09 maggio 2011

E. Montale, Scelte formali e sviluppi tematici (Baldi)

Tratto dal volume Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Paravia, volume III, tomo 2/b, pp. 801 ss.

di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria

Si possono meglio capire, a questo punto, le ragioni del compromesso, realizzato da Montale, fra la tradizione letteraria e le istanze innovative così vivacemente espresse dalla letteratura novecentesca. Rifiutate le soluzioni dell’avanguardia, Montale resta fedele a una nozione di stile che si identifica con la lucidità della ragione e con la dignità dell’uomo, quasi a difendere i valori della civiltà letteraria contro la disgregazione del presente. Montale non rifiuta l’uso del verso libero, ma concede ampio spazio ai metri tradizionali, con la massiccia reintroduzione dell’endecasillabo sciolto. Anche le strofe, pur senza obbedire ad alcuna regola prestabilita, tendono non di rado a disporsi secondo corrispondenze regolari (frequente è l’uso delle quartine). L’abolizione dell’istituto canonico della rima non impedisce al poeta di adottarla frequentemente (insieme con le rime al mezzo e le assonanze), sia pure con la più ampia libertà legata alle particolari esigenze espressive. Anche il linguaggio comune, con cui Montale nomina i suoi "oggetti", può facilmente elevarsi, assimilando termini più rari e preziosi, talora squisitamente letterari. La sua è, nella sostanza, una scelta plurilingustica, che si può far risalire a Dante (a differenza, anche in questo caso, del monolinguismo di Ungaretti, di derivazione petrarchesca e leopardiana). Si potrebbe dire che il rigore e l’equilibrio cercati da Montale rappresentino l’esigenza di un controllo dell’intelligenza contro l’irruzione del caos, e lo sforzo compiuto per esorcizzarlo; ma le infrazioni all’ordine, seppur discrete (versi ipermetri, rime imperfette, libere variazioni all’interno della misura e delle "regole" stabilite per ogni singolo componimento), sono numerosissime, quasi a sottolineare la precarietà dell’equilibrio raggiunto, per la pressione delle spinte disgregatrici.
Le caratteristiche sin qui sottolineate costituiscono una costante nella poesia di Montale, almeno per quanto riguarda le tre prime e principali raccolte. Le differenze, al loro interno, andranno cercate piuttosto a un diverso livello di complessità e di elaborazione del discorso poetico. Gli «ossi di seppia», che danno il titolo al primo volume, simboleggiano l’aridità dell’universo montaliano, attraverso la traccia di ciò che resta dopo l’azione di erosione e di logoramento operata dalla natura. Essi alludono anche al carattere volutamente povero dell’ispirazione, che appare per lo più concentrata su brevi momenti dell’esistenza, circoscritta nelle linee di un paesaggio che - pur senza alcuna concessione a moduli di descrittivismo realistico - resta quello ligure compreso fra il mare e le colline. È un paesaggio arido e brullo, tormentato e scavato dal sole, che ne rende quasi allucinati e irreali i contorni, caricandoli di valenze metafisiche ed esistenziali. Il poeta ne spia le forme e si sofferma ad ascoltarne le voci (si vedano Meriggiare pallido e assorto e Gloria del disteso mezzogiorno, dove più direttamente traspare l’influsso del linguaggio pascoliano e dannunziano), con un atteggiamento di perplessità attonita e meditativa. Ma le cose non svelano il segreto della loro presenza. Soltanto rinviano a una incessante vicenda di vita e di morte, di gioia e di dolore, che costantemente ritorna e si chiude su se stessa, lasciando come unico conforto l’immagine viva ma fragile di una speranza di felicità (i «limoni», ad esempio, o il «girasole», il fiore che guarda verso la luce, in Portami il girasole ch’io lo trapianti, che così si conclude: «Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; / portami il girasole impazzito di luce»). Neppure la memoria, oscurata e cancellata dall’inesorabile scorrere del tempo, riesce a recare conforto (è questo un altro grande tema della poesia montaliana, che ricorrerà anche in seguito: cfr. ad esempi Cigola la carrucola del pozzo e Non recidere, forbice, quel volto).
La presenza, negli Ossi di seppia, di alcuni testi di più ampio respiro (come il difficilissimo Arsenio) prelude agli sviluppi della raccolta successiva, Le occasioni. Il titolo allude all’accadere di eventi cui è attribuito un particolare rilievo, in quanto potrebbero mutare il corso uniforme e monotono dell’esistenza; ma il miracolo non può compiersi per il poeta, al quale non resta che affidare ad altri, a enigmatiche figure femminili, la sua esile speranza. Se inizialmente la poesia montaliana era per lo più risolta nel rapporto fra il poeta e la natura, adesso abbraccia orizzonti più ampi, inglobando maggiori presenze e incontri. Ma tanto più l’attesa risulta deludente, dal momento che, nel complicarsi delle relazioni umane, anche gli elementari simboli di una vita gioiosa, prima nettamente percepibili, vedono offuscare la loro luce. Si approfondisce il solco che la memoria scava fra i momenti di un passato felice e un presente sempre più vuoto e smarrito. Mentre il «varco» (la speranza di approdare a una sicurezza storica o metafisica) appare sempre più lontano e difficile da riconoscere, la mente è occupata da fantasmi paurosi, da immagini allucinate e da presagi di morte (per tutti questi motivi si veda La casa dei doganieri).
