voleva essere, sottratto al destino immutabile.
19. segnarti: tracciarti, indicarti.
20. nei sommossi campi: sulla superficie mossa, agitata.
21. spuma o ruga: schiuma o corrugarsi dell’onda (a indicare l’estrema "labilità" e inconsistenza, o precarietà, della via di fuga).
22. l’avara: «la speranza d’immortalità del poeta è definita avara perché non è messa in comune con gli altri uomini; se viene condivisa, è solo per privarsene (avara, allora, vorrà anche dire esigua)» (Guglielminetti).
23. A’ nuovi giorni: per i giorni che verranno, per il tempo che mi resta da vivere (è un complemento di scopo, di destinazione).
24. fato: destino (ma l’uso di questo latinismo racchiude in sé qualcosa di inesorabile).
25. prode: rive, sponde.
26. Il tuo ... eterno: l’interlocutrice è fisicamente vicina ma spiritualmente lontana, perché forse ha già intrapreso il suo viaggio verso l’eterno.

ANALISI DEL TESTO

In questo componimento, Montale riprende il motivo del viaggio, tipico di tanta letteratura decadente e novecentesca, ma ne offre un’interpretazione del tutto personale: il viaggio è giunto alla fine, arrestandosi nell’immobilità della vita e del tempo. L’«anima» è morta, in quanto «non sa più dare un grido» (v. 3), simbolo di liberazione o comunque di vita (si veda anche il testo di Ungaretti, Tutto ho perduto, al v. 3); quella vita che si è come fermata nel giro dei «minuti ... eguali e fissi» (v. 4). Ma il paradosso consiste nel fatto che la vita continua, nell’implacabile monotonia delle sue «cure meschine»; il viaggio non è finito, ma, a ben vedere, non è neppure mai cominciato, se si attribuisce, a questo motivo, la possibilità di modificare la situazione di partenza, arricchendola di nuove prospettive e acquisizioni. Il viaggio di cui si parla non ha nessun referente reale, ma è un percorso interamente "testuale", quello, esemplificato dalle poesie del libro, attraverso una parola che non può sciogliere dubbi né offrire certezze consolatorie (si veda, in particolare, Non chiederci la parola).
Terminando alla «casa sul mare», il viaggio giunge comunque al suo limite estremo, oltre il quale non è possibile procedere. Il confine fra la terra e l’acqua non apre nuove prospettive, ma il mare risulta un termine e un ostacolo invalicabile, superficie opaca e stagnante che «nulla disvela» (a differenza di altri poeti, come Baudelaire e Rimbaud, che avevavo visto nel mare il senso profondo di un mistero aperto a nuove esigenze conoscitive). I «pigri fumi» della «marina» (vv. 10-11) corrispondono alla «poca nebbia di memorie» (v. 17), che viene a recidere anche i ponti con il passato, per l’incapacità della memoria di trattenere in vita le immagini dei ricordi felici (è il motivo sviluppato in particolare da Cigola la carrucola del pozzo, al quale si può anche ricondurre, su un piano di riprese intertestuali, l’immagine dei «giri di ruota della pompa», sviluppata nei vv. 5-7). La «casa sul mare» diventa quindi una specie di terra di nessuno, sospesa fra la vita e la morte, in un limbo in cui è difficile poter sperare o attendere qualcosa.
Anche qui, all’inizio della terza strofa, Montale si rivolge direttamente a un interlocutore, che rappresenta adesso, più propriamente; una persona vicina al poeta, una figura femminile alla quale si sente affettivamente legato (anche se non è identificabile con precisione, a detta dello stesso Montale). A questa persona il poeta vorrrebbe poter fornire qualche risposta sul «destino» dell’uomo, che sembra irrimediabilmente condannato dal «tempo»; forse prospettare un’ipotesi di «salvezza» nell’eternità, in cui si plachino - risolvendosi in essa - le inquietudini e le angosce della vita. Ma si tratta di un’ipotesi improbabile, del tutto vaga e remota; «labile» - per riprendere il rapporto fra ricerca interiore e realtà naturali - come «spuma o ruga» (v. 30) nell’incresparsi della superficie del mare. Il poeta non può che augurarla alla sua compagna di avventura terrena, donandole, quasi un gesto di offerta propiziatoria, «l’avara sua speranza»; quella speranza in cui egli, per se stesso, ha cessato di credere.

Postato il 14 maggio 2011

E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo (Baldi)

Metro: endecasillabi con rime e assonanze. Il v. 7 è spezzato in un settenario e in un quinario


di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria

Dal testo alla storia. Dalla storia al testo. Volume III, tomo secondo/b, edizione gialla, pp. 812 ss.

Cigola la carrucola del pozzo,
l'acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un'immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro …
bbbbbbbbbbbbbbbbbbbbb Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.




