31 agosto 2011

Resistenti, indifferenti e «collabò»: l’intellighenzia francese sotto Hitler

Dal duro e puro Malraux alla tiepida Piaf fino al compromesso Simenon: ecco come si comportò il mondo culturale nella Parigi occupata dai nazisti
di Eugenio Di Rienzo
La nostra memoria visiva conserva alcune indimenticabili testimonianze della «strana disfatta» della Francia nel secondo conflitto mondiale, culminata con l’ingresso delle truppe naziste a Parigi il 14 giugno 1940. La sfilata trionfale dei reparti della Wehrmacht, lungo gli Champs-Élysées, di fronte alla cittadinanza stordita dall’incredulità e dalla disperazione. La visita-lampo di Adolf Hitler al Sacro Cuore e alla Torre Eiffel, alla luce incerta della livida alba del 23 giugno. Infine, un grande film del 1980 (L’ultimo métro di François Truffaut) che narra le vicissitudini di un regista e impresario ebreo, nascosto nella cantina di un teatro parigino per sfuggire alla cattura e per continuare a dirigere, da quel rifugio, le rappresentazioni delle sue commedie.
La pellicola, interpretata da Catherine Deneuve e Gérard Depardieu, costituisce la migliore introduzione alla lettura dell’affascinante volume di Dan Franck, Mezzanotte a Parigi (Garzanti, pagg. 508, euro 25), dedicato a «La capitale della cultura mondiale nel momento più difficile dell’occupazione nazista», come recita il sottotitolo. Un saggio che analizza con grande ricchezza di particolari le vicende dei tanti scrittori, artisti, accademici, attori, registi, esponenti del mondo della moda (non solo francesi ma anche esuli provenienti dai più diversi paesi europei) divisi tra intesa con l’invasore, resistenza, fuga, deportazione, nel lungo arco temporale che si concluse, il 25 agosto 1944, con la liberazione della nuova Atene, adagiata sul bordo della Senna, da parte dei reparti corazzati gaullisti guidati dal generale Leclerc.
La storia di questa comunità intellettuale, schiacciata dal tallone di ferro nazista, fu soprattutto la storia di una grande diaspora non solo geografica ma soprattutto ideologica e politica. Mentre il filosofo tedesco Walter Benjamin cercò senza successo di abbandonare la Francia, dove la sua origine ebraica lo avrebbe condannato alla deportazione, morendo stroncato da un infarto durante il tentativo di sconfinare in Spagna, lo storico March Bloch si unì alle formazioni partigiane per terminare la sua esistenza sotto i colpi di un plotone di esecuzione. Anche romanzieri e poeti di fama internazionale - Aragon, Malraux, Mauriac, Saint-Exupéry - parteciparono attivamente al movimento anti-tedesco, imbracciando le armi o svolgendo un’intensa propaganda clandestina la cui espressione meglio riuscita furono I Consigli all’occupato, redatti dal giornalista socialista Jean Texier, dove si forniva un succinto decalogo per contribuire all’isolamento morale e materiale delle forze di occupazione.
Altri, invece, come Maurice Chevalier, Sacha Guitry, la Chanel e la Piaf, imboccarono la più agevole strada dell’accomodamento con le autorità tedesche, giustificando, poi, quella scelta con l’alibi di dover continuare il proprio mestiere anche in una Paese dove l’intera produzione cinematografica e drammatica era rigidamente controllata dal Ministero della Propaganda di «Herr Goebbles». Altri ancora (Céline, Dieu La Rochelle, Montherlant) non si accontentarono di restare nell’ambigua «zona grigia», ma entrarono nell’area nera del collaborazionismo militante, spinti da interessi economici ma più spesso da sincere motivazioni come accadde per Robert Brasillach.
Caporedattore del settimanale Je suis partout, nelle cui pagine feroci incitamenti all’odio antigiudaico si alternavano all’entusiastica apologia del Nazionalsocialismo, Brasillach, catturato nel settembre del ’44, venne condannato, dopo un processo farsa durato venti minuti, alla pena capitale. La sentenza fu eseguita, il 6 febbraio ’45, nonostante la mobilitazione in suo favore degli studenti della Sorbona e la richiesta di grazia indirizzata al generale Charles de Gaulle dai grandi nomi dell’intellighenzia parigina e dal più fermo oppositore del regime di Vichy, Jean Paulhan, fondatore della rivista Résistance che, largamente diffusa, contribuì potentemente alla rinascita del sentimento nazionale francese. La levata di scudi per ottenere la salvezza di Brasillach era giustificata dai firmatati dell’appello dal fatto che la liberazione della Francia aveva messo in moto un meccanismo di punizione dei collaborazionisti, connotato da parzialità e indulgenza, nel quale il numero dei «salvati» superava di molto quello dei «sommersi». In questo clima, sostenne Paulhan, Brasillach era divenuto un semplice capro espiatorio, sacrificato per assicurare l’impunità a molti altri colpevoli il cui tradimento rimase per decenni sepolto nel silenzio. Soltanto grazie alla biografia di Pierre Assouline, pubblicata nel 1992, si è appreso, infatti, che Georges Simenon, intrattenne cordiali rapporti con gli alti comandi tedeschi, si arricchì scrivendo per il cinema e la stampa periodica gestiti dai nazisti e arrivò addirittura a vendere l’esclusiva del personaggio del Commissario Maigret all’industria cinematografica germanica.
«Il Giornale» del 31 agosto 2011

Una vita a lottare contro i privilegi delle coop adesso Caprotti si prende la sua rivincita

Il decreto toglierà le agevolazioni fiscali alle cooperative che per anni hanno fatto cartello contro il libero mercato. A lungo ha fronteggiato i numerosi colpi bassi delle "sorelle rosse"
di Stefano Filippi
È un giorno come qualsiasi altro per Bernardo Caprotti: mattinata nel quartier generale di Pioltello, alle porte di Milano; pranzo con i collaboratori più stretti; pomeriggio di nuovo al lavoro, nel riserbo, secondo il leggendario stile di vita del «Dottore». Potrebbe essere il giorno della rivincita per l’ottantaseienne patron di Esselunga, uno degli imprenditori più schivi - e di maggiore successo - d’Italia. È il giorno in cui il governo ha annunciato che eliminerà i privilegi fiscali alle cooperative. E proprio Caprotti, nel settembre di quattro anni fa, pubblicò il bestseller Falce e carrello (Marsilio editore) nel quale raccontava i colpi bassi subìti dal gioco di sponda tra la Legacoop, gigante economico legato al Pci-Pds-Ds, e le amministrazioni locali di sinistra.
Caprotti non ha mai indossato i panni del fustigatore. Il suo non era un libro-denuncia, ma una esposizione di fatti, scritta con un linguaggio sobrio e accompagnata da una mole di documentazione pubblicata on-line. Il racconto di una serie di vicende imprenditoriali che sembravano iniziative sfortunate, mentre in realtà erano state affossate dalla strategia delle «coop sorelle» per tenere lontana la concorrenza dal mercato della grande distribuzione in larghe zone del Paese.
Licenze commerciali lasciate scadere, ma prontamente girate dalle amministrazioni di sinistra alle coop «amiche». Ritrovamenti archeologici etruschi usati per dissuadere Esselunga dall’insediarsi nel cuore di Bologna. Terreni pagati all’asta sei volte il loro valore di mercato pur di impedire che l’imprenditore brianzolo aprisse un supermercato a Modena. Operazioni preparate con meticolosità e con l’impiego di ingenti capitali erano state mandate in fumo in un batter d’occhi.
Non si trattava di episodi riconducibili alla normale dialettica della concorrenza, ma tappe di un preciso disegno per bloccare l’espansione di Esselunga e tentarne la scalata.
Tuttavia le coop non avrebbero potuto mettere in campo la loro manovra se non potessero contare su un trattamento normativo e fiscale che le pone in situazione di vantaggio. Gli stretti rapporti con gli enti locali governati dalla sinistra non spiegano tutto. Ed è questo livello, quello dei privilegi, che viene colpito dal provvedimento del governo Berlusconi.
Le coop sono scalabili perché nessun socio può avere la maggioranza delle quote, quindi in qualche modo si sottraggono alle leggi del mercato. Hanno manager con poteri quasi illimitati, nel bene e nel male. Sono prive del fine di lucro e dovrebbero destinare parte degli utili (non tassati) a scopi mutualistici. Gran parte delle imposte sono deducibili dal reddito: in questo modo, per esempio, l’Ires (Imposta sul reddito delle società) incide sull’utile lordo delle coop per il 17 per cento, contro il 43 che abbatte l’utile di una società non cooperativa.
E poi le coop possono evitare di rivolgersi alle banche per ottenere capitali, perché incamerano ingenti somme in prestito dai soci ai quali garantiscono un doppio vantaggio.
I soci infatti godono di tassi di assoluto favore (Unicoop Firenze rende l’1,65 per cento, molto più di qualsiasi banca), sul quali si applica l’aliquota fiscale del 12,5 per cento contro il 27 per cento dei depositi bancari. E in un buon numero di casi, i bilanci delle coop vengono controllati e certificati da società riconducibili alle grandi centrali mutualistiche.
Questa massa di esenzioni fiscali doveva garantire la vita della miriade di piccole e piccolissime realtà cooperative che operano prevalentemente nel sociale. Ma nei mercati più vasti si trasformano in meccanismi distorsivi.
Le grandi coop sono presenti nella grande distribuzione e nell’agroalimentare, nel credito e nelle assicurazioni, nelle costruzioni e nell’impiantistica, nel settore immobiliare e dei servizi ospedalieri, perfino nella telefonia mobile e addirittura nel mercato dei farmaci.
Esse operano sul mercato dei capitali, raccolgono risparmio, emettono azioni e obbligazioni, si quotano in Borsa pur conservando franchigie (come le agevolazioni tributarie e la non contendibilità grazie al voto capitario nelle assemblee) di cui i concorrenti non godono.
«Le cooperative hanno perso l’anima», disse una volta l’ex segretario della Cgil Bruno Trentin all’Unità. Forse, togliendo un po’ di privilegi, gliela restituirà un governo di centrodestra.
«Il Giornale» del 31 agosto 2011

29 agosto 2011

La politica e la libertà di noi scrittori

di Francesco Piccolo
Questa rubrica si intitola “terapia” perché si occupa dei problemi della sinistra, non di quelli degli altri, di cui si occupano tutti con abbondanza e soddisfazione. Del resto, il pensiero dominante e pericoloso è il seguente: fino a quando gli altri saranno peggiori, noi non dobbiamo preoccuparci di essere migliori. Fino a quando ci sarà Berlusconi, sarà agile trascurare le nostre debolezze. Ma appena dopo saranno visibili i molti difetti dell’opposizione, che si è occupata troppo poco di un progetto propositivo, pur avendo avuto molti anni a disposizione per farsi trovare pronta.
Io sono un elettore del Partito Democratico, e mi interessa molto occuparmi di ciò di cui mi sento parte. Non sono contento del partito, come tanti; ma se lo scrivo, questo non piace a chi ha potere. Chi ha potere è permaloso, arrogante, minaccioso. Forse, ai tempi del Partito Comunista, qualche ragione per diventare timorosi poteva esserci, visto che una “scomunica” costava a volte un’emarginazione concreta. Ma adesso, francamente, avere paura del Partito Democratico e della minacciosità di quelli che non amano essere criticati, risulta davvero difficile. Alcuni, come è successo con D’Alema, continuano a ritenere questo giornale organo o proprietà del partito. Hanno molta voglia di dimenticare che non è più così da anni.
Gli scrittori, poi, nella quasi totalità dei casi, sono immuni dalle minacce o dalle rabbie scomposte del potere, per un motivo semplice: sono del tutto disinteressati al potere. E, al contrario del linguaggio dei politici, cercano sempre di esprimere un’opinione sincera, di cercare la verità, anche quando non ci riescono. Altrimenti non avrebbero nemmeno cominciato a scrivere, da ragazzi. Questa libertà non è attaccabile, non è detonabile in alcun modo. E se dovesse finire per esprimersi anche soltanto a casa propria, avrebbe la stessa passione e identiche caratteristiche di onestà intellettuale.
«L'Unità» del 31 luglio 2011

Viviamo nel secolo delle bufale?

In Rete, sui giornali e perfino nei libri circola ormai una quantità incredibile di falsi. Orientarsi è difficile, ma ci si deve difendere. Magari con la diffidenza. Perché non è vero che non ci sia più confine tra verità e menzogna

di Umberto Eco
Ho appreso da "Il fatto Quotidiano" del 13 aprile che lo "International Herald Tribune" aveva pubblicato una mia lettera molto polemica sulla guerra in Libia. Però si trattava dell'ennesima trovata di un signor X (non lo nomino perché immagino che faccia tutto quel che fa per farsi pubblicità) il quale si è specializzato in falsi, aveva in passato inviato ai giornali italiani pretese interviste con Gore Vidal, John LeCarré, Philip Roth e via dicendo, aveva messo on line un mio dialogo (ovviamente fasullo) con Abraham Yehoshua, e aveva creato un mio falso profilo Facebook - che aveva subito raccolto numerose offerte di amicizia, come pare accada tra i dissennati praticanti di questo sport quasi onanistico. Dagli amici ci guardi Iddio.
Pare anche che il signor X abbia inviato la falsa lettera allo "Herald Tribune" usando un mio presunto indirizzo di email aperto da lui stesso con grande facilità, ma nel contempo avesse accluso il suo (vero) numero di cellulare, che evidentemente nessuno aveva controllato. Solo nei giorni seguenti il giornale americano (colto da un sospetto) mi ha chiesto se la lettera fosse uno "hoax" (o bufala), ho risposto che lo era, e il giornale ha spontaneamente pubblicato una contrita smentita.
Su Internet trovo un lancio Adnkronos del 18 aprile che annuncia la scomparsa di Carlo Capponi, il bidello dell'Isola dei Famosi (?), e precisa: "Della sua esperienza all'Università di Bologna raccontava con fierezza: "Ho lavorato anche per Umberto Eco, gli giravo le pagine mentre firmava autografi"". Non ricordo di aver mai conosciuto il signor Capponi ma, se pure fosse avvenuto, difficilmente avrebbe potuto girarmi le pagine mentre firmavo autografi perché non sono mai stato così cafone da firmare autografi all'università, salvo che sui libretti di esame. Sempre in data 18 aprile, una rivista on line dal titolo allettante, "La perfetta letizia, Rivista giornalistica cattolica d'informazione e attualità", recensisce "Quisquilie e pinzillacchere" di Vincenzo Reda, "giunto alla sua seconda pubblicazione, introdotta dalla prefazione di Umberto Eco". Come è facile intuire non ho mai prefato questo libro (né conosco il Reda) ma la cosa non mi stupisce perché una volta un signore ha pubblicato come prefazione alla sua opera una mia lettera, neppure esageratamente cordiale, in cui declinavo la richiesta di una prefazione.
Sempre l'Adnkronos in data 15 aprile riferisce che, dopo il terremoto che ha investito l'Abruzzo, riapre al pubblico la torre di Rocca Calascio, "usata anche come set di "Il nome della Rosa"". Vedo anche la foto di questa bellissima fortificazione, che tuttavia non è stata usata per l'abbazia del film, ricostruita interamente a Fiano Romano. Ma viaggiando per Internet ho trovato molti monasteri che sono stati riconosciuti dai turisti come luogo della mia abbazia, e quindi le abbazie de "Il nome della Rosa" sono ormai come i chiodi della Croce.
Immagino che molti miei colleghi scrittori possano citare episodi analoghi. Ormai Internet è divenuto territorio anarchico dove si può dire di tutto senza poter essere smentiti. Però, se è difficile stabilire se una notizia su Internet sia vera, è più prudente supporre che sia falsa. A proposito di falso e autentico, il signor X dice che distribuisce i suoi falsi per dimostrare che non c'è più confine tra verità e menzogna. Ma si è visto che le sue bufale vengono subito scoperte. In un mio recente romanzo ho raccontato la storia di un falsario e di numerosi documenti mendaci prodotti dai servizi segreti di mezza Europa, e qualche recensore ha osservato (forse ossessionato dalla battaglia in atto contro il cosiddetto relativismo) che dove tutto è falso si perde ogni criterio di verità. Non ho mai letto un'affermazione così filosoficamente stupida. Per sostenere che qualcosa è falso bisogna ritenere (anche in termini di senso e linguaggio comune) che esista da qualche parte qualcosa di autentico. Sospettare che qualcosa sia falso significa avere una qualche nozione di verità. Ma forse questa è una posizione troppo sottile per i nemici del relativismo.
«L'Espresso» del 29 aprile 2011

