09 maggio 2011

G. Ungaretti, Analisi de L’isola (tratto da Sentimento del tempo)

Tratto dal volume Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, Paravia, volume III, tomo 2/b, pp. 774 ss di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria


Note al testo

1. proda: riva. L’ombra, densa dei boschi secolari (anziane selve), quasi chiuse in se stesse e meditative (assorte), dà l’impressione di un’oscurità serale senza fine (perenne).
2. scese: il soggetto è indeterminato.
3. rumore di penne: quelle di un uccello, che si era alzato in volo (sciolto) da un’acqua immersa nella calura (torrida) e quasi percorsa da un’intensa vibrazione (stridulo batticuore). Ma il reticolo dei richiami analogici è intensissimo e fittissimo: «batticuore introduce anche una sensazione emotiva, come di sorpresa e di ansia, che si estende intorno, al paesaggio e a quella presenza umana "richiamata" dal rumore; stridulo è aggettivo che ci riporta al suono acuto delle penne mosse nel volo» (Bàrberi Squarotti - Jacomuzzi).
4. larva: presenza evanescente, diafana e incorporea: prelude a ninfa (v. 10), mitica divinità dei boschi.
5. In sé ... errando: «difficilmente districabile il procedimento analogico che ha portato a queste immagini, anche se il significato complessivo è quello di un mutare continuo di sensazioni e di impressioni davanti all’instabilità delle visioni. Forse: errando, vagando dentro di sé alla ricerca di una chiarificazione delle labili immagini apparse e delle loro mutazioni, in un gioco di rapporti e di rispondenze per cui le cose, quindi l’atteggiamento interiore di chi le guarda e se ne compenetra - in sé -, acquistano, da parvenze incerte - simulacro - che erano, la verità chiara della fiamma» (Bàrberi Squarotti - Jacomuzzi).
6. l’ombra ... ulivi: riprende, dai versi iniziali, le immagini della sera e dell’ombra, che si raccolgono negli occhi delle fanciulle (vergini) apparse nel prato, riverberandosi ai piedi (appiè) degli alberi d’ulivo (cui la tradizione attribuisce un significato di mestizia funebre e religiosa).
7. distillavano ... dardi: i rami intricati lasciavano cadere quasi ad uno ad uno i raggi (dardi) del sole, "distillandoli" come le gocce di una pioggia pigra, lenta e rada.
8. liscio tepore: quello dei raggi filtrati dagli alberi, morbido e uniforme.
9. la coltre: il manto erboso del prato, nelle zone illuminate dal sole.
10. le mani ... febbre: così annotano criticamente Giorgio Bàrberi Squarotti e Stefano Jacomuzzi: «ancora una presenza umana (e ancora individuata in un solo particolare, le mani) a saldare la visione paesistica. La figura tradizionale, arcadica, del pastore, sembra quasi l’emblema conclusivo di tutta la composizione, che si risolve in un’ultima impressione di morbida lucentezza e di febbrile alterazione. Le mani del pastore in quel clima di umido tepore si stagliano in una lucida trasparenza - levigato richiama il liscio del v. 20 - come se una febbre leggera - fioca - le imperlasse di vitrea umidità».