NOTE
1. la carrucola: la ruota (cfr. v. 8) con la scalanatura in cui scorre una fune o una catena, al termine della quale si aggancia il secchio per attingere acqua dal pozzo.
2. Trema ... ricordo: il ricordo evoca l’immagine di un volto sulla superficie dell’acqua tremolante.
3. evanescenti labbri: labbra incorporee e inafferrabili, in quanto si sono formate, per effetto di pura suggestione evocativa, sulla superficie dell’acqua, nel puro cerchio del ricolmo secchio.
4. appartiene ... altro: il passato inafferrabile è estraneo come se appartenesse ad un altro.
5. ti ridona: ti riporta, ti restituisce.
6. atro: buio, oscuro (è aggettivo tipicamente arcaico e letterario).
7. una distanza: quella prodotta dal tempo, che precipita immediatamente, non riuscendo a trattenere il ricordo.

ANALISI DEL TESTO
Fra i grandi temi della poesia montaliana c’è quello della memoria, crudele per la dolorosa impossibilità di ridare vita al ricordo di cose e persone care. Il trascorrere del tempo ha prodotto delle amputazioni alle quali non si può porre rimedio (cfr. anche Non recidere, forbice, quel volto). La speranza di recuperare il passato, per attingervi conforto e consolazione (resa qui dall’immagine del «pozzo»), risulta quindi inutile, come conferma il movimento illusione-delusione esemplificato da questi versi.
v. 1: Il verbo «Cigola», in apertura, dà l’idea di un rumore acuto e intenso, reso quasi percepibile dalle consonanti doppie di «carrucola» e di «pozzo» (oltre che amplificato, in una specie di cassa di risonanza, dai due termini sdruccioli, assonanzati fra di loro).
v. 2: Il movimento di risalita sembra promettere gioia e liberazione, rese dalla fusione di immagini limpide e luminose come quelle dell’«acqua» e della «luce». Hanno commentato Giorgio Bàrberi Squarotti e Stefano Jacomuzzi: «si uniscono qui perfettamente descrizione oggettiva e simbolo: l’immagine stupenda di luce e il senso ora gioioso e luminoso del ricordo che sorge dalla memoria».
v. 3: L’oscillante e impalpabile riaffiorare del ricordo è reso dal verbo «Trema», mentre la paronomasia «ricordo» / «ricolmo» suggerisce la possibilità di una piena riappropriazione e soddisfazione.
v. 4: Balena «un’immagine» di pura felicità, nitidamente circoscritta nella perfezione della figura geometrica.
v. 5: Ma il tentativo di appropriarsene appare irrimediabilmente destinato al fallimento, nel contrasto fra la reale fisicità del gesto («Accosto il volto») e l’incorporea irrealtà dell’immagine («evanescenti labbri»). Collocato nell’esatta metà del componimento, è questo un verso-cerniera, che introduce al rapido mutare della prospettiva nella seconda parte. Su un piano più propriamente figurativo, Montale sembra fondere, pur cancellandone ogni traccia e rielaborandole in chiave del tutto originale, le suggestioni di antichi racconti mitologici: l’episodio di Narciso, che annegò nella fonte dopo aver cercato di abbracciare la sua immagine riflessa, di cui si era innamorato; il supplizio di Tantalo, condannato a non poter soddisfare la fame e la sete da cui era tormentato.
vv. 6-7: Lo svanire del ricordo corrisponde al deformarsi e all’allontanarsi del «passato», rispetto al quale il poeta si sente irrimediabilmente diverso ed estraneo, incapace di ricostruire una perduta identità: «appartiene ad un altro ... ». La spezzatura del verso in due emistichi, evidenziati anche graficamente dalla loro collocazione su linee diverse, corrisponde a una più profonda frattura, che separa il soggetto da ogni speranza. Il rammarico espresso dall’interiezione segna un’inversione del movimento - il ridiscendere del secchio -, che cancella il ricordo e lo rinchiude per sempre nel buio del pozzo (la zona oscura e oramai sepolta dell’esistenza, alla quale il poeta si era illuso per un momento di poterlo strappare). L’espressione «stride / la ruota» («già» indica il compiersi di un evento irrevocabile) corrisponde a «Cigola la carrucola» del primo verso, ma, oltre a rovesciarne il significato, accentua il suono "stridente" del verbo in un senso più cupo, che, svolgendosi attraverso l’enjambement nel verso successivo, si conclude con l’immagine dell’«atro fondo» (simbolo della morte, reso più espressivo e incisivo dall’aggettivo raro e poetico, con allitterazione tr rispetto a «stride»).
v. 9: Il vocativo «visione» è pronunciato quasi senza emozioni, con la rassegnazione ad un destino che separa crudelmente l’uomo anche dalle sue memorie più care, per la «distanza», incolmabile, prodotta dal tempo trascorso.
Il verbo «stride» separa nettamente, in questo senso, gli opposti campi semantici della rappresentazione, indicati dalle rime «ride» (l’illusione di un momento di gioia) e «divide» (l’ineluttabilità della perdita definitiva). Altre rime e consonanze con valore antitetico sono «vi si fonde» / «fondo», «ricolmo secchio» / «passato ... vecchio» (mentre «stride» è solidale con «divide»).


Postato il 14 maggio 2011