31 ottobre 2011

Nessuna promessa può rimanere incompiuta

La morte di "Sic", le domande dei ragazzi
di Alessandro D'Avenia
Quando sono entrato in classe poco prima dell’inizio delle lezioni ho trovato i miei ragazzi, i maschi, già in classe. Non erano in giro per i corridoi cercando di sfruttare sino all’ultimo qualche boccata di libertà prima della prigione di sei ore di lezione. Erano seduti e parlavano sottovoce. Ho chiesto cosa fosse accaduto, mi hanno risposto: «Simoncelli». Alcuni di loro il giorno prima avevano pianto, guardando e riguardando video più volte, quasi a volersela far raccontare bene questa brutta favola.
Mi ha colpito che fossero i maschi della classe, così poco disposti a manifestare i propri sentimenti, e che partecipassero in modo così personale a quel lutto, come si trattasse di un amico. Che cosa c’era sotto? Il loro sconforto andava di là dai confini della morte di uno sportivo impegnato in uno sport pericoloso. Che cosa era accaduto veramente? Nei loro occhi spenti e in qualche parola smozzicata emergeva il punto con evidenza smagliante: una promessa interrotta. Il dramma non era quello della morte, ma quello dell’ingiustizia della vita, se non è eterna.
Simoncelli più che un campione era una promessa di campione. Eravamo tutti in attesa che realizzasse il suo sogno e tifavamo per lui. Ma la morte gli ha fatto lo sgambetto a quella curva. I miei ragazzi non ce l’avevano con la morte, ma con l’ingiustizia della vita se finisce qui e così. Nell’età fatta per decidere per cosa mi gioco la vita, la morte li risvegliava con la sua cruda verità: anche se lo scopri io ti porto via tutto, quando dico io. I miei alunni erano arrabbiati, frustrati, abbandonati. A che serve impegnarsi, professore, se poi finisce così? Anche io covavo quel pensiero, ma contemporaneamente ero salvato da un altro, più profondo e meno emotivo. In fondo Sic non ha subito nessuna ingiustizia. La morte è un fatto della vita, non un’ingiustizia. Sic è morto facendo quello che amava. Se proprio si deve morire, non c’è modo migliore di morire. Se potessi scegliere la mia morte vorrei arrivasse all’improvviso mentre spiego il Paradiso di Dante: morì facendo ciò che amava. Mi sono scoperto libero, grazie al fatto che credo che la morte sia un passaggio non la fine, in my end is my beginning, ma allo stesso tempo non mi voglio perdere la vita e rifiuto Nietzsche che accusava i cristiani di disprezzare la vita, perché puntavano sull’aldilà. No, in my beginning is my end (nel mio inizio c’è la mia fine). Il paradiso c’è e lo voglio proprio perché amo la vita e la vita sa essere amabile.
I miei ragazzi avrebbero dato ragione a Cioran che a proposito della morte scriveva: «Non c’è un altro problema. Non ho fatto niente nella mia vita proprio perché ero al tempo stesso liberato e paralizzato da quel pensiero della morte. Non si può avere un mestiere quando si pensa alla morte, si può soltanto vivere come ho vissuto io, al margine di tutto, come un parassita». Mi permetto di dissentire. Proprio perché c’è la morte voglio vivere fino in fondo ogni secondo della mia vita per ciò e per chi amo. Se fossimo immortali, ci sveglieremmo la mattina e non ci scolleremmo dal letto, consolati dal pensiero di avere a disposizione tutto il tempo che vogliamo. Invece per fortuna la morte ci incalza, ci sfida a sconfiggerla amando, perché l’amore è l’unica forza forte come la morte e solo amando la morte diventa «nostra sora», come la definì un innamorato della Vita. Certo la morte paralizza chi non si aspetta da lei il dono più grande, quello della rinascita a una vita indistruttibile e da perenni innamorati.
Questo sconcertava me e i miei alunni: perché tutti questi sforzi, se poi finisce così. Però ho ribadito loro che proprio perché finisce così non possiamo rimanere paralizzati, è proprio il fatto che Sic fosse una promessa che mostra l’esistenza della vita eterna: nessuna promessa può rimanere incompiuta, nessun amore interrotto, nessuna passione spenta, nessun male non curato, nessuna ingiustizia non riparata.
Ma tutto si gioca nell’aldiqua, che può essere già paradiso. Un brano del Talmud dice: «Se stai piantando un albero e ti dicono che il Messia sta arrivando, prima finisci di piantare l’albero» e Charles Peguy racconta che un giorno Luigi Gonzaga stava giocando a palla con i suoi compagni di seminario. I superiori li interruppero e chiesero cosa avrebbero fatto se di lì a poco, venticinque minuti per l’esattezza, ci fosse stato il Giudizio. Tutti risposero che si sarebbero dedicati a qualche penitenza, preghiera, confessione... Luigi rispose: «Io continuerei a giocare a palla».
«Avvenire» del 31 ottobre 2011

