27 agosto 2011

Erri De Luca, In alto a sinistra

Brano tratto dal volume In alto a sinistra, Feltrinelli 2007

di Erri De Luca

Dormiva sotto il mio soppalco, non era neanche una stanza. Mi addormentavo al suono ovattato dei suoi lamenti, una nenia a bocca tappata per lasciarmi dormire. Qualche notte mi svegliava un soprassalto: si era un poco assopito e risvegliandosi sotto un morso più forte, non faceva in tempo a soffocare la voce. Allora scendevo con la scusa di andare al bagno e stavamo per un po' a giocare al buio.
Giocavamo a bridge a mente, descrivendo un diagramma con le cinquantadue carte. Me l'aveva insegnato lui, ero ancora ragazzo, e subito se ne pentì perché mi dedicai allo studio di quel gioco più che a ogni altra materia scolastica. Riuscivo bene nel campo astratto delle combinazioni di carte, le ricordavo tutte, immaginavo con sufficiente precisione i giochi degli avversari. Una volta vincemmo un torneo a coppie, noi due insieme, padre e figlio. A me sembrava normale, mi sentivo bravo a quel gioco, per lui fu invece una festa stringere in mano la bella moneta d'oro del premio. Un'altra occasione di minuscola gloria ci capitò in un torneo a squadre: incontrammo la rappresentativa nazionale della Polonia e riuscimmo a pareggiare. Questi erano i nostri minimi trofei che in quelle notti rinfrescavamo nel ricordo. Andavo presso il suo buio e senza accendere la luce cominciavo: "Allora tu hai in mano quattro carte di picche formate da..." e costruivo una giocata difficile da risolvere. Lentamente riusciva a concentrarsi al di sopra del dolore delle ossa, tentava la manovra di carte che permetteva di vincere anche contro la migliore difesa. In quelle notti davo fondo a tutta la mia scienza di accanito studioso del superfluo, montando diagrammi con i più remoti finali di gioco: il colpo del diavolo, la riduzione d'atout, le molteplici varianti delle compressioni semplici, doppie, triplici, di taglio, di criss-cross, la Barco, la Bonney, la Jettison. Ci negavamo la comodità di disporre le carte sul tappeto, così approfondivamo la concentrazione. Era splendido vedere che poteva migliorare nel bridge in quelle condizioni, eppure era così: riusciva a immaginare nitidamente le cinquantadue carte. Gli spiegavo lo svolgimento delle giocate e lui le ripeteva poi esattamente. Il dolore diventava un rumore di fondo, uno scricchiolio di travi nelle gallerie minerali del corpo mentre lui era risalito fuori, all'aperto, all'aria stellata delle carte astratte. Era l'unica cosa che avevamo in comune, la sola che mi avesse insegnato direttamente, come eredità. Tutto il resto l'avevo imparato dai suoi libri, comprati a fascine e che lui aveva letto tutti, tutti, fino all'ultima riga.
Una notte gli descrissi un diagramma. Prima che iniziassi a discuterlo aveva trovato la soluzione. Era una manovra del gioco di difesa. "Sai che hai trovato da solo il colpo di Merrimac?" Gli scappò una risata, uno scivolone che subito si contrasse in un singhiozzo. Cos'era mai. "E quello che hai fatto, il sacrificio di una carta alta che farebbe presa e che invece butti via per distruggere le comunicazioni tra i due avversari." Merrimac era il nome di una nave mercantile americana che si autoaffondò all'imbocco del porto di Santiago di Cuba per intrappolarci dentro la flotta spagnola, durante la guerra ispano-americana. Il successo di quel sacrificio dette nome a questo colpo di bridge. Gli piacque il nome, si sentiva un poco capitano in seconda di quel mercantile. In quei giorni lo colpì la paralisi dal tronco in giù. Andavamo in un sotterraneo, un corridoio di porte con nomi astronautici di apparecchiature mediche. Lo sorreggevo perché vacillava, afferrato alla schiena dal cancro alle ossa. I passi gli costavano trafitture, non poteva restare in piedi, doveva sdraiarsi. La prima volta in quel corridoio lo feci stendere sopra una barella in attesa di essere ricevuti per il cerchiaggio. È una marchiatura a vernice delle zone da irradiare con il laser. "Lei non può occupare questa barella." Spiegai alla persona in camice che mio padre non poteva stare in piedi. Insistette avvicinandosi a lui, allungando una mano per aiutarlo a scendere. Mi piazzai a quei pochi centimetri dalla sua faccia che precedono un bacio o una capocciata in bocca: "Non si alza da qui finché non saremo ricevuti". Non gli piacqui, se ne andò via. Dalla barella mi urtò con la mano, in segno di lasciar perdere. Gli impedii di alzarsi. Quando di rado gli proibivo fisicamente un gesto, lo ritraeva esitando, e a me restava lo sgomento di avergli reso più difficile la dignità.