Mentire e far finta

Nella finzione narrativa il confine tra vero e inventato è sfumato. Capita così che i lettori prendano sul serio i romanzi. Come se parlassero di cose realmente successe. E che attribuiscano all'autore le idee dei suoi personaggi

di Umberto Eco
I lettori si saranno accorti che in alcune delle ultime bustine mi sono occupato della bugia. E' che stavo preparando un intervento che ho tenuto lunedì scorso alla Milanesiana, dedicata quest'anno a "bugie e verità", dove ho anche parlato della finzione narrativa.
Un romanzo è un caso di menzogna? A prima vista dire che don Abbondio ha incontrato due bravi nei pressi di Lecco sarebbe una bugia perché Manzoni sapeva benissimo di raccontare una cosa che si era inventato. Ma Manzoni non intendeva mentire: "faceva finta" che quello che raccontava fosse accaduto davvero e ci chiedeva di partecipare alla sua finzione, proprio come accettiamo che un bambino, che impugna un bastone, faccia finta che sia una spada.
Naturalmente la finzione narrativa richiede che vengano emessi segnali di finzionalità che vanno dalla parola "romanzo" sulla copertina, a inizi come "c'era una volta". Ma spesso incomincia con un falso segnale di veridicità.
Ecco un esempio: "Il signor Lemuel Gulliver... tre anni fa, ormai stanco delle continue visite di curiosi alla sua casa di Redriff, comprò un piccolo appezzamento di terra nei pressi di Newark... Prima di lasciare Redriff, mi ha affidato questi fogli... Li ho letti con attenzione tre volte e devo dire che... la verità soffia su ogni pagina ed infatti l'autore stesso era talmente noto come persona veritiera, che era diventato proverbiale fra i suoi vicini di Redriff, i quali, per suffragare una loro affermazione, erano soliti aggiungere che era vera come se l'avesse detta Gulliver".
Nel frontespizio della prima edizione dei "Viaggi di Gulliver" non appare il nome di Jonathan Swift come autore di finzione ma quello di Gulliver come autobiografo veritiero. Forse i lettori non si fanno ingannare perché, dalla "Storia vera" di Luciano in avanti, le esagerate affermazioni di veridicità suonano come segnale di finzione, ma spesso in un romanzo si mescolano in modo così stretto fatti fantastici e riferimenti al mondo reale che molti lettori perdono la bussola.
Così accade che prendano sul serio i romanzi come se parlassero di cose realmente accadute e che attribuiscano all'autore le opinioni dei personaggi. E vi assicuro, come autore di romanzi, che al di là, diciamo, delle 10 mila copie, si passa dal pubblico abituato alla finzione narrativa al pubblico selvaggio per cui il romanzo viene letto come sequenza di affermazioni vere, così come al teatro dei pupi gli spettatori insultavano il fellone Gano di Maganza.
Mi ricordo che nel mio romanzo "Il pendolo di Foucault" il personaggio Diotallevi, per burlarsi dell'amico Belbo che usa ossessivamente il computer, gli dice a pagina 45 "la Macchina esiste, certo, ma non è stata prodotta nella tua valle del silicone". Un collega che insegna materie scientifiche mi aveva sarcasticamente osservato che la Silicon Valley si traduce Valle del Silicio.
Gli avevo detto che sapevo benissimo che i computer si fanno col silicio (in inglese "silicon"), tanto è vero che se fosse andato a vedere la pagina 275 avrebbe letto che, quando il signor Garamond dice a Belbo di mettere nella "Storia dei metalli" anche il computer perché fatto col silicio, Belbo gli risponde: "Ma il silicio non è un metallo, è un metalloide". E gli ho detto che a pagina 45 anzitutto non parlavo io bensì Diotallevi, che aveva pur diritto di non sapere né le scienze né l'inglese, ma che in secondo luogo era chiaro che Diotallevi si stava burlando delle cattive traduzioni dall'inglese, come chi parlasse di un "hot dog" come di un cane caldo. Il mio collega (che diffidava degli umanisti) ha sorriso con scetticismo, ritenendo che la mia spiegazione fosse un povero rappezzo.
Ecco il caso di un lettore che, sebbene istruito, anzitutto non sapeva leggere un romanzo come un tutto, collegando le sue varie parti, in secondo luogo era impermeabile all'ironia, e infine non distingueva tra opinioni dell'autore e opinione dei personaggi. A un non-umanista del genere il concetto di "fare finta" era ignoto.
«L'Espresso» dell'8 luglio 2011

Credulità e identificazione

Ci sono lettori che non sanno distinguere tra finzione e realtà: prendono sul serio la storia, non cercano di trarne insegnamenti e non si identificano nei personaggi. E sono più di quanti pensiamo
di Umberto Eco
Ricordavo nella precedente "bustina di minerva" che moltissimi lettori provano difficoltà a distinguere, in un romanzo, la realtà dalla finzione, e tendono ad attribuire all'autore passioni o pensieri dei suoi personaggi. A conferma, trovo ora in Internet un sito che registra pensieri di vari autori, e tra le "frasi di Umberto Eco" trovo questa: "L'italiano è infido, bugiardo, vile, traditore, si trova più a suo agio col pugnale che con la spada, meglio col veleno che col farmaco, viscido nella trattativa, coerente solo nel cambiar bandiera a ogni vento". Non è che non ci sia qualcosa di vero, ma si tratta di un luogo comune secolare messo in giro da autori stranieri, e nel mio romanzo "Il cimitero di Praga" questa frase la scrive un signore che nelle pagine precedenti ha manifestato pulsioni razziste a 360 gradi usando i cliché più frusti. Cercherò di non mettere mai in scena personaggi banali, altrimenti un giorno mi verranno attribuiti filosofemi come "di mamma ce n'è una sola".
Ora leggo l'ultimo "Vetro soffiato" di Eugenio Scalfari, che riprende la mia Bustina precedente e solleva un nuovo problema. Scalfari consente al fatto che ci siano persone che scambiano la finzione narrativa per la realtà, ma ritiene (e ritiene giustamente che io ritenga) che la finzione narrativa può essere più vera del vero, ispirare identificazioni, percezione di fenomeni storici, creare nuovi modi di sentire, eccetera. E figuriamoci se non si può essere d'accordo con questa opinione.
Non solo, la finzione narrativa consente anche esiti estetici: un lettore può benissimo sapere che madame Bovary non è mai esistita e tuttavia godere del modo con cui Flaubert costruisce il suo personaggio. Ma ecco che proprio la dimensione estetica ci riporta per opposto alla dimensione "aletica" (che cioè ha a che fare con quella nozione di verità condivisa dai logici, dagli scienziati o dai giudici che in tribunale debbono decidere se un testimone ha detto o meno come sono andate le cose). Sono due dimensioni diverse, guai se un giudice si commuovesse perché un colpevole racconta esteticamente bene le sue bugie; e io mi stavo occupando della dimensione aletica, tanto è vero che la mia riflessione era nata all'interno di un discorso sul falso e la bugia. E' falso dire che una lozione di Vanna Marchi fa ricrescere i capelli? E' falso. E' falso dire che don Abbondio incontra due bravi? Dal punto di vista aletico sì, ma il narratore non vuole dirci che quanto racconta sia vero bensì finge che sia vero e chiede anche a noi di far finta. Ci chiede, come raccomandava Coleridge, di "sospendere l'incredulità".
Scalfari cita il "Werther" e noi sappiamo quanti giovani e giovinette romantici si siano uccisi identificandosi col protagonista. Forse credevano che la storia fosse vera? Non è necessario, così come noi sappiamo che Emma Bovary non è mai esistita eppure ci commoviamo sino alle lacrime sulla sua sorte. Si riconosce che una finzione è una finzione eppure ci s'immedesima a fondo nel personaggio.
E' che intuiamo che se madame Bovary non è mai esistita, sono esistite tante donne come lei, e un poco come lei siamo forse anche noi, e si ricava una lezione sulla vita in genere e su noi stessi. I greci antichi credevano che le cose accadute a Edipo fossero vere e ne traevano occasione per riflettere sul fato. Freud sapeva benissimo che Edipo non era mai esistito, ma ne leggeva la vicenda come lezione profonda su come vadano le cose dell'inconscio.
Che cosa accade invece ai lettori di cui parlavo io, quelli che non sanno assolutamente distinguere tra finzione e realtà? La loro situazione non ha valenze estetiche, perché sono talmente preoccupati a prendere sul serio la storia che non si chiedono se sia raccontata bene o male; non cercano di trarne insegnamenti; non si identificano affatto nei personaggi. Semplicemente manifestano quello che definirei un deficit finzionale, sono incapaci di "sospendere la credulità". Siccome questi lettori sono più di quanti pensiamo, vale la pena di occuparsene proprio perché sappiamo che tutte le altre questioni estetiche e morali a loro sfuggono.
«L'Espresso» del 21 luglio 2011

Per liberarsi dalla cocaina Freud inventò la psicoanalisi

Fa discutere l’America il libro di uno storico della medicina sulle cattive abitudini giovanili dello scienziato dell’inconscio
di Paolo Mastrolilli
“Ho bisogno di un sacco di cocaina. Il tormento, la maggior parte delle volte, è superiore alle forze umane». Così scriveva il tossicodipendente Sigmund Freud nel 1895, cioè un anno prima di abbandonare la droga. Quella polverina bianca, però, potrebbe essere all’origine della psicoanalisi. La pensa in questo modo Howard Markel, professore di Storia della medicina alla University of Michigan, che col libro An Anatomy of Addiction sta attirando l’attenzione delle prime pagine degli inserti letterari americani.
La cattiva abitudine di Freud era nota, anche perché lui stesso ne aveva scritto nel saggio Über Coca. Poi però aveva passato il resto della vita a smentirla o sminuirla, liquidandola come una distrazione giovanile. È vero, come tanti giovani colleghi dell’epoca si era lasciato infatuare dalla sperimentazione di nuove sostanze, e l’aveva praticata su se stesso. Aveva esaltato le doti della cocaina nella cura di piccoli episodi di ansia e depressione, e aveva finito col raccomandarla anche come terapia contro la dipendenza da altre sostanze stupefacenti. A un certo punto, però, era ritornato in sé. Si era reso conto di quanto la droga danneggiasse la chiarezza del pensiero e si era dedicato alla missione della propria vita: creare la psicoanalisi.
Markel beve questa pozione fino a un certo punto. Riconosce che Freud riuscì davvero a interrompere l’uso, o l’abuso, della cocaina nel 1896. Tutto il resto, però, è da rivedere.
Come prima cosa, Markel fa risalire la dipendenza alla gioventù del medico viennese: già a 28 anni aveva parlato del suo interesse per la coca in una lettera spedita alla fidanzata Martha Bernays, e meno di un mese dopo le aveva annunciato che aveva cominciato esperimenti su se stesso. Poco alla volta l’uso scientifico era diventato un’abitudine ludica, al punto che Sigmund confidava di mettere sotto la lingua piccoli quantitativi di droga prima di andare alle cene dei colleghi, «per sciogliere la mia lingua».
Anche gli esperimenti professionali erano andati parecchio oltre il limite. Freud aveva intuito l’efficacia della coca come anestetico, senza arrivare a rivendicarne la paternità. L’aveva comunque usata come cura per la dipendenza dalla morfina del suo amico Ernst von Fleischl-Marxow, con risultati devastanti: Ernst non aveva rinunciato alla droga e poco dopo era morto. Aveva appoggiato anche gli esperimenti di un altro collega, Wilhelm Fliess, che operava i pazienti al naso per risolvere certe neurosi, aiutandosi con la cocaina. Di questa fesseria fece le spese Emma Eckstein, una giovane che rischiò la vita.
Nonostante questi errori, Markel è convinto che la coca finì con lo svolgere un ruolo molto più importante di quanto riconosciuto nella nascita della psicanalisi. Per due motivi. Il primo è che questi esperimenti anticiparono il metodo usato poi dal medico viennese nella sua disciplina, mettendo se stesso al centro dell’osservazione. Il «personaggio» Freud compare per la prima volta negli scritti sugli effetti della cocaina, aprendo la strada a quello che poi sarebbe seguito. Il secondo motivo è che il bisogno di liberarsi dalla dipendenza potrebbe aver spinto Sigmund a adottare la rigida routine che impose a se stesso proprio intorno al 1896, alzandosi sempre prima delle 7 del mattino e lavorando tutta la giornata, tra le molte visite con i pazienti, la scrittura e i convegni.
Dunque non sarebbe stata la passione per lo studio della psicoanalisi a fargli abbandonare la cocaina, ma piuttosto la necessità di liberarsi dalla dipendenza lo avrebbe spinto ai ritmi di impegno che si sarebbero rivelati fondamentali per raggiungere i suoi risultati professionali.
Markel sostiene tutto questo confrontando la vita di Freud con quella di William Halsted, forse il più grande chirurgo della storia americana. Anche lui aveva cominciato a sperimentare le droghe per ragioni professionali, come possibili anestetici, ma poi era finito a ruota con la coca e la morfina. Aveva completamente cambiato carattere, si era chiuso in se stesso, e quando esagerava spariva dalla circolazione. Però aveva continuato a esercitare la professione con grande successo, con tecniche più meticolose di quelle adottate prima della dipendenza.
Era un’epoca diversa dagli anni Sessanta, quando Timothy Leary sperimentava l’acido Lsd tra gli studenti di Harvard per motivi intellettuali. Questi giovani medici cercavano nuove strade per curare i pazienti, e capitava che certe volte imboccassero quelle sbagliate. Markel però non li assolve, qualunque siano stati i risultati, perché il suo libro resta l’anatomia di una «addiction».