Rete bucata. Se Facebook e Twitter limitano la democrazia

Falsi miti - Libertà e Oppressione al Tempo dei Social Network
di Evgenij Morozov
Ogni anno c'è chi propone di assegnare il Nobel per la pace a Internet, eppure sono numerosi i casi di dittatori che volgono a loro vantaggio i nuovi media
Malgrado l'aggravarsi della crisi finanziaria, accompagnata da una crescente sfiducia verso governi nazionali, banche e persino istituzioni internazionali quali l'Unione Europea, il 2011 sarà ricordato come un anno di grande euforia per Internet. Difatti, se c'è qualcosa che può risollevare l'umore dei politici in affanno, pungolati da criticità economiche in apparenza insolubili e dalla perenne instabilità del Medio Oriente, è proprio la presenza di blog e social network, che promettono di innescare cambiamenti democratici e rovesciare tiranni. Per il secondo anno consecutivo, Internet - e questo vale per tutti coloro che lavorano principalmente con Internet (ovvero blogger o attivisti digitali) - è stato proposto per il Premio Nobel per la pace, ed è possibile che lo ottenga il prossimo anno. Sarà dunque Internet il più giovane candidato della storia a essere insignito del Nobel?

Ma non ci scaldiamo con troppo anticipo. Occorre innanzitutto chiedersi se non stiamo forse sopravvalutando il potenziale di Internet come propagatore di democrazia e sottovalutando invece le sue possibilità di impiego a scopo repressivo. Non potrebbe darsi che la nostra ingenua fiducia nei suoi poteri liberatori ci distolga dall'affrontare le vie molto più subdole e sinistre con le quali si attenta alla libertà, proprio per mezzo di Internet? È davvero una buona idea affidare il futuro della libertà e della democrazia - e la posta in gioco è altissima, dato che Internet rappresenta oggi la nuova piazza pubblica - nelle mani di Google e di Facebook, due multinazionali che mirano ad abolire l'anonimato di Internet (perché rende impossibile la vendita degli spazi pubblicitari) e a scovare un sistema per monetizzare ogni nostro clic - e, ben presto, ogni nostro pensiero?

Esistono ottime ragioni per restare scettici quando si sente sbandierare da più parti che Internet avrebbe un influsso positivo sui regimi autocratici, a dispetto delle grandi conquiste messe a segno finora dalla Primavera araba. Che cosa ci conferma in realtà questo fenomeno? Certo, la risposta più ovvia è che la Primavera araba dimostra che bastano pochi attivisti coraggiosi e tecnologicamente esperti, armati di smartphone e di strumentazione Gps, per sconfiggere il più sanguinario dei dittatori. Ma questa resta una interpretazione assai superficiale dei drammatici avvenimenti degli ultimi mesi. Perché la Primavera araba ha svelato anche fino a che punto si spinge la complicità delle aziende occidentali, che non si sono fatte scrupolo di vendere sofisticati sistemi tecnologici di sorveglianza e censura ai regimi più odiosi del pianeta; ha smascherato quanto sono abili i governi autoritari a oscurare del tutto Internet, grazie a un semplice interruttore «kill-switch»; ha messo il dito sulle clausole legali di siti come Facebook, tanto aberranti quanto inefficaci, che hanno imposto ai dissidenti egiziani e tunisini di registrarsi con i loro veri nomi, anziché pseudonimi, per poter accedere ai servizi, pena la cancellazione dal sistema.