Si giunge così, in questa direzione, a La bufera e altro, la raccolta con la quale culmina, e nello stesso tempo si esaurisce, questa fase della ricerca poetica montaliana. Il titolo allude, in particolare, allo sconvolgimento della guerra, che sembra recare una tragica e decisiva conferma al pessimismo montaliano nei confronti della storia. Ma il poeta non isola e nemmeno privilegia questo avvenimento, per ricavarne una lezione o per modificare la sua concezione della poesia (come faranno molti altri poeti). Commentando il componimento che dà il titolo alla raccolta, Montale sosterrà che la guerra ha costituito un’esperienza tragica e terribile, ma è stata pur sempre un avvenimento, fra i tanti che segnano comunque il doloroso destino dell’uomo, sul piano storico e metafisico (un solo testo, La primavera hitleriana, contiene del resto riferimenti espliciti). Privo di ogni fiducia nella storia, il poeta non crede che essa possa recare speranze di salvezza. E questo il messaggio affidato a Piccolo testamento, che esclude ogni compromesso con la partecipazione e l’impegno politico. Il «testamento» lasciato dal poeta è un segnale debole, identificato con una fioca luce e con un pugno di cenere; la poesia non è che una povera «testimonianza», la sola consentita in un mondo dominato dall’incertezza e dalla contraddizione.
L’approfondirsi dell’ispirazione, nelle due ultime raccolte, scava nella direzione di quel «male di vivere» che, osservato con il distacco di un’amara ironia, resta la cifra più vera dell’esistenza. Si complica, di conseguenza, la costruzione del periodo, in una sintassi che deve accogliere i nessi sempre più ardui e difficoltosi in cui viene a disporsi la parola. La simbologia degli oggetti e delle presenze - spesso caotiche e stipate - si fa oscura e indecifrabile, per l’intrecciarsi e il riverberarsi, inquieto e spasmodico, dei significati (come vedremo nell’analisi de La bufera, Montale sosterrà che è impossibile spiegare in termini concettuali l’uso di alcune parole). L’oggetto può così trasformarsi in un «talismano» (cfr. ad esempio, Dora Markus, ai vv. 24-28), cui è affidato il compito di mediare il rapporto fra il mondo sensibile e l’inconoscibile; si tratta di una scelta superstiziosa e irrazionale, che costituisce - emblematicamente - il disperato tentativo di esorcizzare le forze crudeli e nemiche del reale, opponendo loro una barriera tanto debole quanto inconsistente.
L’impostazione agevolmente colloquiale della prima raccolta si fa adesso più astratta, per la crescente difficoltà di comunicare una percezione della vita sempre più tormentata e complessa. Al «tu» di un generico interlocutore si sostituisce la presenza della figura femminile, che diventa il destinatario privilegiato all’interno del testo. Il personaggio ha assunto nomi diversi (Annetta-Arletta, Clizia, Mosca, ecc.), che corrispondono, come si è visto, a persone realmente vissute, care al poeta. Ma anche qui il riferimento biografico è privo di ogni connotazione "realistica" e riveste unicamente una funzione emblematica, di tramite fra la realtà fenomenica (le cose e la storia in cui sono inserite) e quella metafisica (il destino ultimo dell’uomo, da compiersi altrove, in una dimensione che lo trascende). Non a caso le donne sono cantate solo dopo la loro scomparsa: l’assenza diventa la condizione essenziale della loro presenza poetica. La donna partecipa, per così dire, di una duplice natura, umana e divina, intendendo, con quest’ultimo termine, l’opposta, ma sempre presente, possibilità di perdersi o di salvarsi. In questo senso si è potuto vedere una ripresa, del tutto particolare e moderna, della funzione della figura femminile nella letteratura delle origini, con particolare riferimento allo «stil novo» e a Dante: la donna in Montale diventa così una specie di Beatrice, che accompagna il poeta nel suo viaggio fra il conoscibile e l’inconoscibile. Solo in questo senso del tutto particolare si possono individuare gli elementi di un "canzoniere d’amore", che stabiliscono un’ulteriore linea di continuità fra i diversi testi montaliani. In una intervista a Giorgio Zampa, Montale ha ammesso la possibilità di considerare le sue poesie come un unico libro, di cui le prime tre raccolte rappresentano il «diritto», le ultime il «rovescio». Sembra quindi legittimo leggere «l’opera in versi» di Montale come una sorta di romanzo, teso a una ricognizione ai confini delle cose, per sondare i legami tra il finito e l’infinito.
Il rapporto con Dante acquista così un particolare risalto, costituendo uno dei più costanti fili conduttori: dai dantismi, frequentemente reperibili nei versi, alle non poche convergenze tematiche (relative ad esempio all’evocazione di atmosfere infernali). Anche quello di Montale può essere considerato come una specie di viaggio fra la storia e l’aldilà, tra il mondo sensibile e quello ultraterreno. In Dante, tuttavia, i confini apparivano ben distinti fra di loro, in un sistema di connessioni gerarchiche dove una causa prima giustificava l’ordine e il fine di ogni cosa. Per Montale non esiste una spiegazione o giustificazione di natura ultraterrena, che dia un senso al rapporto fra l’uomo e la realtà; alla causalità garantita da una presenza superiore si sostituisce una casualità che confonde le intenzioni umane, all’interno di un disegno inconoscibile. Né la storia né la religione possono offrire certezze. Il piano metafisico tende così a convergere con quello terreno, lasciando aperti pochi e incerti spiragli. Il paradiso resta un’ipotesi remota, affidata ai segni di una povera speranza, in un mondo che vive in una prevalente dimensione purgatoriale; ma è più facile che la vita si presenti simile a un inferno, in cui drammaticamente si rivelano la precarietà e l’angoscia dell’uomo, abbandonato a se stesso e privo di ogni difesa o riparo.


Postato il 9 maggio 2011

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