«Il Giornale» del 24 luglio 2011

Sciopero contro il calcio

di Massimo Gramellini
E se invece dei calciatori scioperassimo noi? Se decidessimo di colpo e tutti insieme di diventare adulti, smettendo di delegare il nostro umore a bande di mercenari con procuratori al seguito? Per me è più facile, ho la squadra del cuore in serie B. Ma è come smettere di fumare: con un po’ di sforzo possono farcela tutti. Il baraccone del calcio si regge su un incantesimo collettivo. Per rivivere le emozioni pure dell’infanzia, il tifoso finge di credere che quei ragazzotti con l’amata divisa indosso siano i suoi avatar. Trasferisce le sue rabbie e le sue speranze a giocatori che non le condividono: perché ignorano la storia del club e perché comunque non gliene importa niente. Sono lì per guadagnare. E per vincere. Ma vincere per se stessi e i propri compagni. Mica per noi. Credetemi, li ho conosciuti da vicino quando facevo il giornalista sportivo: nelle interviste ci incensano, ma in cuor loro ci considerano dei pirla. E hanno ragione.
I calciatori sono una casta che ci sfrutta, esattamente come quell’altra. Il parallelo è impressionante: anche in politica deleghiamo a professionisti prezzolati la realizzazione dei nostri desideri, imprestando loro ansie di cambiamento che essi fingono di sottoscrivere nei comizi, per poi irriderle e svilirle nel chiuso degli spogliatoi (pardon, delle aule parlamentari). Mentre noi con la bava alla bocca ci dividiamo fra destra e sinistra, Inter e Milan, i nostri avatar vanno a cena insieme, badando ai loro interessi comuni. Il rimedio? Una cura choc: stadi vuoti, urne vuote. E’ ora di ritirare le deleghe e di diventare tifosi di noi stessi.
«La Stampa» del 25 agosto 2011

Il socialismo reale? Risultato tragico di un’idea pessima

La teoria era colpevole quanto la pratica Anche se gli storici stentano ad ammetterlo
di Giampietro Berti
La storia del comunismo ha segnato in modo indelebile il XX secolo, fondendosi con il suo svolgimento generale. Tuttavia le sue vicende costituiscono anche un universo a parte, che può essere studiato qualora si parta dalla premessa che non esiste alcuna discontinuità effettiva fra i suoi presupposti dottrinari e i suoi sviluppi reali. La capacità di leggere la continuità fra la teoria e i suoi esiti pratici rappresenta il vero banco di prova della comprensione autentica del comunismo. Ed è su questo arduo terreno interpretativo, volto a una ricostruzione storiografica complessiva, che si cimenta ora uno dei massimi studiosi italiani ed europei della dottrina e della storia comunista, Vittorio Strada, in Lenin, Stalin, Putin. Studi su comunismo e postcomunismo (Rubbettino, pagg. 410, euro 20).
Strada ripercorre il cammino tragico che va dalla Rivoluzione d’Ottobre alla nascita della Russia odierna. La sua attenzione, però, non è rivolta alla storia generale dell’Unione Sovietica, ma alle due maggiori figure che l’hanno determinata: Lenin e Stalin. Esse vengono esaminate con lo scopo di capire in quale modo, attraverso la loro azione, il comunismo si è storicamente determinato. Segue lo studio del loro culto da parte del movimento comunista internazionale, poi lo sguardo si allarga ai rapporti tra il potere sovietico e il comunismo europeo e italiano. Lo studioso parla giustamente di stalinismo ed eurostalinismo, e a questo proposito inserisce anche pensatori e militanti come Lukács e Gramsci, dato che essi altro non sono stati che varianti particolari del totalitarismo rosso, come, del resto, lo è stato anche il maggior avversario di Stalin, Trotskij. Il passaggio dalla Russia sovietica alla Russia nazionale di Putin, rappresentato dal tentativo tutt’ora in corso di dar vita a una nuova identità politica e culturale, risente di tutto il passato, con la conseguenza che questa ricerca è gravata dal retaggio ideologico precedente. L’opera si conclude con una disamina sul carattere «teologico» del marxismo, dato che questo non è né vera scienza, né vera fede (acute pagine sono dedicate a Zdanov e alla bufala della «scienza proletaria»).
Lo studioso ci dimostra che Stalin rimanda a Lenin e Lenin rimanda a Marx, per cui, per converso, il marxismo spiega il leninismo, il leninismo spiega lo stalinismo. Non solo. La stessa destalinizzazione attuata da Chrušcëv fu posta in essere con metodi stalinisti, anche se ciò avvenne senza spargimenti di sangue. Con largo spargimento di sangue, invece, si verificò un altro momento stalinista del processo di destalinizzazione: la rivolta ungherese del 1956. Strada delinea un’interpretazione del comunismo che è l’esatto opposto del truffaldino paradigma della degenerazione storica messo in atto dai «furbetti del quartierino» della storiografia comunista, per i quali l’input originario avrebbe subito la metamorfosi deteriorante del Gulag. Stiamo alludendo, naturalmente, alla curiale, bizantinissima e incredibile teoria dello scarto fra teoria e pratica, escamotage ermeneutico utilizzato per decenni dalla cultura marxista, e più in generale di sinistra, che ha sempre espunto la spiegazione razionale del rapporto consequenziario tra mezzi e fini. Vien da chiedersi: se si pone in atto la dittatura - come è stato fatto ovunque dal comunismo - come sarà mai possibile ottenere la democrazia?
Sempre con il metodo di un’interpretazione complessiva della storia comunista, Strada documenta l’inconsistenza teorica del diverso trattamento che il «politicamente corretto» ha riservato ai totalitarismi del Novecento. Anche qui vien da domandarsi: per quale misterioso motivo quando si tratta di valutare il comunismo, ci troviamo di fronte alla distinzione tra comunismo e stalinismo, per cui si ha la triplice definizione-comparazione di fascismo, nazismo e stalinismo? Perché il fascismo e il nazismo vengono presi e giudicati «in blocco», mentre il comunismo viene distinto dalla sua esperienza dittatoriale? Perché si parla di socialismo ideale e di socialismo reale? È ovvio: si vuole dire che il comunismo è una cosa e lo stalinismo un’altra, che il comunismo è buono, mentre lo stalinismo è cattivo, onde giungere a un risultato speculativo in grado di spostare il giudizio di valore dalla natura del comunismo all’effettività espressa dal suo concreto operare.
Strada sembra far propria l’osservazione di Hegel, secondo cui il vero «è il divenire di se stesso»: il futuro è l’insieme continuo del presente. Ciò vale, naturalmente, anche per l’idea comunista e tutto ciò che da essa ne è seguito. Il che vuol dire, aggiungiamo noi, che il suo fallimento era già inscritto nel Dna della dottrina: il comunismo è, in sé, fallimentare (ricordiamo che in Russia, e in tutto l’Est europeo, la sua dissoluzione non è avvenuta per qualche azione esterna). Il comunismo è imploso, autodistruggendosi, per cause endogene.
«Il Giornale» del 29 agosto 2011

27 agosto 2011

Erri De Luca, Una specie di trincea

Brano tratto dal volume In alto a sinistra, Feltrinelli 2007
di Erri De Luca
Già pubblicato sulla rivista "Nuovi Argomenti" nel 1992
Quando trovai la fogna fui felice, ma non potei sorridere. Il rischio di troppi giorni mi aveva indurito i nervi. Con il piccone aprii una breccia sulla parte superiore del collettore che avevo raggiunto e respirai quel tanfo come un profumo di vittoria. Non ero impazzito, ero invece in salvo.
Da molti giorni era cominciato lo scavo. Partiva dalla villetta, attraversava un giardino e arrivava sulla strada, intralciandone metà. Là sotto, a una profondità che ignoravamo, avremmo trovato la fogna. Cominciammo in molti, poi, quando lo scavo divenne più profondo di un uomo in piedi, restammo solo in due. Era largo un metro, il minimo per rigirarsi, e nel punto in cui trovai la fogna fu profondo sei. Bisognava collegare un condotto dalla villetta al collettore.
Scavammo in due in quella fossa stretta per diversi giorni, ognuno dei quali era più buio del precedente. Mettevamo lo sterro in recipienti che issavano dall'alto con una carrucola. Entravamo all'alba, uscivamo, salvo la pausa di mezzogiorno, alle cinque. Anche chi non è del mestiere sa che una fossa del genere va rinforzata alle due pareti con travi verticali bloccate da puntelli a contrasto. Altrimenti è possibile che crolli. Il capomastro non volle provvedere. Perciò scavammo in due, faccia a faccia, sapendo in che diavolo di trappola eravamo finiti. Chi eravamo e perché accettavamo quel rischio?
Uno era un algerino di quarant'anni, uomo sobrio di poche parole. Era l'ultimo assunto in cantiere e non poteva rifiutarsi, lo sapeva: lo avrebbero messo alla porta. Che avesse bisogno di quel lavoro non occorre dirlo: era arrivato da poco a Parigi, parlava poche parole di francese, era il suo primo lavoro in terra di Francia. L'altro ero io, trentaduenne manovale italiano, assunto già da diversi mesi e mal tollerato dal capomastro francese. Al mattino ero tra i primi, ma anche a sera: ero il primo a staccare alle cinque. Non suonava una sirena, ognuno doveva regolarsi da sé e questo faceva in modo che nessun operaio smettesse in orario, temendo di mostrarsi poco attaccato al lavoro. Perciò ognuno di loro finiva per regalare del tempo non retribuito a un datore di lavoro esperto in vari trucchi del genere. Io staccavo alle cinque in punto e poi non volevo fare gli straordinari nei giorni non lavorativi. Questo andava di traverso alla comodità di disporre con elasticità della manodopera. Non ero elastico, anzi ero piuttosto rigido, indurito nei muscoli e nel sonno. Mi erano perciò volentieri assegnati i lavori più faticosi, i più sporchi. Ero l'unico di pelle bianca a farli.
All'ora di mensa tra brodaglie assortite con spezie violente si chiacchierava nel rozzo francese comune, poi ognuno tornava ai suoi pensieri in linguamadre. Mi chiamavano Italia, ma non mi sentivo membro di una nazione, non difendevo i colori di una maglia o di una pelle, nemmeno la mia. Accettavo il soprannome, l'Italia lavorava sodo e non toglieva il posto a nessuno, pérché nessuno voleva il suo posto. Avevo bisogno di quel lavoro, lo avevo trovato a stento dopo aver battuto per settimane la periferia di Parigi. Lo avevo ottenuto, volevo tenermelo, malgrado tutti i dannati capimastri. Se voleva un pretesto per sbattermi fuori non glielo avrei dato, sarei sceso in gola all'inferno, ma non mi sarei tirato indietro.
Ecco perché in quei giorni due uomini che non si conoscevano e nemmeno sapevano chiamarsi per nome, stettero faccia a faccia in una fossa rischiando la pelle in cerca di una fogna. Ogni metro di quel buco stringeva il cielo a una striscia larga quanto il cunicolo in cui stavamo. Ogni metro di quel buco poteva crollarci addosso e tenerci sotto il tempo utile a essere sepolti vivi.
Gli altri operai al mattino non ci dicevano più niente, tiravano via zitti al loro lavoro. A mezzogiorno qualcuno ci offriva da bere. Rifiutavo, mi era cresciuta in quei giorni una collera sorda contro tutti, una furia sottopelle che mi faceva sopportare le ore là sotto. Quanto durò? Nemmeno molto, una dozzina di giorni. Alla fine della prima settimana l'uomo che avevo di fronte cominciò a non poterne più. Nel buio rischiarato dalla lampada, là sotto era nero anche a mezzogiorno, c'erano quegli occhi scuri tondi, spalancati, la faccia che grondava, l'invocazione ormai automatica che riesco ancora a sentire se mi tappo le orecchie: "Trouvé? Tu l'as trouvé?" voce rauca di uomo che si sente perduto, fiato comune delle trincee di questo secolo. No, non l'ho trovata ancora, ma dev'essere vicina. Fatti sostituire, amico, il capo non ce l'ha con te, tu hai fatto la tua parte. Gli dicevo così, lui allora stava zitto, non parlava più. Aveva chiesto agli altri operai algerini, nessuno voleva scendere lì sotto. Allora gli dicevo che sarebbe crollata di notte quella fossa, mai di giorno che era bene asciutta, di notte invece, con l'umidità. Inventavo spiegazioni, un poco mi credeva, ero istruito. Non sarebbe crollata quella fossa, non aveva varcato il mare per finire sepolto con un napoletano, saremmo invece morti in mare, sui monti, ma non lì. Questo non glielo dicevo, non si deve parlare di morte coi piedi nella fossa. Cercavo di calmargli la paura, ma lo facevo per me perché avevo bisogno di lui, in due avremmo fatto prima. Se fosse scoppiato, se si fosse fatto licenziare avrei dovuto finirlo da solo quello scavo, ci avrei messo di più, avrei rischiato di più. Ma perché un uomo doveva patire in quel modo, perché al mondo un essere umano doveva guadagnarsi il pane per i suoi figli con una corda al collo? Per me era una questione di orgoglio inferocito, ma per lui quello era solo pane e doveva invece bagnarlo di quell'acqua nostra salata che al gusto così tanto somiglia alle lacrime. Allora pensai che non mi era di nessun aiuto, me la sarei cavata meglio da solo là sotto. Così durante l'ora di mensa andai dal capomastro che mi guardò bellicoso, pronto com'era a dirmi che quello era il lavoro e se non lo volevo fare quella era la porta. Glielo avevo già sentito dire ad altri. Davanti agli operai gli dissi che là sotto non ci si rigirava più,, che in due era impossibile continuare e che la fogna era ormai vicina. Gli chiesi di lasciarmi terminare il lavoro da solo. Mise gli occhi nel piatto e fece di sì con la testa.
Così dopo l'ora di mensa entrai da solo nella fossa. Per la prima volta in quei giorni fui calmo, senza quell'uomo là sotto mi sentii sollevato. Non lavoravo più solo di piccone, avevo anche da spalare. Ci avrei messo di più, m non avrei avuto addosso quegli occhi, quel fiato ("Trouvé? Tu l'as trouvé?") e tutta la materia umana che sotto l'infamia gronda di sudore e senza volerlo implora dall'ultimo sconosciuto la salvezza. Ma questo lo intendo adesso che per la prima volta ricordo quei giorni. Allora pensavo soltanto che non avevo. bisogno di lui, che non avevo bisogno di nessuno per trovare quella dannata fogna. Senza la sua pena mi sentivo leggero. Però quel collettore non lo trovavo. Passarono così altri giorni, il cielo dei mattini d'agosto in terra di Francia era splendente. Dal fondo del fosso sembrava un canale. Sudavo poco, faceva fresco là sotto. Qualcuno dall'orlo dello scavo si affacciava ogni tanto chiedendo: "a va?" Rispondevo invariabilmente: "C'est la villégiature". Se in alto sulla strada passava un camion veniva giù terra dai fianchi dello scavo. Era il suo modo di sudare, di tendere i muscoli per non crollare: grondava terra. Sta dalla mia parte, pensavo. A volte un lavoro anche duro non basta a tenere quieta la testa, perciò uno da solo per otto ore al giorno in un fosso finisce per avere un sacco di tempo per inventarsi frottole e favole. Pensavo, lo ammetto, che quel budello avesse un corpo e un'intenzione, per esempio quella affettuosa di non finirmi addosso.
Uno di quei giorni qualcuno per scherzo buttò néllo scavo una rozza croce, due pezzi di legno legati ad angolo retto da una corda. Cadde vicino al piccone. Mi arredano l'ambiente: provai l'impulso di risalire di corsa e dar la caccia a chi voleva giocare con me al becchino. Un morto che risorge croce in pugno e si mette a inseguire il corteo funebre: sicché sorrisi.
Quando affondai il piccone nella terra e il ferro rimbalzò contro la volta del collettore fognario con suono di rimbombo, fui felice. Ma non potei sorridere, i nervi mi legavano stretto i muscoli del viso come lo spago dell'arrosto al forno. Volevo gridare, neanche quello uscì. Con la pala liberai bene il passaggio e con un colpo secco di piccone sfondai la volta sulla quale finalmente poggiavo i piedi. Chissà se qualcuno è stato mai felice di odorare la merda. Io lo fui e anche gonfio di orgoglio feroce di avercela fatta, mischiando così a quell'odore naturale quello innaturale della spazzatura di sentimenti che avevo provato dentro di me in quei giorni. Merda su merda, lì sotto devo essermi sentito in quel momento in pace, anche se non riesco a ricordarlo. Ci dev'essere stato un pareggio tra me e quella fogna, alla prova di chi di noi due fosse più pieno. Non voglio dir male di me: quando si è in un vicolo stretto della propria vita, per cavarsela si bussa a risorse alle quali in quel momento non si chiede da dove provengano. Quei pensieri di orgoglio servivano a tenermi lì sotto senza chiedere scampo. Mi hanno reso un buon servizio, ma erano pensieri di merda. Fui felice di avercela fatta contro quel bestione di capomastro che non avrebbe pagato niente per la morte di un manovale sepolto sotto una galleria crollata.
Venni fuori prima del tempo quel giorno e ognuno mi chiese se l'avevo trovata, temendo che avessi deciso di mollare. Rispondevo portando al naso due dita per tapparlo. È finita la villeggiatura? Erano lieti che ce l'avessi fatta. Ognuno di loro sapeva di aver tollerato la morte possibile di uno di loro senza aver fatto niente per impedirlo. Ma fare qualcosa per me potevano solo rischiando il loro precario posto di lavoro oppure mettendosi al posto mio: non si può chiedere a nessuno di uscire dai ranghi e alzare la voce o la croce. Però gli uomini che apprezzano in un altro uno scatto che essi hanno dovuto reprimere, poi sono amici. Quel giorno alle cinque di sera gli operai staccarono tutti insieme. Alle cinque in punto nessuno era più sul posto di lavoro. Sorrido per simpatia adesso, allora ci badai appena.
Fu necessaria una settimana per l'allaccio. Gli operai specializzati pretesero che tutta la fossa venisse puntellata a regola d'arte. Il capomastro era fuori di sé per la perdita di tempo, mi additava loro per dimostrare che non c'erano rischi, s'azzardò perfino, affannato com'era, a chiedermi in loro presenza se veniva giù terra dalle pareti, sperando in una mia complicità. "Come grandine," fu il mio contributo.

