31 luglio 2011

Perché Dante e Rabelais non sono superiori a Manzoni e Kafka

Risposta a Guglielmi sulle due linee nel campo della lingua. Anche Bachtin e Contini faticavano a trovare una continuità tra gli innovatori
di Cesare Segre
Caro Guglielmi, mi rallegro che sia intervenuto («Corriere» del 6 luglio) sul problema delle due linee (monolingue e plurilingue) della narrativa europea, perché di tratta di una questione cruciale nella nostra attività di critici. Mi permetto di risponderle per chiarire qualcosa anche a me stesso: infatti ho scritto interi saggi accettando la tesi delle «due linee», che ora tendo ad abbandonare. È proprio preparando l'articolo cui lei accenna, e la precedente relazione congressuale, che mi sono nati forti dubbi. Gl'interrogativi finali del mio articolo non erano interrogazioni retoriche, ma proprio inviti a un chiarimento. Dunque, riflettiamo un momento. Lei si rifà giustamente all'assioma secondo il quale tutti gli scrittori validi lavorano sulla lingua facendone un uso innovatore. Si sa che alcuni sottopongono la lingua a un trattamento vistosamente energico, altri operano in modo più sottile, toccando l'uso della lingua più che la lingua stessa, con un' efficacia di cui ci rendiamo conto solo con un esame attento. Spitzer, maestro di stilistica letteraria (perciò anche di Bachtin e di Contini), si occupò sia di autori linguisticamente rivoluzionari (come Rabelais), sia di autori apparentemente rispettosi della lingua (La Fontaine, Racine). Quanto a Rabelais, Spitzer ne individua i precursori, come Pulci, e trova le tracce del suo influsso in Balzac, in Flaubert epistolografo, in Victor Hugo, in Céline. Ma non mi pare accenni ad una linea di sviluppo. Dice anzi che un grande innovatore costituisce una costellazione (che certo non si può mettere in fila con altre) attraversata dalla corrente della storia delle idee. Quanto agli autori meno rivoluzionari, Spitzer cerca le loro impronte digitali nel modo di organizzare la successione dei discorsi (La Fontaine); nell' alternanza efficace di prosaicità e liricità, con tutto un gioco di «sordina», per esempio disindividualizzando il personaggio con l'uso dell'articolo indefinito o con la perifrasi (Racine); nell'ossessione delle relazioni causali (Charles-Louis Philippe). In tutti questi casi, la lingua non è mutata, ma è rinnovato il modo di impiegarla. È comprensibile la spinta a istituire due linee della narrazione, ma ci sono molte difficoltà. Per questo Bachtin continua a raggruppare diversamente gli autori in base a vari criteri (più volte parla di tre, e non due, linee di sviluppo; oppure storicizza in base alle manifestazioni del «carnevalesco», o alle realizzazioni del cronòtopo, il rapporto di spazio e di tempo); e Contini va all'indietro, partendo da Gadda ma evitando un elenco motivato degli scrittori di questa linea. E poi, una linea dovrebbe avere qualche elemento di continuità. Invece, gli scritti plurilingui spuntano isolatamente, e, a parte influssi e allusioni, ricorrono a procedimenti stilistici diversi, che hanno in comune solo il fatto di incidere sull' istituzione linguistica. Allora sarebbe forse più sensato fissarsi sulla dialettica tra scrittori monolingui e plurilingui, e vedere le apparizioni dei plurilingui nella linea monolingue come rivoluzioni che creano nuove prospettive e preludono ad altre novità. Mi spiace infine di non essere d'accordo con lei, Guglielmi, nella preferenza per la linea plurilingue, almeno nella modernità. Io credo che il critico debba essere, in partenza, neutrale sull'argomento. Se io guardo alle due linee nel loro sviluppo, non me la sento di preferire sempre Dante, Pulci, Folengo, Rabelais, Swift a Petrarca, Ariosto, Leopardi, Manzoni, Kafka. Sì, perché il massimo innovatore, Kafka, era rigorosamente monolingue.

Il dibattito sulle due linee del romanzo e la continuità tra Bachtin e Contini è cominciato sul «Corriere» il 4 luglio con un articolo di Cesare Segre. Il 6 luglio è uscito il contributo di Angelo Guglielmi.
«Corriere della Sera» del 10 luglio 2011

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