03 maggio 2011

Ma la poesia non s'ammala mai ...

di Alessandro Bottelli

Poeti innamorati. Patrizia Valduga porge una copia stampata di fresco della sua nuova antologia (Interlinea, pp. 96, euro 10) quasi fosse un balsamo miracoloso, un portentoso intruglio da centellinare con gli occhi, speziato di alti vocaboli armonizzati che ricorda i Medicamenta del suo esordio nel 1982.
Ma per lei di cosa è fatta la poesia?
«Di anima pura e di parole, come dice Pascoli».
Quando una composizione poetica può dirsi pienamente riuscita? E quando, invece, definitivamente conclusa?
«È "riuscita", e anche conclusa, se ci dà piacere leggerla, in ogni sua parte».
Anche le poesie, come gli uomini, sono soggette ad ammalarsi?
«La poesia – e penso alla grande poesia – resta viva e come nuova per sempre. È la lingua che si ammala: certe parole non si usano più e restano come cadaveri nei vocabolari; certe altre si usano troppo, fino a cambiare i loro connotati, stravolgerne il significato; certe altre ancora vanno di bocca in bocca con così poco senso da sembrare moribonde».
Che differenza c’è tra lei e la sua poesia?
«Nessuna, voglio sperare: io sono la mia mente e i miei versi sono il prodotto della mia mente».
I versi devono trattenere in sé qualcosa della voce, della cadenza, dell’inflessione vocale ma anche dei gesti o del modo di atteggiarsi di colui che li compone?
«Non lo so; penso che questo possa farlo un disco o un film».
È molto esigente con se stessa? E con gli altri?
«Non credo; ma qualsiasi cosa faccia, voglio farla meglio che posso».
Si aspetta, una poesia? Lei quanto è capace di aspettare o quanto ha aspettato una poesia?
«I versi mi arrivano quando vogliono loro, e restano quanto vogliono loro. Non li ho mai aspettati».
Le parole l’hanno sempre sostenuta, oppure in certi casi, l’hanno lasciata sola?
«Le parole – scritte, intendo – non ci lasciano mai soli, ma abbiamo bisogno anche degli esseri umani».
Pablo Picasso diceva: «Io non cerco, trovo». Lei cosa ha trovato nel fare poetico?
«Qualcosa di me che non sapevo. Trovo molto di più neei grandi poeti. A stare con loro, mi sembra quasi di conoscerli personalmente: quando leggo La Pentecoste di Manzoni, non ricevo solo il suo pensiero e il suo senso morale, ma percepisco anche la sua nevrosi, che trova pace in quella forma, in quella prigione di settenari, razionalissima e torturante, per accogliere il divino».
Generalmente, come nasce una sua composizione poetica? Si lascia ispirare dal momento, o viceversa è il risultato di un rigido schema prestabilito, di un progetto pensato nei minimi particolari, in cui nulla è lasciato al caso?
«Si è poeti per qualche giorno all’anno, secondo me. Lo scorso Natale, dopo sei anni che non scrivevo, sono stata inondata di versi e ho scritto come una forsennata. A me succede così. Penso che un poeta debba scrivere solo quando ne sente una vera necessità, quando è questione di vita o di morte, non per restare "sulla piazza" o ripetere se stesso».
Lei ha recuperato un uso rigoroso della metrica. Cosa la infastidisce di più nel verso libero?
«Amo i versi cosiddetti liberi, che liberi non sono mai. Ma non li so fare».
La pratica poetica ha avuto benefici effetti anche sulla sua cospicua attività di traduttrice? In che modo?
«Non credo proprio: mi hanno accusato di aver "valdughizzato" Mallarmé… Tradurre non è diverso da scrivere: bisogna avere la stessa carica, lo stesso entusiasmo. A me non è mai riuscito di fare le due cose contemporaneamente. Se sono felice degli endecasillabi che ho scritto da Shakespeare, non ho più la forza psichica di pensarne per me».
Non si è mai «pentita», a posteriori, di aver pubblicato in passato qualcosa che oggi magari le crea qualche perplessità?
«No: negherei senso a interi anni della mia vita».
In certi momenti la poesia è stata per lei anche una consolazione, oppure un mezzo, il mezzo più idoneo per esprimere le sue idee sulla vita e sul mondo?
«"Consolazione" non mi piace. È solo questione di piacere: piacere di capire, di tentare di capire, di rianimare le parole, di rianimare il cervello…».
Ci sono esperienze appartenenti alla sfera umana che la poesia non è in grado di sostenere, che in qualche modo rifiuta a priori?
«"Nulla al mondo è che non possano i versi", dice Petrarca».
Potrebbe indicarci un aspetto dell’arte che la inquieta, la turba, o, addirittura, le fa paura?
«L’unica cosa che mi fa paura è che si spaccino per arte tante patacche, tante provocazioni, tante insulsaggini».
Cosa c’è di inspiegabile, di misteriosamente oscuro nell’impulso che determina ogni singola creazione in versi?
«Credo che non ci sia niente di misterioso, o di inspiegabile: c’è chi ha questo istinto, questa passione, questa fede».
A suo parere, ci sono territori sconosciuti all’arte poetica? Territori dove neppure lei si è ancora consapevolmente avventurata?
«Di totalmente sconosciuta oggi, a mio parere, c’è la grande poesia del passato. Basti pensare che Giovanni Prati, considerato da critici come Bosco e Baldacci il nostro più grande poeta romantico, non si ristampa più dal 1913, cioè dai tempi dei Classici Laterza. Per conoscere la poesia italiana oggi bisogna andare in biblioteca».
Che posto ha il gioco, l’elemento ludico, nel suo modo di scrivere versi?
«Ne ha sempre meno. Però il piacere della trasgressione ludica è sempre implicito: la poesia tratta la lingua in modo regressivo, infantile, gioca con i suoni; è contro l’uso utilitario e razionale che ne fa l’adulto. Prima giocavo di più con i suoni».
Non le è mai capitato di dedicarsi alla stesura di versi per bambini?
«No: sono affettivamente ritardata, e i bambini mi fanno concorrenza. Dunque, me ne tengo lontana».

«Avvenire» del 29 aprile 2011

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