Forse nella vita di ognuno capita un giorno in cui si è felici di odorare la merda. So di essermi comportato male contro la mia vita, di averla giocata per orgoglio, collera e chissà cos'altro sta nel cuore di uno. Anche se poi alla tavola delle molte lingue il mio posto venne tenuto in conto e molti mi invitavano a sedere accanto a loro, vorrei che nessuno più andasse con un piccone a bussare alla propria fossa sperando che non sia ancora pronta.
Postato il 27 agosto 2011

Erri De Luca, Il pannello

Brano tratto dal volume In alto a sinistra, Feltrinelli 2007
di Erri De Luca
Era stato staccato un pannello della cattedra per guardare le gambe della supplente. Eravamo una classe maschile, seconda liceo classico, sedicenni e diciassettenni del Sud, seduti d'inverno nei banchi con i cappotti addosso. La supplente era brava, anche bella e questo era un avvenimento. Aveva suscitato l'intero repertorio dell'ammirazione possibile in giovani acerbi: dal rossore al gesto sconcio. Portava gonne quasi corte per l'anno scolastico 1966-1967.
Si era accorta della manomissione solo dopo essersi seduta accavallando le gambe: aveva guardato la classe, la mira di molti occhi, era arrossita e poi fuggita via sbattendo la porta. Successe il putiferio. In quel severo istituto nessuno si era mai preso una simile licenza. Salì il preside, figura funesta che si mostrava solo in casi gravissimi. Nell'apnea totale dei presenti dichiarò che esigeva i colpevoli altrimenti avrebbe sospeso l'intera classe a scadenza indeterminata, compresi gli assenti di quel giorno. Significava in quei tempi perdere l'anno, le lezioni e i soldi di quanti si mantenevano agli studi superiori con sacrificio delle famiglie. Non esisteva il TAR, quel tribunale amministrativo cui oggi si sottopongono ricorsi per ristabilire diritti. Non c'erano diritti, le scuole superiori erano un privilegio. C'era la disciplina caporalesca degli insegnanti, legittima perché impersonale e a fin di bene. Il preside uscì, si ruppe quel gelido "attenti" che avevamo osservato. Non riuscimmo a sputare una parola.
Accadde una cosa impensabile: sottoposti all'alternativa di denunciare due nostri compagni o patire conseguenze gravi nello studio, quei ragazzi si zittirono a oltranza e nessuno riuscì a estorcere loro quei nomi. Nessuno parlò. Questo è il racconto del comportamento ostinato di un gruppo di studenti uniti solo dal fatto di essere iscritti alla sezione B, secondo anno di liceo, dell'Istituto Umberto I di Napoli nell'anno scolastico 19661967. Tranne una combriccola composta da ragazzi di agiata famiglia con residenza al centro, o un altro gruppo di ragazzi di pochi mezzi che si trovavano nel pomeriggio per studiare insieme, tranne qualche partita a pallone la domenica, niente univa quei ragazzi. Però è vero che niente ancora li divideva sanguinosamente, come sarebbe accaduto in pochi anni. Non ho più visto i compagni di quella classe, non fummo amici né soci, solo membri di un'età costretta a essere seme delle successive, inverno delle altre. Di colpo quei ragazzi spaventati si irrigidirono in un silenzio impenetrabile.
Quando il preside uscì non avevamo più freddo. Cominciava la tensione di un assedio ancora senza parole tra noi. Parlò il solo che si era opposto, quel mattino prima dell'inizio delle lezioni, allo svitamento del pannello. Era il più ligio di noi e spesso veniva preso in giro per quel suo impulso all'ordine. Quel mattino era stato zittito, ora recriminava perché aveva ragione e perché quel provvedimento contro tutta la classe era un'ingiustizia ai suoi occhi. Molti non erano ancora saliti in aula quando il pannello era stato tolto. Protestava accorato con voce che sbandava tra l'acuto e il grave come succede agli adolescenti. Stavolta non faceva ridere. Non so dire perché non si rivolse mai ai due colpevoli, non li additò alla classe che ancora ne ignorava i nomi, invece se la prendeva con noi, quei pochi presenti che non l'avevano aiutato a impedire quel gesto. Si sentì solo la sua voce in quell'intervallo. Ognuno cercava di rendersi conto delle conseguenze. Qualcuno aveva la famiglia povera che non gli avrebbe permesso di ripetere l'anno. Tutti temevamo la reazione che l'episodio indifendibile avrebbe prodotto in casa. C'era chi sarebbe stato promosso a occhi chiusi e che vedeva sfumare il diritto alla borsa di studio, chi aveva già fatto spendere soldi per le lezioni private. Ognuno aveva un grado nel pericolo. Eppure nessuno denunciò gli autori dello svitamento, neppure sotto la nobile causa di salvare gli altri. Nessuno chiese ai due compagni di denunciarsi. Questi si rimisero alla decisione della classe e la classe li coprì. Avrebbero altrimenti patito punizione esemplare, sarebbero stati espulsi da tutte le scuole. Questo sembra incredibile a chi conosce quello che è successo nelle aule d'Italia solo pochi anni dopo, eppure le cose stavano così: la scuola italiana un quarto d'ora prima di essere sovvertita dagli studenti era saldamente in mano alla gerarchia docente.
Eravamo ancora zitti quando entrò il professore dell'ora successiva. Squadrandoci fieramente pretese di conoscere immediatamente i nomi dei colpevoli. Alzò la voce. Diede agli sconosciuti il titolo di vigliacchi e a noi che li coprivamo attribuì colpa ancora più grave, degna del più severo provvedimento. Richiese i nomi un'altra volta. Dopo il secondo silenzio applicò la rappresaglia: interrogò alcuni di noi che nella sua materia tentennavano, li confuse con domande difficili e atteggiamento sprezzante, li congedò annunciando, cosa mai prima accaduta, il pessimo voto riportato. Quella palese ingiustizia fece del bene a tutti. Era iniziato un assedio, ne andava della vita scolastica di ognuno, che era tutta la nostra vita pubblica di cittadini.
Sotto il duro ricatto di denunciare dei compagni o incorrere in provvedimenti disciplinari spuntò d'improvviso uno spirito di corpo. Ragazzi che avevano in comune la frequentazione di un'aula per alcune ore al giorno diventarono un organismo disposto a cadere tutto intero pur di non consegnare due suoi membri. Passò nelle fibre di uno scucito gruppo di coetanei una di quelle scariche elettriche che su scala più grande trasformano varie genti in un popolo, molte prudenze in un coraggio. C'è una soglia segreta di pazienza passata la quale ci si oppone di colpo alla disciplina quotidiana. Occasione è spesso un motivo all'apparenza insignificante. Anni dopo, partecipando a lotte operaie, avrei appreso con stupore che la lunga catena di scioperi spontanei e di aperte rivolte di fabbrica cominciarono alla FIAT, nel 1969, con richieste semplici come nuove tute da lavoro o la distribuzione di latte nelle lavorazioni tossiche. Piccole occasioni di rottura della pazienza quotidiana contengono grandi scosse: di colpo le strade si riempiono di scontento che sembra nato di pioggia come un fungo.
Non fu una rivolta, non chiedevamo niente, ma uno scatto di reazione contro chi voleva perquisirci dentro.
Fuori di scuola quel giorno si discusse. In mezzo all'assembramento notammo la strana presenza dei bidelli. Qualcuno di noi chiedeva almeno di sapere a chi doveva il rischio di rinunciare all'anno scolastico. Lì fuori venne zittito. Alla fine questa curiosità per vie traverse venne esaudita al nostro interno, ma in quel primo scambio di battute prevalse una spontanea disciplina. Il più ligio di noi trasferì il suo impulso all'ordine a servizio di quel silenzio. Qualcosa tra lui e la gerarchia scolastica si era guastato per sempre.
Quel giorno nelle nostre case si ripropose intero l'assedio. L'atmosfera fu inquisitoria come e più che a scuola. L'unico scampo: rifugiarsi nell'impossibilità di fare nomi di compagni senza esserne certi. Nessun retroterra familiare si mostrò comprensivo nei confronti della colpa, nessuno sostenne almeno un poco i diritti al silenzio di fronte al ricatto. Nessuno: tempi tutti d'un pezzo, non era solo a scuola il campo del dovere, esso si estendeva a tutta la piccola vita privata. Da adulto ho visto le famiglie difendere figli colpevoli di stupro e di linciaggio, un tempo invece stavano dalla parte dell'accusa. Se un ragazzo non si trova di colpo solo al mondo, mai cresce. Forse era difficile essere giovani in quei tempi anche se, per misericordia, non lo sapevamo. Molte più cose di oggi, in quegli anni erano considerate importanti, molto del futuro di ognuno si decideva sui banchi di quelle scuole.
Nei giorni successivi si ripeté in classe la richiesta di denunciare i colpevoli, fino al limite dell'ultimatum. Arrivarono al preside anche diverse lettere anonime coi nomi dei presunti responsabili, ma discordanti tra loro. La faccenda però non era più ferma ai colpevoli, si voleva rompere quell'inaudita ostinazione. Ma non ci fu verso di farci denunciare quei compagni. Penso che ci sentissimo tutti colpevoli, quelle gambe avevano emozionato ognuno. Fu perciò un po' di immedesimazione verso quel gesto, anche se ce ne vergognavamo. La giusta linea di condotta proveniva da alcuni di noi che avevano già qualche relazione amorosa e trasmettevano agli altri un senso di superiorità da adulti nei confronti di quel gesto da guardoni nel buco della serratura. Ci piaceva credere di essere superiori agli scopi di quel sabotaggio, anche se non era così. Ma questo non contava più, stavamo andando dritti verso le conseguenze inevitabili. Ci eravamo irrigiditi dentro, pur mostrando all'esterno la costernazione dei malcapitati. Sotto quell'assedio eravamo diventati soldatini, imparando a difenderci tutti allo stesso modo.
C'era già in quegli anni una specie minore di solidarietà tra studenti che stava nel non farsi avanti a dare al professore una risposta che un altro non era stato in grado di fornire. Nessuno chiedeva di rispondere al posto del compagno. Forse era un comportamento legato al pudore di mostrami saputelli ed è troppo pretendere che fosse solidarietà. Questa era voce che si applicava a grandi cause come quelle dei terremotati, degli affamati e degli alluvionati. Però quel trattenersi dal dare la risposta era una pratica che insegnava a non mortificare il proprio compagno, a rivolgergli perciò un'attenzione non solo scolastica. Ovunque simili usanze sono sparite.
