31 luglio 2011

La questione morale: come tutto ebbe inizio

I fascisti inconsapevoli
s. i. a.

In un libro "il monolitico conservatorismo dello stato" e l'inizio della marcia verso l’orgoglio antropologico
Pubblichiamo il capitolo conclusivo del libro Anni ’70. I peggiori della nostra vita (I Grilli Marsilio, pp. 204, €15.00) di Giuliano Cazzola, Simonetta Matone, Filippo Mazzotti, Domenico Sugamiele, con un’introduzione di Maurizio Sacconi.

Non esistono istituzioni che possano bastare a se stesse. Osservare il quarantennale paradosso italiano di un contesto istituzionale formalmente immobile come una stalagmite, e nel frattempo percorso da tensioni interne tali da averlo sfigurato, non deve far dimenticare come simili sviluppi ed esiti così infausti non sarebbero mai stati possibili se a mancare fosse stato il carburante indispensabile: il consenso. Non il consenso della maggioranza, che, per quel poco che conta, probabilmente non c’è mai stato. Il consenso della componente politicamente attiva, e perciò apparentemente maggioritaria, e dell’apparato culturale che ne è insieme il fomentatore e il ritratto.
Ancora una volta si finisce per dover cercare dalle stesse parti di sempre. Se si solleva il velo di un’opinione pubblica improvvisamente attratta da un moralismo che non l’aveva in precedenza mai sedotta, che scopre che ciò che le interessa nella conduzione dei pubblici uffici e delle cariche elettive non sono il riscatto degli oppressi, il progresso sociale e l’equità, ma la semplice, banale onestà, ci si imbatte di nuovo in loro: gli aedi mediatici della moralizzazione, e le loro truppe, la borghesia urbana impiegatizia che grida al ladro per dire quanto sia morale lei stessa, condividono lo stesso passato che affligge noi tutti. Sono le stesse persone che ce l’hanno inflitto. E’ la stessa generazione che ha mantenuto il suo tratto distintivo, l’unico probabilmente vero e costante nel mutare delle circostanze e delle rappresentazioni: la convinzione di essere “la meglio gioventù”. E si è limitata a cambiarne la declinazione, il richiamo per anatre di cui ha bisogno per riconoscersi: non più la solerzia per le cause operaie o terzomondiste, ma la dirittura morale, l’incorruttibilità, con un piglio che ai tempi belli quella stessa generazione avrebbe qualificato con una parola semplice semplice, pronunciata tante volte a sproposito ma in questo caso no: fascista.
E c’è poco da strabuzzare gli occhi, perché, del fascismo, il popolo di Mani pulite e i suoi tardi epigoni odierni condividono tutto: dall’estrazione piccoloborghese, con relative frustrazioni, all’odio verso regole e procedure istituzionali, alla fascinazione per quelli che vanno per le spicce. Non sarebbe del resto una novità. Quanti di quegli studenti, così simili ai nostri eroi, che assediarono Montecitorio nelle radiose giornate del maggio 1915 per invocare l’ingresso dell’Italia in guerra, si ritrovarono di lì a qualche anno di nuovo a Roma a fare un’altra, altrettanto grottesca, marcia?
Com’è potuto accadere che gente tanto profondamente ideologizzata, e tanto indifferente a una legalità tacciata infinite volte di essere borghese, e tanto indulgente verso fenomeni d’illegalità ben più violenti e gravi, abbia trovato il proprio ultimo segno di identità di gruppo in qualcosa di così lontano dai suoi presupposti ideologici?
Anche in questo caso ci sono una data, un luogo e dei protagonisti: la data è il 28 luglio 1981; il luogo sono le pagine di Repubblica, il quotidiano che si è incaricato di accompagnarli dalla rivoluzione sognata alla parodia d’insurrezione del 1992-1993; i protagonisti sono due, l’intervistatore è Eugenio Scalfari, l’intervistato, il più colpevole dei due, Enrico Berlinguer.
“Penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?”, domanda il primo. E il secondo, portando a compimento, per usare parole sue, una mutazione genetica della cultura a cui apparteneva, che egli andava imputando ad altri, risponde: “Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?”.
Diversità. Ci mise qualche anno in più del suo intervistatore, ma alla fine anche il segretario trovò la parolina magica che gli avrebbe permesso di mettersi in comunicazione con le schiere degli anni settanta, “untorelli” li chiamava fino a qualche anno prima, e di spalancare loro le porte della chiesa rossa che avevano fino ad allora guardato in cagnesco.