Il dottore era ben collocato nel suo ufficio. Esaminò i dati, scrisse, telefonò, sorrise, poi ci indicò una sala. Spogliai lentamente il suo dorso, i panni dovevano scivolare delicatamente, le ossa bruciavano dentro quanto una pelle scorticata dal primo sole d'estate. Fu steso sopra una panca e gli disegnarono cerchietti lungo la spina dorsale. Su quei bersagli si sarebbe scaricata l'artiglieria invisibile del laser. Così fu per molte volte, molti giorni. Lo portavo piano dal letto di casa alla macchina, guidavo piano, scendevamo lentamente, eseguendo le nostre mosse secondo un rallentatore. Imparavamo quell'andatura, non come correre con un freno a mano tirato, ma come un nuovo modo indicativo necessario a tutti i nostri verbi. Quel tempo era l'adagio. Parlavamo anche così e lui soffriva i suoi dolori sottovoce, tappandosi la bocca quando erano pronti a impennarsi in un grido. Potevamo accorgerci che al di sotto di una minima velocità comune a tutti, si finiva fuori campo. Gli altri non facevano più caso a noi, scansandoci soltanto come ingombri fissi. Noi pure non badavamo più agli altri, considerandoli come un vento, un'aria mossa e un rumore di fondo. La necessità di fare piano portava con sé l'isolamento. Eravamo in due, eravamo un due, una cella mobile che si aggirava per strade e corridoi in cerca di qualche sollievo ai dolori. Eravamo stanati da quel bisogno fisso. Ogni tanto un gesto gentile otteneva da noi il risarcimento di un sorriso, altre volte un ringhio bastava a levarci di torno gli sgarbati. Ci intendevamo bene, a sorreggere il suo peso s'era stabilito un accordo di, scimmie, tocchi, smorfie, cenni. Formavamo in due un cavallo da tiro, un ronzino che zoccolava a ritmo i suoi quattro passi cadenzati.
Il turno del laser durava poco, era di più il tempo di spogliarsi e rivestirsi. Non riuscivo a credere che quel macchinario chiassoso come un tornio, potesse prendere bene la mira. Lui si adagiava col mio aiuto sulla panca e un infermiere aggiustava la posizione per il tiro. A me sembrava a casaccio. Non chiedevo, non facevo domande, non mi piaceva quel mondo efficiente solo a sbrigarsi, organizzato sulla parola d'ordine: "avanti un altro". Mio padre moriva, nelle sue ossa c'erano già metastasi, questo sapevo. Ogni curiosità era superflua e, per me, oscena. Una notte si alzò per andare al gabinetto e crollò a terra. Non aveva più controllo del corpo al di sotto del bacino. Era paralizzato, il laser l'aveva spezzato in due. Lo raccolsi da terra che piangeva di stupore. Nessuno ci aveva avvisato del rischio, nessuno spiegò che non poteva nemmeno pisciare. Così la vescica si gonfiava e lui chiedeva aiuto per pisciare e lo issavo in piedi e non usciva niente, però lui sentiva di doverla fare. Così lo portai all'ospedale del paese e lì capirono e gli applicarono subito il catetere e riempì a litri il serbatoio di plastica. Creatura mia ferita, sgarrettata, nemmeno la tortura dell'urina ho potuto risparmiarti, nessuno degli inamidati con cravatta sotto ci aveva avvisato. Poi mi arrivò il conto del laser, poi lo restituii stracciato in una busta. A noi restava il tempo del frattempo, un participio presente che aveva fretta di diventare passato. Resistevamo alla sua urgenza andando piano. Nel letto dal quale non poteva più alzarsi, si contrastavano lentezza e fuga.
Ci si affida a gente sapiente con camici splendenti di bucato dietro scrivanie ordinate. Fanno calcoli, prendono la mira, programmano e non sono buoni nemmeno a centrare la tazza quando vanno al bagno. Non mi ribello a loro, non impreco alla loro superbia, credo a un Dio delle pene che provvede a ripartirle. Mi fa male invece la speranza che sta negli occhi dei feriti, mi fa male la loro docilità. Non disse una maledizione. Metà del corpo era già perduta, l'altra metà picchiava alla schiena. "Lo senti?" mi diceva: "oggi mi ha dato calci più forti," oppure: "oggi mi fa scoppiare la vescica". Era "l'operaio", lo chiamavamo così quel male che faceva i suoi turni nella miniera del suo corpo. Anch'io ero operaio, il suo unico figlio che aveva rinnegato l'agio, il ceto, il tetto e ora, dopo molti anni, era di nuovo insieme a lui. La notte delle sue gambe perdute decisi che non lo avrei lasciato più. L'indomani mi licenziai dal cantiere. Per la prima volta da quand'ero partito ragazzo di casa, mi fermai, non lavorai. Non mi sarebbe costato più nulla stare sveglio la notte, a distribuire carte immaginarie.