Prima dell'ora di scadenza dell'ultimatum entrò a fare la sua lezione il professore di greco e latino. Erano già passati alcuni giorni e non ci aveva detto una parola sulla faccenda, tranne al suo primo ingresso in aula dopo il putiferio. Era entrato, si era seduto, ma invece di aprire il registro ci aveva guardati tutti quanti a lungo, poi aveva giunto le enormi mani in preghiera e le aveva agitate in avanti e indietro, secondo quel gesticolare che sta per: "Cosa diavolo avete combinato?» Era un gesto semplice, temperato di sollecitudine, con un piccolo accento buffo mischiato al rimprovero muto. L'accogliemmo con gratitudine. Subito dopo diede inizio alla sua lezione. Bisogna ora che io nomini quest'uomo: Giovanni La Magna. Siciliana, completo conoscitore della lingua greca della quale aveva redatto una grammatica e un vocabolario, mostrava un corpo massiccio, dal passo pesante. Il volto era aperto, cordiale e i tratti gli si spianavano quando con la sua grave voce di basso compitava i versi greci e latini facendo cadere l'accento sulle sillabe con suono incalzante di zoccolo di cavallo sul selciato. Ci innamorò di Grecia antica perché ne era innamorato. Gli piaceva insegnare: questo verbo per lui si realizzava nell'accendere nei ragazzi la voglia di conoscere che sta in ognuno di loro e che aspetta a volte solo un invito sapiente. Era alla fine della sua carriera, mostrava anche più dei suoi sessanta. Aveva il gusto sicuro della battuta folgorante che detta dal suo faccione imperturbabile faceva esplodere la classe in una risata improvvisa, come un colpo di frusta. Non ne ha mai ripetuta una due volte, non le pescava da un repertorio, le inventava. Credo che nessuno abbia saputo raccontare i dialoghi tra Socrate e i suoi discepoli meglio di lui. Nemmeno Platone, che li scrisse, poteva essere così bravo.
Incitava a essere leali con lui: non teneva conto di una insufficiente preparazione se lo studente gliela dichiarava spontaneamente prima della lezione. A chi si avvicinava alla cattedra per bisbigliare le sue giustificazioni, prestava a volte ascolto con gesto scherzoso, appoggiando la mano all'orecchio e strabuzzando gli occhi per manifestare il suo stupore. Lo amavamo: di quel cupo Olimpo di numi da cattedra era il nostro buon Zeus. Quel giorno dell'ultimatum entrò nell'aula e togliendosi il cappotto annunciò che non avremmo parlato né di greco né di latino. Si sedette, accantonò il registro e ci parlò. Confido di non tradire il suo tono di voce e i suoi argomenti provando a ripeterli con le parole che ricordo: "Voi sapete che sono siciliano. Nella mia terra c'è un costume che vieta di denunciare i colpevoli di reati: si chiama omertà. Voglio parlarvene per stabilire i punti di contatto e quelli di differenza tra questo costume e lo spirito di solidarietà. L'omertà nasce dal bisogno di difendersi da un regime sociale di soprusi in cui la giustizia è applicata con parzialità e favoritismi, ma contrappone malauguratamente a questo un altro regime di soprusi: la mafia. L'omertà è un comportamento radicato in tutta la popolazione quando considera l'intero apparato statale un grande sbirro. La mafia che è nata da questa silenziosa protezione popolare, l'ha trasformata in legge di sangue sicché oggi l'omertà è frutto principale della paura. Essa non distingue tra chi si ribella a un sopruso e chi agisce da criminale, copre tutti, il povero cristo e il malfattore. L'omertà è diventata cieca ed è al servizio di un'altra prepotenza.
"Lo spirito di solidarietà è invece un sentimento che onora l'uomo. Non è una legge, come l'omertà, sorge di rado. Spunta di colpo tra persone che si trovano in difficoltà, comporta il sacrificio personale, non si nasconde dietro il mucchio formato da tutti gli altri. Nel vostro caso la solidarietà può essere quella di tutti per proteggere due, ma potrebbe anche essere quella di due che si fanno avanti per proteggere tutti gli altri. La solidarietà è opera preziosa di un'occasione, appena compiuto il suo dovere rompe le righe, lasciando in ognuno la coscienza tranquilla. Se siete d'accordo con me su queste differenze, allora potrete meglio conoscere quello che vi succede in questi giorni. Io non credo che gli svitatori di pannelli della seconda B abbiano intimorito tutti gli altri inducendoli a tacere. Credo invece che sia sorto tra voi in questi giorni uno spirito di squadra contro un provvedimento che ritenete ingiusto.
Pensate forse di stare subendo un sopruso: il ricatto di denunciare i vostri compagni oppure essere sospesi a tempo indeterminato. Ma non è stato un sopruso far arrossire di vergogna una donna che è entrata in quest'aula per insegnare e che, per poter accedere al privilegio di mostrare a voi le sue gambe, ha studiato per anni ed è appena giunta all'occasione che ha tanto aspettato? Un sopruso, una prepotenza di molti contro una donna, questo è accaduto qui dentro. Non siete. innocenti, nessuno qui è innocente. Il torto è spesso meglio distribuito di quanto ci piace credere.
"Io faccio parte di questo regime scolastico contro il quale avete fatto muro. Anzi sono il più vecchio insegnante di questa scuola. Noi siamo insegnanti, voi studenti, siamo per questo più forti di voi, possiamo bocciarvi, sospendervi tutti, compromettere i piani scolastici forse irrimediabilmente per alcuni di voi. Ma vogliamo farlo? Credete che vogliamo rovinarvi? Noi che siamo i più forti ci stiamo in verità difendendo da voi. Ritenete vostra facoltà levare un pannello di cattedra per vedere le gambe di un'insegnante? Presto riterrete vostra facoltà abbassarle la gonna per ammirarle intere. Perché non l'avete fatto con me? Perché sono un uomo o perché non sono un supplente? Noi ci stiamo difendendo da voi, voi da noi: così le aule diventeranno campi di battaglia, vincerà il più forte, ma la scuola sarà finita. È con profonda tristezza che vedo questo accadere. È contro tutto quello che ho fatto nei miei molti anni di insegnamento. Mi accorgo di non avere più un posto in un'aula ridotta a schieramento, di non poter fare più niente per voi. Mi state licenziando voi, i miei colleghi, tutti. Questo spirito di ostilità che scorgo in loro e in voi mi avvisa di tempi in cui non avrò parte.
"Non approvo un provvedimento così drastico nei vostri confronti, non lo farò applicare per quello che potrò, ma non so approvare nemmeno la vostra caparbietà. Ce l'ho con tutti voi: il vostro spirito di corpo è la cosa più preoccupante alla quale assisto da quando vivo nella scuola. Il vostro serrare i ranghi è il gesto più duro da intendere per uno come me che pensava di stare in una classe e si ritrova a visitare una barricata. Non credo che il vostro silenzio sia omertà, che stiate diventando una mafia. Però so che questo guaio può scaturire da ogni ostilità di parte. Se c'è ancora una lezione che posso permettermi di darvi è quella di insegnarvi a distinguere nella vostra vita l'omertà e la solidarietà. Siate pure oggi leali tra voi fino a sopportare il sacrificio di un duro provvedimento disciplinare, ma non imparate domani a proteggere l'ingiusto, il prepoténte, il vendicatore. Prima che siate sospesi in blocco dalle lezioni, propongo a voi di fare le più sentite e solenni scuse all'insegnante che avete offeso. Fate questo senza aspettarvi niente in cambio, fatelo solo perché è giusto. Fatelo prima che il vostro silenzio si indurisca troppo contro di noi, si avveleni di avversione, distrugga il mio lavoro con voi e la vostra possibilità di trarre profitto dalle ore trascorse insieme in queste aule".
Mi perdoni, lì dove riposa, l'uomo al quale attribuisco queste parole e del quale provo a ricordare una lezione. Essa fu certamente più intensa ed efficace di quella che posso ricostruire. La sorreggeva una voce che rimaneva paterna anche nel tratto amaro, grave senza severità. Era voce di uomo che si spogliava della dignità della cattedra per parlare da pari ad altri pari. A una classe di sedicenni pieni di brufoli e di barbe ancora a chiazze sul viso, si rivolse come a un'assemblea, svolgendo un ordine del giorno. Ci sentimmo spaesati, ma più grandi, senza parole, certo, ma finalmente spogli del bisogno di difenderci. Quell'uomo ci trattò da uomini. Nessuno di noi lo era ancora, ma tutto dentro di noi in quei giorni spingeva a diventarlo. Ci fece provare la responsabilità di persone che intendono l'ora e il luogo in cui sono. Disfece con i suoi modi leali il rozzo campo di battaglia nel quale ci sentivamo rinchiusi. Non ci additò una scappatoia, sgomberò semplicemente l'assedio mostrando il male di quell'ostilità, addossandosene una parte. Accese in noi il desiderio di rispondere, come già altre volte aveva incitato il nostro desiderio di apprendere. Uno di noi si alzò, il più mite, e uno tra i più diligenti, disse a nome di tutti che le nostre scuse erano il passo minimo che ci sentivamo di fare e che l'avremmo già fatto se solo ne avessimo avuto la possibilità. Nessuno disse cosa contraria o diversa.
Le scuse vennero accettate. Le lezioni ripresero con la palese disapprovazione di alcuni insegnanti insoddisfatti della riparazione e contrari a quella composizione "a tarallucci e vino". Il partito della fermezza contava i suoi effettivi in vista delle future prove. Noialtri ci considerammo scampati, rompemmo subito le righe piegando ancora di più il collo sui libri. Ancora per poco l'atteggiamento prevalente dei professori fu di rappresaglia, poi lo spirito dell'insegnamento prevalse e ritornò in vigore la bilancia dei meriti e dei profitti. Quell'anno fummo promossi in molti, compresi i due svitatori. Solo allora quella pagina di calendario fu per noi voltata del tutto.
L'anno seguente, stagione scolastica 1967-1968, avremmo affrontato la maturità. Prima di quell'appuntamento il professore Giovanni La Magna mancò a una lezione per la prima volta in tre anni. Si era rotto il cuore del nostro buon Zeus, fermate le mani enormi che ci avevano aperto le vie della Grecia classica, zittita la voce che aveva calcato per noi i versi più soavi della terra. Salimmo alla sua casa sulla collina del Vomero come un gregge disperso. Era disteso eppure sembrava ritto in piedi, manteneva anche così tutta la forza della sua presenza. Aveva le grandi mani intrecciate in grembo, gli occhi molto chiusi. Per la prima volta un ragazzo tra i tanti ebbe misura dello spreco insensato contenuto nella morte di un uomo. Tutta quella Grecia svisceratamente amata da un siciliano, tutta quella sapienza si perdeva, a nessuno poteva più trasmettersi. Ne trattenevamo frammenti lucenti da un vaso in frantumi, noi suoi allievi. Ma se tutti gli studenti che aveva avuto, avessero potuto mettere insieme i loro pezzetti, non avrebbero ricomposto l'interezza da lui posseduta. Le lacrime che ad alcuni di noi vennero agli occhi se le era guadagnate con quello che gronda dal cuore.
Morì in quei primi mesi dell'anno di subbuglio 1968, senza vedere le aule abbandonate sotto i colpi di una guerra che aveva intravisto e aveva scongiurato di evitare. La scuola finiva e non solo per i maturandi di quell'anno. Dopo di lui la Grecia tornò a essere la patria di una grammatica molto esigente. Ci sono uomini che morendo chiudono dietro di loro un mondo intero. A distanza di anni se ne accetta la perdita solo concedendo che in verità morirono in tempo.
Postato il 27 agosto 2011