Certo, si potrebbe controbattere che tutto ciò non importa, dato che gli attivisti hanno riportato la vittoria. Non credo però che sia una posizione ragionevole da assumere, soprattutto se ci sta a cuore il futuro della democrazia. Persino i più sognatori tra i cyber-utopisti sarebbero d'accordo nell'affermare che la cacciata dei dittatori da Egitto e Tunisia non sia avvenuta grazie a qualche particolare strumento digitale, quanto piuttosto sia stata la conseguenza di un insieme di concomitanze favorevoli, a livello politico, sociale e culturale. La tecnologia ha svolto sì un importante ruolo di mobilitazione, ma solo perché l'atmosfera era già propizia al cambiamento. Se la situazione politica sul campo fosse stata diversa, non è tanto difficile immaginare che i dittatori in Egitto e Tunisia sarebbero rimasti saldamente in sella - a dispetto di tutto l'attivismo di Facebook e Twitter - per continuare a spargere altro sangue di attivisti, come accadde in Iran nel 2009. Il fallimento della Rivoluzione verde in Iran non fu causato dallo scarso utilizzo di Twitter - tantissima gente era scesa nelle strade e nelle piazze anche senza il suo richiamo - ma dalle astute manovre del regime di Ahmadinejad.

Ma anche se si venisse a sapere che Facebook e Twitter hanno davvero svolto un ruolo importante nel coordinare le proteste, non dovrebbe essere motivo di vanto. Sono convinto che se si giudica sotto una luce favorevole l'apporto digitale alla Primavera araba per il solo merito di aver mobilitato le masse, si rischia di adottare una visione assai semplicistica sia della politica che della storia. Ben poche sono le rivoluzioni che cessano nel momento stesso della cacciata del tiranno. Solitamente si protraggono per anni, se non decenni, quando le fazioni opposte entrano in competizione nel vuoto politico lasciato dalla dittatura. Pertanto, se ci preme capire a fondo quale sia stato l'impatto effettivo, non basta osservare semplicemente quante persone questi social network sono riusciti a convogliare nelle marce di protesta, proprio perché tali raduni e cortei contraddistinguono l'inizio - e non la fine - di una rivoluzione.

La mia diffidenza riguardo queste due piattaforme come veicolo di cambiamento politico non è radicata in qualche scetticismo luddista per la loro capacità di mobilizzare le masse. Ovvio, tanto Facebook quanto Twitter possono essere strumenti eccellenti per annunciare manifestazioni, raccogliere fondi, o postare link di video per denunciare la brutalità della repressione. Ma non dimentichiamo che la nostra vita politica non si esaurisce con queste tre uniche attività.

Pertanto, l'attivismo digitale non deve essere valutato esclusivamente in base all'efficacia con cui raggiunge gli scopi che si era prefissato. Piuttosto, proprio poiché produce ripercussioni ambientali nella più vasta cultura politica che lo genera, occorre giudicarne l'utilità in base alle aspirazioni, esigenze e direzioni più ampie.Basterà un esempio banale a chiarire questo punto: se i treni sono il mezzo più efficace per spostare la gente da A a B, esistono circostanze - pensate al vostro angolino preferito in campagna! - dove il frastuono, l'affollamento e gli inconvenienti che immancabilmente accompagnano il viaggio in treno potrebbero apparire fastidiosi, mentre gli spostamenti a piedi, in macchina o persino a cavallo rappresenterebbero una migliore alternativa. Esaltare la velocità o i bassi costi del viaggio in treno in tali circostanze significa scartare a priori le esigenze del contesto locale. Il mondo della tecnopolitica non è poi così diverso. Se vogliamo valutare correttamente l'impatto degli attivisti egiziani di Facebook sul processo democratico del paese, non è ammesso limitarsi a esaltare l'apparente successo delle proteste anti Mubarak. Occorre capire se le nuove strutture decentralizzate che emergeranno prima o poi da questa politica virtuale saranno in grado di contenere o contrastare gli elementi estremisti o pro Mubarak anche dopo il rovesciamento del regime, quando la politica si sposta dalle strade alla cabina elettorale.