Gli furono applicati dei tubi e non si alzò più. Gli era rimasto in mente il colpo di Merrimac. Era proprio quello che era capitato al suo corpo, trasformato in una smazzata di bridge, con una mano giocante e un'altra morta di fronte. La paralisi era stato il colpo di Merrimac, un taglio delle comunicazioni. Fiorivano le piaghe di decubito ma non poteva sentirle, solo un forte odore le denunciava. Allora ci accorgemmo che la pianta che avevo nel vaso cominciava a dar segni di crescita, riempiendosi di getti. In quelle settimane partì in altezza e in ingombro, al punto che volli spostarla, ma lui mi pregò di lasciarla. Era un bene, perché di notte ripuliva l'aria, assorbendo tutto l'odore delle ferite. Le bastava poca acqua.
"Presto riavrai la tua libertà." "Riavrò la libertà di tornare a far muri in cantiere, di aver la casa vuota e di trovarti in sogno." "Avrai la libertà di tornare ai libri, l'unica cosa che ti lascio, oltre al bridge. Riavrai i libri, l'unico posto dove l'esperienza che uno fa nel mondo, trova le parole d'accompagnamento."
Li aveva portati tutti da me quell'anno, quasi niente vestiti. Voleva bene ai libri, tutti. Gli piaceva la forma, l'ingegnoso sistema delle pagine sottili legate lungo la costola, capaci di contenere tanta materia narrata. "La morte è il Messia, ha scritto Isaac Singer. È proprio questo per me. In mancanza di fede l'aspetto con questa sola ansia: capire i libri. Ognuno capirà quelli che ha amato. Saprò quali avrei dovuto rileggere, quali ho mancato di conoscere. Mi aspetto dalla morte una biblioteca sterminata e anche la buona vista della gioventù".
Gli chiedevo se pensasse di ricevere anche quelli che sarebbero stati scritti dopo di noi. "I libri sono il sempre. Chi li scrive può credere di lasciarli ai contemporanei, ai posteri, ma mentre scrive tutto il passato è dietro le sue spalle a leggere. Se non c'è questo angelo del tempo trascorso, se non c'è il suo artiglio sul collo del poeta, le sue parole sono subito cenere. Se non si scrive per essere letti dagli antenati, non resta impresso niente sulla carta." "Babbo, ci vogliono troppi miracoli insieme per far succedere quello che speri. Sei esigente per essere un uomo senza fede." "Mi è bastata la fede degli altri. In alcune vite di quelle persone ho visto l'impronta digitale di Dio, così come resta nei libri sacri del loro credo. Sono un testimone secondario, non ho visto l'orso ma ho trovato le orme, un alveare saccheggiato, indizi insomma di un passaggio."
Le nostre chiacchiere nel buio non erano solo serie. Cercava di ricostruire la genealogia, raggruppando aneddoti di famiglia perché io potessi ricordarli. Non me ne sono mai incuriosito. "Perché non hai figli, nessuno a cui raccontare le storie. In tanta tua generazione poligama, tu solo sei rimasto fuori dai registri di nozze. È povero un uomo senza donna, perché smette di crescere." Diceva cose sagge, ma le diceva a una stanza vuota. Le sentivo a eco, come un rimbombo di malinconia, mi difendevo: "A una moglie avrei niente da offrire, troppo da chiedere". Non sempre finivamo un discorso, una frase: "l'operaio" lavorava di notte e di giorno e a volte mi diceva di andare in camera mia, perché doveva gridare e doveva tapparsi la bocca e stare per un poco a masticare il freno. Allora risalivo al soppalco e mi addormentavo un poco, cullato dalla cantilena del suo dolore. Potrei suonarla, metterla in musica, in filastrocca: non gridava nessuna vocale, solo consonanti lunghe, prolungate, che si impennavano in gola. Regolava il fiato dicendosi a bassa voce "sh, sh". Mai si lasciò andare allo sconforto di una vocale, a dare al grido la dignità di una sillaba.