Erri De Luca, In alto a sinistra

Brano tratto dal volume In alto a sinistra, Feltrinelli 2007

di Erri De Luca

Dormiva sotto il mio soppalco, non era neanche una stanza. Mi addormentavo al suono ovattato dei suoi lamenti, una nenia a bocca tappata per lasciarmi dormire. Qualche notte mi svegliava un soprassalto: si era un poco assopito e risvegliandosi sotto un morso più forte, non faceva in tempo a soffocare la voce. Allora scendevo con la scusa di andare al bagno e stavamo per un po' a giocare al buio.
Giocavamo a bridge a mente, descrivendo un diagramma con le cinquantadue carte. Me l'aveva insegnato lui, ero ancora ragazzo, e subito se ne pentì perché mi dedicai allo studio di quel gioco più che a ogni altra materia scolastica. Riuscivo bene nel campo astratto delle combinazioni di carte, le ricordavo tutte, immaginavo con sufficiente precisione i giochi degli avversari. Una volta vincemmo un torneo a coppie, noi due insieme, padre e figlio. A me sembrava normale, mi sentivo bravo a quel gioco, per lui fu invece una festa stringere in mano la bella moneta d'oro del premio. Un'altra occasione di minuscola gloria ci capitò in un torneo a squadre: incontrammo la rappresentativa nazionale della Polonia e riuscimmo a pareggiare. Questi erano i nostri minimi trofei che in quelle notti rinfrescavamo nel ricordo. Andavo presso il suo buio e senza accendere la luce cominciavo: "Allora tu hai in mano quattro carte di picche formate da..." e costruivo una giocata difficile da risolvere. Lentamente riusciva a concentrarsi al di sopra del dolore delle ossa, tentava la manovra di carte che permetteva di vincere anche contro la migliore difesa. In quelle notti davo fondo a tutta la mia scienza di accanito studioso del superfluo, montando diagrammi con i più remoti finali di gioco: il colpo del diavolo, la riduzione d'atout, le molteplici varianti delle compressioni semplici, doppie, triplici, di taglio, di criss-cross, la Barco, la Bonney, la Jettison. Ci negavamo la comodità di disporre le carte sul tappeto, così approfondivamo la concentrazione. Era splendido vedere che poteva migliorare nel bridge in quelle condizioni, eppure era così: riusciva a immaginare nitidamente le cinquantadue carte. Gli spiegavo lo svolgimento delle giocate e lui le ripeteva poi esattamente. Il dolore diventava un rumore di fondo, uno scricchiolio di travi nelle gallerie minerali del corpo mentre lui era risalito fuori, all'aperto, all'aria stellata delle carte astratte. Era l'unica cosa che avevamo in comune, la sola che mi avesse insegnato direttamente, come eredità. Tutto il resto l'avevo imparato dai suoi libri, comprati a fascine e che lui aveva letto tutti, tutti, fino all'ultima riga.
Una notte gli descrissi un diagramma. Prima che iniziassi a discuterlo aveva trovato la soluzione. Era una manovra del gioco di difesa. "Sai che hai trovato da solo il colpo di Merrimac?" Gli scappò una risata, uno scivolone che subito si contrasse in un singhiozzo. Cos'era mai. "E quello che hai fatto, il sacrificio di una carta alta che farebbe presa e che invece butti via per distruggere le comunicazioni tra i due avversari." Merrimac era il nome di una nave mercantile americana che si autoaffondò all'imbocco del porto di Santiago di Cuba per intrappolarci dentro la flotta spagnola, durante la guerra ispano-americana. Il successo di quel sacrificio dette nome a questo colpo di bridge. Gli piacque il nome, si sentiva un poco capitano in seconda di quel mercantile. In quei giorni lo colpì la paralisi dal tronco in giù. Andavamo in un sotterraneo, un corridoio di porte con nomi astronautici di apparecchiature mediche. Lo sorreggevo perché vacillava, afferrato alla schiena dal cancro alle ossa. I passi gli costavano trafitture, non poteva restare in piedi, doveva sdraiarsi. La prima volta in quel corridoio lo feci stendere sopra una barella in attesa di essere ricevuti per il cerchiaggio. È una marchiatura a vernice delle zone da irradiare con il laser. "Lei non può occupare questa barella." Spiegai alla persona in camice che mio padre non poteva stare in piedi. Insistette avvicinandosi a lui, allungando una mano per aiutarlo a scendere. Mi piazzai a quei pochi centimetri dalla sua faccia che precedono un bacio o una capocciata in bocca: "Non si alza da qui finché non saremo ricevuti". Non gli piacqui, se ne andò via. Dalla barella mi urtò con la mano, in segno di lasciar perdere. Gli impedii di alzarsi. Quando di rado gli proibivo fisicamente un gesto, lo ritraeva esitando, e a me restava lo sgomento di avergli reso più difficile la dignità.
Il dottore era ben collocato nel suo ufficio. Esaminò i dati, scrisse, telefonò, sorrise, poi ci indicò una sala. Spogliai lentamente il suo dorso, i panni dovevano scivolare delicatamente, le ossa bruciavano dentro quanto una pelle scorticata dal primo sole d'estate. Fu steso sopra una panca e gli disegnarono cerchietti lungo la spina dorsale. Su quei bersagli si sarebbe scaricata l'artiglieria invisibile del laser. Così fu per molte volte, molti giorni. Lo portavo piano dal letto di casa alla macchina, guidavo piano, scendevamo lentamente, eseguendo le nostre mosse secondo un rallentatore. Imparavamo quell'andatura, non come correre con un freno a mano tirato, ma come un nuovo modo indicativo necessario a tutti i nostri verbi. Quel tempo era l'adagio. Parlavamo anche così e lui soffriva i suoi dolori sottovoce, tappandosi la bocca quando erano pronti a impennarsi in un grido. Potevamo accorgerci che al di sotto di una minima velocità comune a tutti, si finiva fuori campo. Gli altri non facevano più caso a noi, scansandoci soltanto come ingombri fissi. Noi pure non badavamo più agli altri, considerandoli come un vento, un'aria mossa e un rumore di fondo. La necessità di fare piano portava con sé l'isolamento. Eravamo in due, eravamo un due, una cella mobile che si aggirava per strade e corridoi in cerca di qualche sollievo ai dolori. Eravamo stanati da quel bisogno fisso. Ogni tanto un gesto gentile otteneva da noi il risarcimento di un sorriso, altre volte un ringhio bastava a levarci di torno gli sgarbati. Ci intendevamo bene, a sorreggere il suo peso s'era stabilito un accordo di, scimmie, tocchi, smorfie, cenni. Formavamo in due un cavallo da tiro, un ronzino che zoccolava a ritmo i suoi quattro passi cadenzati.
Il turno del laser durava poco, era di più il tempo di spogliarsi e rivestirsi. Non riuscivo a credere che quel macchinario chiassoso come un tornio, potesse prendere bene la mira. Lui si adagiava col mio aiuto sulla panca e un infermiere aggiustava la posizione per il tiro. A me sembrava a casaccio. Non chiedevo, non facevo domande, non mi piaceva quel mondo efficiente solo a sbrigarsi, organizzato sulla parola d'ordine: "avanti un altro". Mio padre moriva, nelle sue ossa c'erano già metastasi, questo sapevo. Ogni curiosità era superflua e, per me, oscena. Una notte si alzò per andare al gabinetto e crollò a terra. Non aveva più controllo del corpo al di sotto del bacino. Era paralizzato, il laser l'aveva spezzato in due. Lo raccolsi da terra che piangeva di stupore. Nessuno ci aveva avvisato del rischio, nessuno spiegò che non poteva nemmeno pisciare. Così la vescica si gonfiava e lui chiedeva aiuto per pisciare e lo issavo in piedi e non usciva niente, però lui sentiva di doverla fare. Così lo portai all'ospedale del paese e lì capirono e gli applicarono subito il catetere e riempì a litri il serbatoio di plastica. Creatura mia ferita, sgarrettata, nemmeno la tortura dell'urina ho potuto risparmiarti, nessuno degli inamidati con cravatta sotto ci aveva avvisato. Poi mi arrivò il conto del laser, poi lo restituii stracciato in una busta. A noi restava il tempo del frattempo, un participio presente che aveva fretta di diventare passato. Resistevamo alla sua urgenza andando piano. Nel letto dal quale non poteva più alzarsi, si contrastavano lentezza e fuga.
Ci si affida a gente sapiente con camici splendenti di bucato dietro scrivanie ordinate. Fanno calcoli, prendono la mira, programmano e non sono buoni nemmeno a centrare la tazza quando vanno al bagno. Non mi ribello a loro, non impreco alla loro superbia, credo a un Dio delle pene che provvede a ripartirle. Mi fa male invece la speranza che sta negli occhi dei feriti, mi fa male la loro docilità. Non disse una maledizione. Metà del corpo era già perduta, l'altra metà picchiava alla schiena. "Lo senti?" mi diceva: "oggi mi ha dato calci più forti," oppure: "oggi mi fa scoppiare la vescica". Era "l'operaio", lo chiamavamo così quel male che faceva i suoi turni nella miniera del suo corpo. Anch'io ero operaio, il suo unico figlio che aveva rinnegato l'agio, il ceto, il tetto e ora, dopo molti anni, era di nuovo insieme a lui. La notte delle sue gambe perdute decisi che non lo avrei lasciato più. L'indomani mi licenziai dal cantiere. Per la prima volta da quand'ero partito ragazzo di casa, mi fermai, non lavorai. Non mi sarebbe costato più nulla stare sveglio la notte, a distribuire carte immaginarie.
Gli furono applicati dei tubi e non si alzò più. Gli era rimasto in mente il colpo di Merrimac. Era proprio quello che era capitato al suo corpo, trasformato in una smazzata di bridge, con una mano giocante e un'altra morta di fronte. La paralisi era stato il colpo di Merrimac, un taglio delle comunicazioni. Fiorivano le piaghe di decubito ma non poteva sentirle, solo un forte odore le denunciava. Allora ci accorgemmo che la pianta che avevo nel vaso cominciava a dar segni di crescita, riempiendosi di getti. In quelle settimane partì in altezza e in ingombro, al punto che volli spostarla, ma lui mi pregò di lasciarla. Era un bene, perché di notte ripuliva l'aria, assorbendo tutto l'odore delle ferite. Le bastava poca acqua.
"Presto riavrai la tua libertà." "Riavrò la libertà di tornare a far muri in cantiere, di aver la casa vuota e di trovarti in sogno." "Avrai la libertà di tornare ai libri, l'unica cosa che ti lascio, oltre al bridge. Riavrai i libri, l'unico posto dove l'esperienza che uno fa nel mondo, trova le parole d'accompagnamento."
Li aveva portati tutti da me quell'anno, quasi niente vestiti. Voleva bene ai libri, tutti. Gli piaceva la forma, l'ingegnoso sistema delle pagine sottili legate lungo la costola, capaci di contenere tanta materia narrata. "La morte è il Messia, ha scritto Isaac Singer. È proprio questo per me. In mancanza di fede l'aspetto con questa sola ansia: capire i libri. Ognuno capirà quelli che ha amato. Saprò quali avrei dovuto rileggere, quali ho mancato di conoscere. Mi aspetto dalla morte una biblioteca sterminata e anche la buona vista della gioventù".
Gli chiedevo se pensasse di ricevere anche quelli che sarebbero stati scritti dopo di noi. "I libri sono il sempre. Chi li scrive può credere di lasciarli ai contemporanei, ai posteri, ma mentre scrive tutto il passato è dietro le sue spalle a leggere. Se non c'è questo angelo del tempo trascorso, se non c'è il suo artiglio sul collo del poeta, le sue parole sono subito cenere. Se non si scrive per essere letti dagli antenati, non resta impresso niente sulla carta." "Babbo, ci vogliono troppi miracoli insieme per far succedere quello che speri. Sei esigente per essere un uomo senza fede." "Mi è bastata la fede degli altri. In alcune vite di quelle persone ho visto l'impronta digitale di Dio, così come resta nei libri sacri del loro credo. Sono un testimone secondario, non ho visto l'orso ma ho trovato le orme, un alveare saccheggiato, indizi insomma di un passaggio."
Le nostre chiacchiere nel buio non erano solo serie. Cercava di ricostruire la genealogia, raggruppando aneddoti di famiglia perché io potessi ricordarli. Non me ne sono mai incuriosito. "Perché non hai figli, nessuno a cui raccontare le storie. In tanta tua generazione poligama, tu solo sei rimasto fuori dai registri di nozze. È povero un uomo senza donna, perché smette di crescere." Diceva cose sagge, ma le diceva a una stanza vuota. Le sentivo a eco, come un rimbombo di malinconia, mi difendevo: "A una moglie avrei niente da offrire, troppo da chiedere". Non sempre finivamo un discorso, una frase: "l'operaio" lavorava di notte e di giorno e a volte mi diceva di andare in camera mia, perché doveva gridare e doveva tapparsi la bocca e stare per un poco a masticare il freno. Allora risalivo al soppalco e mi addormentavo un poco, cullato dalla cantilena del suo dolore. Potrei suonarla, metterla in musica, in filastrocca: non gridava nessuna vocale, solo consonanti lunghe, prolungate, che si impennavano in gola. Regolava il fiato dicendosi a bassa voce "sh, sh". Mai si lasciò andare allo sconforto di una vocale, a dare al grido la dignità di una sillaba.
La pianta della specie delle araucarie fioriva, gettava in ogni direzione le foglie lunghe verdi, cupe, lisce. In qualche notte di morfina lo sentivo parlare a quella pianta, ormai alta come una persona ai piedi del letto. Le raccontava i fatti, le storie di famiglia, nel buio. L'arbusto di notte vegliava e asciugava anche le parole. Un buon infermiere veniva di giorno a pulire le piaghe e aggiustare i vasi con cui si irrigavano le sue vene. Di giorno parlava di libri. "Conoscevano le mie pene, i bisogni, gli scontenti. In ognuno di loro c'era una frase, una lettera che era stata scritta solo per me. Sono stati la vita seconda, che insegna a correggere il passato, a dargli una presenza di spirito che allora non ebbe, a dargli un'altra possibilità. I libri insegnano ai ricordi, li fanno camminare. Li ho letti per intero, non ne ho lasciato nessuno a mezzo, per quanto fosse deludente o presuntuoso l'ho seguito fino all'ultima linea. Perché è stato bello per me girare la pagina letta e portare lo sguardo in alto a sinistra, dove la storia continuava. Ho girato il foglio sempre alla svelta per proseguire da quel primo rigo, in alto a sinistra. Questo mi mancherà del mondo, mi mancherà più di te, delle tue cure e delle notti di bridge con cui mi hai fatto uscire dal dolore delle ossa. I libri sono un carattere ereditario e credo di avertelo trasmesso. Non li ami come me, sei esigente, cerchi tra essi le pagine che restano incise nella memoria, infilzate come farfalle. Ma non dire che le altre, le dimenticate, sono da non leggere. Molto è portato via dal caso, quello che resta è appunto solo questo, un resto che non dimostra e non sostituisce niente di quello che si è perduto. Ami le pagine assolute, le necessarie, al riparo dai gusti. Ma i libri siamo noi, gente che si ammala, si sfilaccia, ingiallisce e viene dimenticata. Sono a immagine della nostra vita. Ama un poco anche i libri del tuo tempo, ama un poco i tuoi anni che sono quelli che passano e non quelli che ti restano."
"Non ci riesco. Mi irrita nei contemporanei quello che apprezzo negli antichi, la leggerezza che fa da spinta al leggere. Ho un quaderno su cui ricopio le frasi che mi hanno fatto scattare, che mi hanno fatto voltare indietro e forzare le cose risapute da una diversa breccia. Le pagine che cerco hanno questo effetto: un paio di occhiali giusti sul naso di un bambino che fino a quel momento non aveva mai saputo di essere miope. Allora si accorge degli occhi del suo cane, dell'artiglio del gatto, della gola tesa del gallo che grida. Di frase in frase il quaderno cresce e contiene non í libri, ma la felicità incontrata. Così divento contemporaneo delle pagine amate e non dei miei anni."
"Lo credi ma non è così. Si può stare solo nel tempo assegnato e la tua antologia deve aiutare ad abitarlo. Ho conosciuto persone che volevano essere contemporanee del Messia. Erano uomini di fede, laboriosi, non a braccia piegate in attesa. Amavano il loro tempo in forza di questa speranza, scrutando i segni di un avvento, osservando regole difficili con la convinzione di affrettarlo. Posso dire che li vedevo in transito nel loro tempo, che avevano i bagagli pronti come chi stia in esilio e aspetti da un momento all'altro di tornare. Andare a dormire, sedersi a tavola, baciare i figli: i loro gesti erano sempre tutt'altro da quello che sembravano, perché erano cenni d'intesa con il mondo a venire. Ho avuto ammirazione per chi ha aspettato il Messia tutta la vita. Persone con prole da crescere hanno in cuor loro coltivato, per misteriosa grandezza, il desiderio che il mondo una buona volta si schianti nel niente. Insieme alla richiesta del cibo di tutti i giorni hanno bisbigliato per secoli e millenni: `Fai che venga il tuo regno,' fine del pane quotidiano, avvento del forno per tutta la granaglia della specie umana. Voler essere contemporanei di questo fracasso, lo capisco, è la più grande aspirazione di chi ha fede. Uno solo di noi fu il primo, ma tutti potremo essere gli ultimi. Poi si arriva a questa sala d'attesa, attaccati a un impianto a goccia nelle vene, e ci si aggiusta al rango di penultimi. Perciò ti dico di amare un poco di più il tuo tempo, perché potrebbe essere quello del Messia. Allora uscendo di casa al mattino per andare al cantiere metterai le spalle a nord e vedrai spuntare quel giorno dietro le case, il profilo dei campi, dietro il recinto, a est, in alto a sinistra.