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L’immagine dell’isola è del tutto irreale, priva di riscontri geografici, svincolata da ogni spazio rintracciabile o riconoscibile. Ungaretti ha dichiarato che ail paesaggio è quello di Tivoli. Perché l’isola? Perché è il punto dove io mi isolo, dove sono solo: è un punto separato dal resto del mondo, non perché lo sia in realtà, ma perché nel mio stato d’animo posso separarmene ». Tutta la poesia vive così in un’atmosfera indeterminata e rarefatta, nel suo andamento insieme descrittivo e narrativo; il suo stesso protagonista, pur compiendo una sequenza di azioni precise («scese», «s’inoltrò», «lo richiamò», «vide» ripetuto, «giunse»), allontanate peraltro in un passato remoto, è privo di ogni identità, muovendosi in un anonimato favoloso e meraviglioso, che sfuma e svanisce nella pura immaterialità.
Secondo Giuseppe De Robertis, L’isola è una di quelle poche «liriche di forma complessa» che, nel Sentimento del tempo, «non sono legate al filo di una logica autobiografica, non si muovono sul ritmo impresso da un bisogno di confessarsi, la nota personale è dimenticata, o, per così dire, rinasce con una necessità di creazione mitica». Ma anche il mito viene consumato e bruciato, senza residui, negli emblemi di una dimensione incorporea, in cui presenze e figure sembrano il corrispettivo attonito di un’evocazione o di un sogno intensamente concentrato, pensoso, e, nello stesso tempo, impalpabile, evasivo, sfuggente. Uno stesso procedimento di astrazione riguarda il riferimento a elementi tipici della letteratura arcadica e neoclassica (le ninfe, il prato, le greggi, il pastore). Come ha scritto Folco Portinari, «l’esplicita presenza di classiche divinità non significa una vocazione classicheggiante, ma che quei suoni, quei nomi sono strumenti analogici, metafisiche cifre dell’assoluto, della realtà sublimata».
Davvero folgorante e quasi virtuosistico è il gioco delle analogie da cui il componimento è interamente tramato e intessuto. Il significato delle parole (come abbiamo visto anche nelle note) si dilata a quelle immediatamente contigue, stabilendo una rete di corrispondenze sottilissima e inestricabile (si veda ad esempio « selve assorte», «stridulo batticuore dell’acqua», «pioggia pigra di dardi»), in cui i diversi registri di significato trascorrono uno nell’altro, mescolando fra loro allusioni, impressioni, sensazioni, in una profonda e indecifrabile sinestesia (dal «liscio tepore» del v. 20 allo stupendo esito dei due versi finali, con l’immagine delle «mani del pastore» trasferita nel «vetro l levigato da fioca febbre»). In questo modo Ungaretti ha potuto rappresentare la multiforme complessità di un’esistenza in cui il «sentimento del tempo» si confronta costantemente con la dimensione dell’eternità (si pensi ai versi iniziali, in cui l’azione comune e contingente di un personaggio, «scese», è inserita nel contesto di una stagione «perenne»).
Non ha senso, pertanto, cercare il significato preciso di questi versi (per quanto riguarda le singole parole e l’intero contesto), ma occorre affidarsi alla profonda suggestione della loro magia evocatrice e meditativa, che pure trasmette sensazioni indimenticabili (relative alla bellezza, all’amore, in ultima analisi al mistero della vita, in ciò che ha di fragile e di persistente, di contingente e di assoluto). Quello che importa sottolineare è l’estrema letterarietà dell’operazione, che, pur mettendo a frutto le esperienze in precedenza maturate (in particolare l’uso dell’analogia), se ne distacca radicalmente, soprattutto sul piano del linguaggio. Alla ricerca della parola nuda ed elementare si sostituisce adesso un periodare più complesso e addirittura lussureggiante, raffinato e prezioso, che recupera i moduli della tradizione, rinnovandone tuttavia i risultati. Si può notare, da un lato, l’urgere di una ricca e variegata ispirazione "barocca", evidente nel motivo delle metamorfosi, che percorre l’intero componimento, della molteplicità delle sue forme; dall’altro, la subordinazione di questa materia tumultuante a una rigorosa disciplina, di classica compostezza e rigore. Non è difficile cogliere la perizia tecnica, con cui Ungaretti costruisce sapientemente i suoi versi. L’analogia è esaltata dagli effetti dell’allitterazione, mentre, ai vv. 7-8, l’inciso parentetico sottolinea «la lunghezza estenuata del suono nei due verbi languiva e rifioriva» (Bàrberi Squarotti - Jacomuzzi), in rima fra di loro (oltre che prolungati da «larva» e da «vide», ripreso poi alla fine del verso successivo). Il procedimento, che cristallizza la parola in emblemi astratti e assoluti, è parallelo al recupero delle forme della versificazione tradizionale, che lo stesso Ungaretti ha così interpretato: «Dal lato strettamente tecnico il mio primo sforzo è stato quello di ritrovare la naturalezza e la profondità e il ritmo nel senso d’oggi singola parola; ho ora cercato di trovare una coincidenza fra la nostra metrica tradizionale e le necessità espressive d’oggi».

Postato il 9 maggio 2011

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