La pianta della specie delle araucarie fioriva, gettava in ogni direzione le foglie lunghe verdi, cupe, lisce. In qualche notte di morfina lo sentivo parlare a quella pianta, ormai alta come una persona ai piedi del letto. Le raccontava i fatti, le storie di famiglia, nel buio. L'arbusto di notte vegliava e asciugava anche le parole. Un buon infermiere veniva di giorno a pulire le piaghe e aggiustare i vasi con cui si irrigavano le sue vene. Di giorno parlava di libri. "Conoscevano le mie pene, i bisogni, gli scontenti. In ognuno di loro c'era una frase, una lettera che era stata scritta solo per me. Sono stati la vita seconda, che insegna a correggere il passato, a dargli una presenza di spirito che allora non ebbe, a dargli un'altra possibilità. I libri insegnano ai ricordi, li fanno camminare. Li ho letti per intero, non ne ho lasciato nessuno a mezzo, per quanto fosse deludente o presuntuoso l'ho seguito fino all'ultima linea. Perché è stato bello per me girare la pagina letta e portare lo sguardo in alto a sinistra, dove la storia continuava. Ho girato il foglio sempre alla svelta per proseguire da quel primo rigo, in alto a sinistra. Questo mi mancherà del mondo, mi mancherà più di te, delle tue cure e delle notti di bridge con cui mi hai fatto uscire dal dolore delle ossa. I libri sono un carattere ereditario e credo di avertelo trasmesso. Non li ami come me, sei esigente, cerchi tra essi le pagine che restano incise nella memoria, infilzate come farfalle. Ma non dire che le altre, le dimenticate, sono da non leggere. Molto è portato via dal caso, quello che resta è appunto solo questo, un resto che non dimostra e non sostituisce niente di quello che si è perduto. Ami le pagine assolute, le necessarie, al riparo dai gusti. Ma i libri siamo noi, gente che si ammala, si sfilaccia, ingiallisce e viene dimenticata. Sono a immagine della nostra vita. Ama un poco anche i libri del tuo tempo, ama un poco i tuoi anni che sono quelli che passano e non quelli che ti restano."
"Non ci riesco. Mi irrita nei contemporanei quello che apprezzo negli antichi, la leggerezza che fa da spinta al leggere. Ho un quaderno su cui ricopio le frasi che mi hanno fatto scattare, che mi hanno fatto voltare indietro e forzare le cose risapute da una diversa breccia. Le pagine che cerco hanno questo effetto: un paio di occhiali giusti sul naso di un bambino che fino a quel momento non aveva mai saputo di essere miope. Allora si accorge degli occhi del suo cane, dell'artiglio del gatto, della gola tesa del gallo che grida. Di frase in frase il quaderno cresce e contiene non í libri, ma la felicità incontrata. Così divento contemporaneo delle pagine amate e non dei miei anni."
"Lo credi ma non è così. Si può stare solo nel tempo assegnato e la tua antologia deve aiutare ad abitarlo. Ho conosciuto persone che volevano essere contemporanee del Messia. Erano uomini di fede, laboriosi, non a braccia piegate in attesa. Amavano il loro tempo in forza di questa speranza, scrutando i segni di un avvento, osservando regole difficili con la convinzione di affrettarlo. Posso dire che li vedevo in transito nel loro tempo, che avevano i bagagli pronti come chi stia in esilio e aspetti da un momento all'altro di tornare. Andare a dormire, sedersi a tavola, baciare i figli: i loro gesti erano sempre tutt'altro da quello che sembravano, perché erano cenni d'intesa con il mondo a venire. Ho avuto ammirazione per chi ha aspettato il Messia tutta la vita. Persone con prole da crescere hanno in cuor loro coltivato, per misteriosa grandezza, il desiderio che il mondo una buona volta si schianti nel niente. Insieme alla richiesta del cibo di tutti i giorni hanno bisbigliato per secoli e millenni: `Fai che venga il tuo regno,' fine del pane quotidiano, avvento del forno per tutta la granaglia della specie umana. Voler essere contemporanei di questo fracasso, lo capisco, è la più grande aspirazione di chi ha fede. Uno solo di noi fu il primo, ma tutti potremo essere gli ultimi. Poi si arriva a questa sala d'attesa, attaccati a un impianto a goccia nelle vene, e ci si aggiusta al rango di penultimi. Perciò ti dico di amare un poco di più il tuo tempo, perché potrebbe essere quello del Messia. Allora uscendo di casa al mattino per andare al cantiere metterai le spalle a nord e vedrai spuntare quel giorno dietro le case, il profilo dei campi, dietro il recinto, a est, in alto a sinistra.

Postato il 27 agosto 2011

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