Postato il 27 agosto 2011

Il problema del tempo e Agostino (Le Monnier)

Brano tratto dal volume Autori latini, Il sentimento del tempo, Le Monnier Scuola, 2007
di L. Azzoni – B. Nanni – E. Seghetti

Che cos'è il tempo? Le risposte degli antichi

Il tempo del mito
I dio greco che porta il nome del tempo, Chronos, è l'autore di un inaudito atto di violenza: egli evira infatti il proprio padre, Ouranos, il Cielo. Secondo il mito, dalla Voragine primordiale, Chaos, nasce Gaia, la Terra, che genera spontaneamente il suo doppio e contrario, perfettamente simmetrico, il Cielo, che, maschio, si stende su di lei e «non cessa mai di disseminarsi nel seno di Gaia», senza interruzione. «La povera Terra si trova allora incinta di una prole numerosa che non può neppure uscire dal suo grembo, che deve restare là dove Urano l'ha concepita. Visto che Cielo non si alza mai da Terra, non si crea mai fra loro uno spazio che permetta ai figli, i Titani, di uscire alla luce» (J.-P. Vernant). Per sgravarsi della propria prole e per far cessare l'infinito abbraccio di Urano, Gaia istruisce il più giovane dei suoi figli, Crono, affinché, mentre è dentro di lei, eviri il padre con un falcetto. Crono obbedisce e riesce nell'impresa. Urano, gridando, si stacca allora da Gaia e occupa lo spazio della volta celeste, dal quale non si muoverà più. Prosegue suggestivamente Vernant: «Con la castrazione di Urano, avvenuta su consiglio e grazie all'astuzia della madre, Crono segna una tappa fondamentale nella nascita del cosmo. Separa il cielo e la terra. Crea fra terra e cielo uno spazio libero: da allora in poi tutto ciò che la terra produrrà, tutto ciò che verrà generato dagli esseri viventi, avrà un luogo per respirare e per vivere. Da un Iato, lo spazio si è aperto, ma anche il tempo si è trasformato. Finché Urano pesava su Gaia, non c'erano generazioni successive, restavano tutte nascoste all'interno di chi le aveva generate».
II fatto che sia Crono, il Tempo, a creare lo spazio della possibilità della vita e del succedersi delle generazioni risulta assai significativo per avviare la riflessione che ci proponiamo di compiere in questo volume: la percezione che gli antichi avevano del tempo.
In forma embrionale è già leggibile nel mito che il tempo si percepisce nel cambiamento delle cose, di cui esso è misura. Senza il succedersi delle generazioni, senza i movimenti nello spazio, Crono è chiuso nel ventre della Terra che, evidentemente, vive in una dimensione extratemporale l'incessante e immutevole atto d'amore con Urano. Il Tempo nasce (secondo il mito «viene partorito») nel momento in cui si crea uno spazio che permette agli eventi di accadere (ancora in termini di mito, ai figli di Gaia di «uscire alla luce»).

Il tempo ciclico
I cambiamenti più evidenti di cui l'uomo ha percezione sono quelli legati ai cicli naturali: l'avvicendarsi del giorno e della notte, delle stagioni, delle fasi lunari, delle traiettorie astrali. La costante di questi mutamenti è la loro ciclicità: alla notte succede un nuovo giorno, la luna cresce e cala per ritornare a crescere, e così via. Nelle società arcaiche, prevalentemente agricole e legate ai cicli della terra e del cielo, l'immagine del tempo è pertanto quella di un cerchio, o di una ruota: come scrive lo studioso delle religioni M. Eliade, si tratta di un orientamento «tradizionale, presentito (senza mai essere formulato con chiarezza) in tutte le culture `primitive': quello del tempo ciclico che si rigenera periodicamente ad infinitum».
Questa concezione ricorsiva del tempo è stata poi sistematizzata dapprima in ambito religioso, attraverso due momenti fondamentali. In primo luogo, la scansione del tempo in base a rituali anch'essi ricorsivi, legati a determinati periodi dell'anno e costantemente ripetuti nella stessa forma, con lo scopo di armonizzare I'attività dell'uomo alla natura e di agire sulla natura in modo da renderla favorevole all'uomo.
In secondo luogo, la nascita di miti. Il nucleo più arcaico dei miti primitivi è legato a una divinità mediterranea preariana, femminile, identificata con la luna: la Gran Dea, la Dea Madre, la Dea Bianca, venerata con molti nomi, che variano a seconda delle regioni e dell'epoca storica (Astarte, Ishtar, Iside, Cibele, Afrodite, Artemide, Leucotea, Persefone, e molti altri). E una dea ciclica, in quanto in essa convivono gli aspetti della vita e della morte, nella triplice forma di vergine, di ninfa, e di vegliarda. La forma trinitaria appare anche nell'estensione del suo dominio, in quanto è divinità celeste, sotto forma di luna, terrestre in quanto madre della vegetazione e signora della fecondità, e ipogea, in quanto signora della morte e degli inferi. La dea è rappresentata sulla terra da una sacerdotessa che si accompagna a un re sacro, il quale viene scelto in un momento significativo dell'anno (il solstizio d'estate o l'equinozio di primavera), e viene poi ucciso e sostituito in inverno, a simboleggiare la morte della vegetazione e a propiziarne la rinascita. In molti miti a noi noti è possibile leggere questo schema primitivo. Oltre alla più nota vicenda di Demetra, può risultare interessante il mito di Adone.
Adone (il cui nome rende probabilmente il titolo semitico adon, «signore») corrisponde al semidio babilonese Tammuz, lo spirito della vegetazione, compagno di Ishtar, l'Afrodite mesopotamica. La somiglianza del mito e dei rituali in area semitica e in area greca (ma anche la vicenda di Osiride e Iside, in area egizia, è riconducibile allo stesso nucleo) è significativa della sua vitalità ed estensione.
Adone è il figlio di Smirna, trasformata in albero di mirra da Afrodite mentre era gravida. AI compimento del tempo, dalla corteccia uscì un bambino bellissimo: Adone. Afrodite lo consegnò alla regina degli inferi, Persefone, perché lo tenesse nascosto, ma essa, affascinata dalla sua bellezza, lo scelse, una volta cresciuto, come amante. Afrodite però, lei pure innamoratasi del giovane, lo reclamò, e ne nacque una contesa. La lite venne superata grazie all'intervento della Musa Calliope, la quale stabilì che l'anno fosse diviso in tre parti: una destinata a Persefone, una ad Afrodite, e una in cui Adone poteva stare libero. Tuttavia Afrodite, sfruttando il cinto magico per cui diveniva irresistibile, tratteneva il giovane con sé anche durante questo terzo periodo. Suscitò in questo modo l'ira di Persefone e la gelosia di Ares, amante divino di Afrodite, il quale, sotto forma di cinghiale, uccise Adone durante una battuta di caccia. Dal sangue del giovane nacque un fiore, l'anemone scarlatto. Afrodite ottenne però da Zeus che il giovane passasse solo metà dell'anno tra i morti, in compagnia di Persefone, e di averlo con sé durante il tempo rimanente.
La divisione in tre parti dell'anno simboleggia le tre stagioni (della capra, del leone, del serpente) in cui era diviso il calendario lunare; la permanenza di Adone nell'Ade simboleggia la morte della natura durante la stagione invernale. I rituali legati a questo mito, diffusi in tutta l'area europea e dell'Asia occidentale con varianti poco significative, comprendevano la celebrazione delle nozze dei due amanti divini, la rappresentazione della morte di Adone, il suo funerale, accompagnato da lamentazioni compiute principalmente da donne, e infine l'allestimento dei «giardini di Adone», cesti, vasi o vassoi su cui venivano piantati fiori e grano, che in breve, per mancanza di terra, appassivano e venivano poi gettati in acqua corrente insieme al simulacro della salma del giovane. II giorno seguente, egli risorgeva e saliva al cielo. «La cerimonia della morte e resurrezione di Adone deve essere stata una rappresentazione scenica del declino e della rinascita della vita vegetale», conclude J.G. Frazer, il noto antropologo autore del Ramo d'oro. Essa testimonia la visione ciclica del tempo, nel suo aspetto più evidente, quello della vegetazione: «l'universalità di questo ciclo ricorrente di declino e rinascita, unita al fatto che da esso dipende totalmente l'uomo per la sua sopravvivenza, contribuiscono a renderlo l'evento naturale più importante e solenne dell'anno» (Frazer).
Ad altri miti più esplicitamente legati alla scansione del tempo è comune l'idea di un inizio paradisiaco - «concezione arcaica (e probabilmente universale)», scrive Eliade -, cui segue una serie di cicli successivi di creazione-distruzione-nuova creazione. Le palingenesi (i nuovi inizi) di ciascun ciclo riportano le medesime condizioni di partenza, in una ripetizione eterna di ciò che è stato (il mito «dell'eterno ritorno»).
Questa modalità ciclica è comunque scandita al suo interno da cicli intermedi, in cui il tratto comune in molti sistemi mitico-religiosi è l'innesco di un processo degenerativo, per cui la nuova nascita porta a condizioni peggiori rispetto alla precedente. Raggiunto il punto più basso del deterioramento, si assiste a una nuova rinascita nelle condizioni originarie.
Un esempio di questo sistema si trova nella religione induista e, in ambiente greco, nel mito delle età, narrato da Esiodo, secondo il quale a un inizio paradisiaco, l'età dell'oro, succede una serie di cicli degenerativi fino ad arrivare all'attualità, segnata da vecchiaia, morte, malattie e ingiustizia, l'età del ferro.

Il tempo lineare
L'altro modello nella visualizzazione del tempo è quello, più moderno, di tipo lineare. Gli studiosi sono concordi nell'attribuire alla cultura ebraica questa nuova concezione, che sarebbe derivata dal diverso rapporto che il popolo ebraico instaura con la divinità: «messi da parte i cicli del tempo che si susseguivano uno dopo l'altro [...] la storia del mondo divenne, invece, un processo di liberazione politica.
Durante il IX secolo a.C. uno scrittore di genio descrisse le provvidenziali azioni di Yahweh dalla creazione del mondo alla nascita di Abramo, progenitore di Israele, poi da quel punto alla schiavitù in Egitto, e infine alla liberazione degli Ebrei e alla conquista di Canaan, la terra promessa.
La storia smise di essere semplicemente un susseguirsi di fatti e divenne, invece, un complicato intreccio di eventi che progredivano da un inizio ben preciso a un fine stabilito. La storia venne concepita come storia della salvazione, e con essa nacque l'idea di tempo lineare»: così sintetizza J.T. Fraser, il fondatore della International Society for the Study of Time.
Da osservare due elementi: il tempo lineare discende dalla percezione degli eventi come momenti di una storia; la storia procede verso un fine provvidenzialmente stabilito. La presenza di un'escatologia (cioè la riflessione sul fine degli eventi) spezza il ciclo in un segmento con un inizio e un termine.
La riflessione cristiana porterà a compimento questo processo, per cui il tempo avrà una fine, e si risolverà nella dimensione extra-temporale dell'eternità, dalla quale il tempo è nato al momento della creazione, per volontà divina.
È adombrata una concezione analoga anche nella riflessione finalistica sulla storia avviata in età augustea, di cui I'Eneide, il poema di Virgilio, è l'esempio più illustre: la vicenda di Roma è concepita come progressiva e fatale espansione fino a un punto di perfetto equilibrio, garante della prosperità universale, rappresentato dal principato.
Risulta evidente come in questo tipo di concezione la storia umana e la vita individuale, nella loro unicità e irripetibilità, vengono avvalorate rispetto alla concezione ciclica.
Va detto che tali modelli non sono necessariamente alternativi, e restano largamente operanti parallelamente, anche se a livelli diversi: nel continuum del ciclo si può isolare l'hic et nunc del tempo individuale (questo tema sarà particolarmente presente nella riflessione oraziana).

Il tempo della natura
Anche la riflessione filosofica nella considerazione del tempo parte dalla relazione col mutamento: in termini filosofici il divenire, contrapposto all'essere, che, per sua natura, non muta.
È Pitagora il primo a occuparsi esplicitamente della questione del tempo, che lui concepisce, secondo la testimonianza di Porfirio (Vita di Pitagora), come ciclico: entro un dato termine di tempo tutto si ricrea come era stato, e quindi nulla è nuovo di quanto vive sulla terra.
Parmenide, fondando la filosofia dell'essere, svaluta il tempo, connesso esclusivamente al divenire, fino a considerarlo un «non ente»: soltanto l'essere, nella sua immutabilità e unicità, è; conseguentemente, tutto ciò di cui possiamo dire «era» o «sarà» non è essere, ma apparenza, oggetto della fallace conoscenza sensibile: «Da questo conseguiva che il tempo non può essere reale, perché impone di parlare di cose ed eventi che sono stati e che saranno. Lo stesso cambiamento non può essere che illusione. Il mondo vero è un mondo di permanenza. La realtà ultima, scrisse [Parmenide] in uno dei frammenti rimastici, è "immobile nei limiti di potenti legami, senza principio né fine"» (Fraser).
E Platone, nel Timeo, a fornire la prima definizione del tempo. Timeo sta raccontando l'origine del cosmo, tratto dal caos dal divino artefice, il Demiurgo, che opera sulla materia preesistente prendendo a paradigma, per plasmare il mondo, le Idee, i modelli eterni e perfetti. Creando il tempo, prende a modello l'eternità, di cui esso è «immagine mobile»:

Allora egli pensò di creare un'immagine mobile dell'eternità e, organizzando il cielo, produsse, mentre l'eternità restava nell'unità, un'immagine che si muoveva secondo una misura, e questa noi la chiamiamo «tempo»: infatti i giorni e le notti e i mesi e gli anni, che non esistevano prima della nascita del cielo, li fece nascere nel momento in cui quello sorgeva [...]. Dunque secondo tale provvidente ragione a proposito della nascita del tempo, affinché il tempo nascesse, sono sorti il sole e la luna e gli altri cinque pianeti, in vista della suddivisione e del mantenimento della misura del tempo. (37a-38c)

Per Platone dunque il tempo esiste, ed è quanto di più prossimo all'eternità la materia del mondo consenta di creare. Gli astri celesti quindi sono nati in vista della misurazione del tempo, e del mantenimento di un ritmo costante e perfetto, garantito dalla circolarità delle loro orbite: il movimento circolare, infatti, che non ha una partenza e un arrivo, è il moto perfetto.
Aristotele inverte i termini della questione: riportandosi all'esperienza, riconosce nel tempo la misura del mutamento. Noi percepiamo il tempo nel momento in cui si verificano dei mutamenti (che il filosofo chiama «movimenti») rispetto ai quali si possano determinare un «prima» e un «poi», cioè uno sviluppo temporale. Ecco la riflessione che troviamo nella Fisica:

Il tempo noi lo conosciamo quando determiniamo il movimento, individuando in esso ciò che è prima e ciò che è dopo. E noi affermiamo che è trascorso del tempo allorché abbiamo percezione di «ciò che è prima» e di «ciò che è dopo» nel movimento. (4,11,219a 22-25)



Da qui la definizione del tempo: «Tempo è il numero del movimento secondo il prima e il dopo» (4,11,219b 1-2).
Sulla stessa linea procede anche la riflessione stoica, che considera il tempo come intervallo del movimento (SVF, 1, fr. 93). Commenta il filosofo G. Reale: «esso è effetto dell'esserci, del vivere e del muoversi dei corpi e in genere dei cosmo».
Punto comune sia alla prospettiva platonica che a quella aristotelica è il fatto che il tempo (a prescindere dalla priorità che viene assegnata) viene misurato secondo il movimento del cielo, cui viene attribuito un moto circolare uniforme, garante dell'arythmon, il «numero», la misura regolare, il ritmo. E il tempo della natura, il tempo fisico.
Ma mentre per Platone il tempo è un ente creato dal Demiurgo, e quindi ha una sua esistenza autonoma, per Aristotele esso è esclusivamente l'unità di misura dei mutamento.