Rimesse nell’apposito sacco le pive di un compromesso storico abortito, Berlinguer è in quel momento pronto per partire verso nuovi, ancora più entusiasmanti, sbagli. Intona, perciò, il proprio canto alla melodia che gli ex untorelli vogliono ascoltare e spiega loro che il comunismo è roba per borghesi, non deve far paura. Il Pci non è il partito della classe operaia, quella semmai è la truppa. E' il partito di quelli che non rubano, che non occupano lo stato, che non spartiscono poltrone. E' il partito della parte migliore del paese. E' il loro partito.
E così, quella conversione dalla questione sociale a quella morale, quella marcia verso l’orgoglio antropologico iniziata dal suo intervistatore, trovò il suo portabandiera. Se il cugino socialista era uscito dagli anni settanta con un anno di anticipo, nel ’79, guardando in avanti, sotto le bandiere della grande riforma, il dirimpettaio comunista ne usciva con un anno di ritardo e con lo sguardo rivolto, tanto per cambiare, nella direzione sbagliata. Nasce allora quel timbro di classe dirigente alternativa, che si legittima da sé con un’onestà e una competenza autoattribuite, una classe dirigente che merita il potere in quanto tale, a prescindere dai contenuti, che gli eredi di Berlinguer non sono ancora riusciti a staccarsi di dosso. Una classe dirigente che trae le proprie radici da una Costituzione immaginaria, che anch’essa sbiadisce. Dalla missione della democrazia progressiva di Togliatti, quella di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, al banalissimo compito di interpretare le grandi correnti d’opinione e controllare l’operato delle istituzioni.
Non è un caso che il tratto distintivo che la fame d’identità generazionale, l’ansia di diversità antropologica, ha assunto ai giorni nostri è quello di una sorta di idolatria della Costituzione, elevata al rango metafisico di misura di tutte le cose, eden perduto in cui ognuno poteva trovare il proprio ubi consistam e niente era in grado di turbare i sonni di chi, da una politica finalmente restituita al suo rango e capace di scegliere, ha tutto da perdere e nulla da guadagnare.
Una Costituzione che non esiste nella realtà storica, nella quale c’è semmai un saggio compromesso tra forze diverse e nemiche ma capaci di unirsi, in virtù delle necessità storiche, contro un altro nemico più forte e feroce di ciascuna di loro. A patto, come fu, di rinunciare, anche grazie al compromesso costituzionale, all’eventualità di una sopraffazione reciproca nel futuro.
Ma questo non conta per chi, quando parla della Costituzione o della legalità, sta soltanto parlando di se stesso e a se stesso per raccontarsi, ancora una volta, della propria superiorità morale. E ha bisogno di ripeterselo così spesso, magari, perché di essere tanto diverso e migliore non è poi così sicuro.
Una Costituzione che appare in due forme che, come spesso accade per ciò che rinvia a quell’epoca, non possono essere entrambe vere e sono, invece, entrambe false: la Costituzione, in una sua accezione totalizzante, come programma politico che relega i partiti al ruolo subalterno di esecutori di un percorso scritto una volta per tutte oltre sessant’anni fa e che ha conosciuto negli anni settanta il suo apice. Un’impostazione che oggi serve soltanto a distinguere strumentalmente fra le culture politiche legittime e quelle che non lo sono, quasi che la legittimità non derivi dal consenso popolare ma da radici che affondano in un mondo che non c’è più.
E poi la Costituzione come pura forma, regole del gioco che surrogano una politica il cui solo ruolo residuo è quello di rispettare forme che tengono il luogo di contenuti che si decidono altrove. Anche in questa seconda accezione la politica vede svanire il suo primato, costretta in un limbo in cui tutto ciò che può fare è non decidere. E, perciò, astenersi dal mutare i rapporti di forza sociali che ci sono, accettando la sorte minimale di arbitro formale della contesa fra nomenclature e brandelli di establishment, il cui arbitro sostanziale deve restare il conformismo dei valori, perpetuato da un’industria culturale che non ha mai fermato i propri motori e mai annacquato il proprio pessimo vino.
Ed è in nome di una Costituzione che non c’è, che li vediamo ancora oggi, i ragazzi di Valle Giulia, scendere in piazza e tenersi per mano, per lo più intorno a qualche tribunale. E dirsi l’un l’altro di quanto alti fossero i loro ideali e quanto siano ancora migliori della società che li circonda, e gridare come forsennati mentre fanno, e raccontano di fare, la loro ennesima finta rivoluzione.
«Il Foglio» del 27 luglio 2011

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