Il tempo esiste in sé?
Se, secondo la prospettiva aristotelica e stoica, il tempo è una unità di misura, è lecito domandarsi se esso abbia una sua esistenza autonoma, in assenza di un ente che possa misurarlo attraverso la percezione del mutamento delle cose. Scrive infatti Aristotele:

Qualcuno potrebbe sollevare questa difficoltà: il tempo esisterebbe o meno, se non esistesse l'anima? Se non esiste infatti ciò che può numerare, è impossibile che vi sia qualcosa che può essere numerato. [...] Ma se null'altro per sua natura numera eccetto l'anima, e nell'anima l'intelletto, allora è impossibile che esista il tempo, se non esiste l'anima. (Fisica, 4,14,223a 21-29)

Come dire: esiste il «litro» in sé, se non esiste un intelletto in grado di misurare dei liquidi? Ma anche sotto un altro aspetto il concetto di tempo solleva dubbi sulla sua natura ontologica (cioè di «ente»): la puntualità infinitesimale del presente (che «è»), rispetto ai due tempi che «non sono» mai, il passato, che non è più, e il futuro, che non è ancora. Scrive a questo proposito Seneca:
Praesens tempus brevissimum est, adeo quidem ut quibusdam nullum videatur; in cursu enim semper est, fluit et praecipitatur; ante desinit esse quam venit, nec magis moram patítur quam mundus aut sidera, quorum inrequieta semper agitatio numquam in eodem vestigio manet. (Dialogi, 10,10,6)
Il presente è brevissimo, tanto che a taluni sembra che non esista; è sempre in corsa, scorre e precipita, smette di esistere prima di esser giunto, e non può indugiare più di quanto possano fermarsi il cosmo o le stelle, la cui corsa inquieta non si ferma mai sulla propria traccia.
Tre secoli dopo, Agostino, dopo aver reso esplicito il suo disagio di fronte a una nozione tanto comune quanto indefinibile («Dunque cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se lo volessi spiegare a uno che ne domandasse, non lo so»), rende ulteriormente esplicito questo problema scrivendo, in un passo su cui avremo modo di tornare:

Duo ergo illa tempora, praeteritum et futurum, quomodo sunt, quando praeteritum iam non est et futurum nondum est? Praesens autem si semper esset praesens nec in praeteritum transiret, non iam esset tempus, sed aeternitas. (Confessiones 11,14)
Dunque quei due tempi, passato e futuro, in che modo esistono, dal momento che il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora? II presente poi, se fosse sempre presente non sarebbe più tempo, ma eternità.

Il tempo umano
Spostiamo ora l'attenzione dal tempo fisico al soggetto consapevole del trascorrere del tempo: l'uomo. L'uomo, fra tutte le creature viventi, è l'unica che percepisce il tempo in modo progettuale. Gli animali reagiscono al trascorrere del tempo in modo istintivo: migrano, vanno in letargo, ma non potrebbero non farlo. Non hanno progetti autonomi sul futuro. Non si scambiano informazioni sul passato. Possono solo, nelle specie più avanzate, creare delle abitudini, ma il loro orizzonte temporale è estremamente limitato. Solo l'uomo ha il privilegio di estendere i suoi orizzonti temporali oltre l'immediatezza dello stimolo del presente. In base a una certa immagine del futuro, e in relazione a esperienze passate, personali o acquisite attraverso la comunicazione con altri uomini (che possono anche essere vissuti in un altro tempo), l'uomo opera delle scelte e organizza il proprio presente: ad esempio, possiamo scegliere di studiare oggi l'anatomia del corpo umano in vista di un pensato futuro di medico.
Ma è soprattutto una, fra le proiezioni nel futuro, che determina in maniera sostanziale la nostra percezione del tempo: la morte. Scrive Fraser: «Fra le molte immagini del futuro che influenzano le azioni presenti, la consapevolezza della morte è la più potente e universale. E un ingrediente essenziale del senso del tempo dell'uomo maturo, i cui orizzonti si estendono senza limiti nel futuro e nel passato. Questo tipo di tempo, che è proprio della mente umana, viene chiamato tempo noetico o nootemporalità [...]. La nootemporalità è il tempo dell'essere umano pensante».
La morte costituisce dunque il momento che in qualche modo dà senso alla vita, costringendo l'uomo alle scelte, e rendendo indispensabile una valutazione e una gestione del tempo. In un suggestivo racconto di J. L. Borges, Gli immortali, lo scrittore argentino immagina una comunità di persone che hanno trovato l'elisir dell'immortalità. Orbene, questi uomini passano la loro vita, resa eterna, dormendo: laddove si sia perso il confine del tempo, ogni azione diviene priva di senso, in quanto può essere indefinitamente rimandata. La vita, in assenza dell'assillo della morte, scivola nell'oblio.
D'altra parte, la continua percezione della propria mortalità, e quindi dell'inarrestabile fluire del tempo verso la propria fine, affianca al privilegio della coscienza una inquietudine esistenziale cui è necessario trovare un rimedio. Da sempre ogni sistema filosofico o religioso ha avuto come centro questo ineludibile problema: liberare dal timore e dall'angoscia della morte, ultima linea rerum, come la definisce Orazio (Epistulae 1,16,79).
«Il mondo umano comprende, oltre al presente, anche il passato e il futuro. Vivere in questo universo non è impresa facile, perché il passato racchiude i piaceri ormai perduti e i rimpianti che permangono, mentre il futuro comprende speranze e paure. Scoprendo il tempo umano, ci siamo ritrovati malati cronici di conflitti interiori. Per allentare almeno in parte la tensione generata da questi conflitti, la nostra specie ha creato le civiltà con le loro droghe [cioè gli artificiali correttivi dell'angoscia, le azioni che l'uomo compie per esorcizzare la paura della morte, n.d.r.]. Gli uomini, dotati di cuore e anima, sentendosi oppressi, se non per altri motivi, per la finitezza della vita sulla terra, ne hanno bisogno in misura illimitata. Ed è per questo che li fabbricano incessantemente: la matematica e l'astronomia, la tecnologia e l'architettura, le scienze, le arti e le lettere, la musica e la danza, [...] le guerre e la gestione della pace. Siamo una razza inquieta» (Fraser).

Il percorso
Nel percorso che presentiamo, incontrerai i testi dì tre autori che sul problema del tempo e della finitezza umana si sono interrogati profondamente.
Orazio, che vive nella costante angoscia (l'atra cura, «l'angoscia nera») della labilità della vita e della presenza onnipervasiva della morte, cui cerca di trovare scampo chiudendo l'orizzonte del futuro per vivere il presente. Per lui il solo spiraglio che consente una speranza di eternità è la poesia.
Seneca, che, attraverso la meditazione costante sulla morte, insegna a possedere per intero la propria vita, nella sua dimensione passata, presente e futura, nella ricerca e nell'esercizio costante della virtù: è in questo caso la filosofia a dare significato al tempo.
Agostino, che, dopo aver dimostrato che il tempo è una delle espressioni più drammatiche della finitezza e incessante mutabilità delle cose, condizione fondamentale del mondo terreno, vede nella contemplazione di Dio, eterno e immutabile, l'unica forma di superamento e di raggiungimento, da parte dell'uomo, della sua insopprimibile aspirazione all'immortalità.




Agostino e la nostalgia del tempo

Dio, l'eternità e il tempoPer comprendere correttamente la teoria agostiniana del tempo, che esercitò un'influenza decisiva nella cultura occidentale (basti pensare che tutti i principali filosofi del Novecento che hanno trattato il problema del tempo, tra cui Bergson, Wittgenstein, Russell, Heidegger, partiranno proprio da un'analisi o una confutazione di Agostino come condizione preliminare per presentare le proprie posizioni), è necessario ricordare che anch'essa si iscrive nella prospettiva volta a fornire una giustificazione razionale delle verità rivelate.
La sua trattazione più sistematica si colloca nella sezione conclusiva delle Confessiones, in cui, dopo aver tracciato il suo percorso esistenziale dal peccato alla conversione, Agostino si pone l'obiettivo di dare una giustificazione filosofica alla sua scelta di fede, discutendo uno dei dogmi più controversi del cristianesimo, la creazione ex nihilo, cioè dal nulla, del mondo da parte di Dio. Tale dogma infatti si distingue nettamente dalle teorie cosmologiche della filosofia classica, che, pur differenziandosi tra loro anche notevolmente, avevano legato l'origine dell'universo all'ordinamento di una materia caotica eternamente preesistente, negando quindi la possibilità di qualunque tipo di creazione dal nulla (anche il Demiurgo platonico, ad esempio, plasma il mondo conformando la materia ai modelli delle Idee).
Nell'XI libro, Agostino affronta una questione che riguarda espressamente il tempo: quid faciebat Deus, antequam faceret caelum et terram? La risposta, che esamineremo dettagliatamente, è semplice: antequam faceret Deus caelum et terram, non faciebat aliquid, «prima di fare il cielo e la terra, Dio non faceva qualcosa», cioè non operava nell'ambito delle cose create. In altre parole, Dio è il creatore di tutto l'universo, naturale e soprannaturale, e il tempo è compreso nell'ordine delle cose create. In quanto creatura, il tempo appartiene a un ordine di realtà radicalmente diverso da Dio, cui compete unicamente la dimensione dell'eternità caratterizzata da immutabilità, immobilità e pienezza. L’alterità radicale tra Dio e il tempo che così viene posta vanifica dunque la questione in sé: prima della creazione il tempo non esisteva e pertanto non ha senso nemmeno parlare di un `prima', che è una categoria estranea alla divinità.

La natura problematica del tempo
Muovendo da queste premesse di carattere teologico, Agostino si pone comunque l'obiettivo di tentare un'indagine filosofica del concetto di tempo.
Essa prende le mosse dalla consapevolezza della natura intrinsecamente contraddittoria della nozione di tempo, notissima e misteriosa insieme: quid est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio, si quaerenti esplicare velim, nescio, «che cos'è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so, se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». L'analisi di conseguenza avrà un'impostazione problematica, volta a mettere in discussione posizioni ritenute superficiali e inefficaci piuttosto che a proporre affermazioni univoche; frequentemente Agostino si interrompe a precisare: quaero, non adfirmo, «cerco, non affermo», oppure: exarsit animus meus nosse istuc implicatissimum aenigma, «il mio animo arde di conoscere questo complicatissimo mistero».
Il punto di partenza obbligato è anche per lui la definizione aristotelica del tempo come misura del movimento, che non viene confutata, anche perché, ponendo una relazione inscindibile tra il tempo e l'universo naturale, non è in contrasto con il principio agostiniano del tempo come conseguenza della creazione. Agostino dice espressamente, seppure come suo solito in forma di domanda, cur enim non omnium corporum motus sint tempora?, «perché infatti i movimenti di tutti i corpi non dovrebbero essere considerati tempi?».
Ma, quando si tratta di indagare sulla misura del tempo, cioè sulla sua natura fondamentale, nasce un problema insormontabile: il tempo è infatti un'entità inafferrabile: delle tre dimensioni di cui è costituito, futuro, passato e presente, il futuro e il passato non hanno una realtà effettiva, perché praeteritum iam non est et futurum nondum est, «il passato non è più e il futuro non è ancora»; il presente, a sua volta, si riduce a istanti puntiformi che scorrono incessantemente; risulta dunque impossibile delimitare nel tempo dei confini, condizione necessaria per qualsiasi misurazione.
Ne consegue una definizione negativa del concetto di tempo: non scilicet dicamus tempus esse, visi quia tendit non esse?, «non potremmo dunque dire che il tempo è solo in quanto tende a non essere?».

Distentio animi
Dopo aver constatato che la natura oggettiva del tempo è tale da renderne impossibile la misura, Agostino si dedica a sviluppare l'ulteriore passaggio dell'analisi aristotelica: la funzione dell'intelletto umano nella misurazione del tempo; scrive K. Flasch: «Aristotele pensava che la misura del tempo fosse presente nello stesso processo naturale, ma contemporaneamente affermava che se non ci fosse l'anima, non ci sarebbe neppure il tempo. Il tempo sarebbe dunque presente nell'anima e al di fuori di essa. Come ciò possa darsi, rimaneva una questione aperta; proprio su di essa si concentrò l'attenzione di Agostino; [...] il risultato conseguito non era più aristotelico».
Vedremo come Agostino giunga a questa definizione:

mihi visum est nihil esse aliud tempus quam distentionem: sed cuius rei nescio, et mirum, visi ipsius animi.
mi pare che il tempo non sia nient'altro che una distentio, ma non so di che cosa, e sarebbe strano se non si trattasse proprio dell'intelletto.

L'espressione distentio animi è tanto icastica quanto problematica. Etimologicamente distentio è un derivato del verbo distendo (dis + tendo), «tendere in direzioni opposte»: il tempo è dunque una forma di «tensione» o «estensione» dell'intelletto che si protende nelle direzioni opposte del passato e del futuro. Infatti mediante le facoltà della memoria, dell'attentio, «attenzione», e dell'expectatio, «aspettativa», le tre dimensioni del tempo divengono presenti nell'intelletto. Esso ha dunque la funzione di contenere la natura inafferrabile del tempo, unificando la successione degli istanti e riducendola a un insieme omogeneo e quindi misurabile.
Ma immediatamente dopo aver illustrato l'accezione tecnica di distentio Agostino ne introduce un'altra, che egli trae dalla connotazione fortemente negativa attribuita in latino al prefisso dis- (vedi discordia, dissensus, dissolutio ecc.): ecce distentio est vita mea, «ecco, la mia vita è dispersione».
Sul piano esistenziale, l'esperienza della temporalità è letta alla luce di un criterio morale: il divenire temporale diviene un'espressione emblematica delle lacerazioni che caratterizzano la realtà terrena, soggetta al peccato e alla morte. Solo in una dimensione mistico-escatologica tali lacerazioni potranno essere superate:

at ego in tempora dissilui, quorum ordineni nescio, et tumultuosis varietatibus dilaniantur cogitationes meae, intima viscera animae meae, donec in te confluam purgatus et liquidus igne amoris tui.
ma io sono lacerato nei tempi, dei quali ignoro l'ordinamento, e i miei pensieri, intimo recesso della mia anima, sono dilaniati dai tumultuosi mutamenti, fino a che approderò a te, purgato e purificato dal fuoco del tuo amore.

L'analisi agostiniana sul tempo approda in definitiva a una sua profonda svalutazione, giocata tutta a favore dell'eternità. Commenta un insigne studioso di Agostino, H. I. Marrou: «Agostino è un pensatore di tradizione platonica: la sua filosofia è una filosofia dell'Essere, o meglio dell'Essenza. [...] In una filosofia dell'Essenza, il tempo appare sempre un po' come uno scandalo. Il tempo è una cosa fluida, inafferrabile. [...] Per Essere veramente e pienamente bisogna affrancarsi dal tempo, o almeno dalla durata come la sperimenta l'attuale natura dell'uomo peccatore: tutto ciò che è inserito nel tempo storico non È, nel senso pieno della parola».

Postato il 27 agosto 2011