Non vedo nulla di male se i gruppi politici costituiti si rivolgono a Internet per diffondere il loro credo. Ciò che mi mette a disagio è la nascita di nuovissime strutture decentralizzate che sfruttano tutti i benefici di Internet per raccogliere e mobilitare sostenitori, mentre affermano che non vi è alcuna necessità di trasformarsi in organizzazioni centralizzate, strutturate e organizzate per scendere a misurarsi nell'arena politica. Il partito di Facebook, senza alcuna guida specifica, sarà altrettanto capace di governare dopo la cacciata dei dittatori? Ho i miei dubbi. Lo scetticismo a questo riguardo mi deriva innanzitutto da una concezione disincantata della vita politica e della sua implicita incompatibilità con il decentramento, ma non solo. Nutro i miei dubbi anche riguardo le previsioni di ordine temporale avanzate dai miei critici: io credo che la rivoluzione in Egitto e in Tunisia sia ancora in corso e non si sia esaurita con il rovesciamento dei dittatori. È rivelatore il fatto che Wael Ghonim - la faccia della rivoluzione Facebook in Egitto - abbia deciso di fondare una Ong per combattere la povertà tramite la tecnologia, anziché lanciare un partito politico capace di misurarsi con la vecchia guardia.

Allo stesso tempo, dobbiamo tenere gli occhi ben aperti sulle strade infinite che i dittatori stessi hanno a disposizione in questo nuovo mondo wireless superconnesso. Internet è un potente strumento di scambio di informazioni, ma il totale controllo delle informazioni - ottenute tramite sofisticati sistemi di spionaggio o con la semplice tortura - è ciò che consente ai regimi totalitari di restare al potere. La Russia e la Cina sono due ottimi esempi di governi che sono riusciti ad addomesticare Internet per servirsene a loro esclusivo vantaggio. Ci sono blogger al soldo del regime che passano la giornata a diffondere propaganda pro governativa sui blog più popolari; si verificano misteriosi cyber attacchi che vanno a complicare la vita agli editori indipendenti e ai dissidenti; vengono introdotte forme avanzate di sorveglianza e spionaggio online che ricorrono a tecniche raffinate per infiltrare la rete e identificare gli utenti di Internet e i loro contatti: in Russia e in Cina, tutto questo fa parte della vita quotidiana.

A differenza di Mubarak in Egitto e di Ben Ali in Tunisia, i governi di Mosca e di Pechino (e, con qualche riserva, si potrebbe aggiungere anche Teheran) hanno afferrato l'importanza strategica di Internet, e per impedire ai loro cittadini di abbracciare Facebook e Twitter - che sfuggono al controllo delle autorità locali - hanno fatto di tutto per promuovere i loro campioni nazionali, tipo Baidu, Yandex e Vkontakte, che si rivelano molto più facili da manipolare e da oscurare non appena si avvertono, anche sul loro suolo, le prime avvisaglie di una Primavera araba.

Quale atteggiamento assumere, dunque, nei confronti di Internet? Se la cyber utopia si è rivelata un'ideologia troppo ingenua e costosa da propugnare, dovremmo allora rassegnarci ad abbracciare la cyber distopia e considerare Internet uno strumento malefico, il peggiore di tutti gli oppressori? No, sarebbe l'atteggiamento sbagliato, ma sono fermamente convinto che porre la questione in termini di «Internet è propagatore di democrazia?» non ci condurrà da nessuna parte. Affermare che «Internet propaga la democrazia» non offre alcuna consolazione ai cittadini di stati autoritari, dove i governi, che stringono saldamente in pugno le leve del potere, ricorrono a Internet per propinare al loro popolo falsa propaganda, controllare ogni tweet e terrorizzare le Ong dissidenti con attacchi informatici. Tuttavia, affermare che «Internet propaga la dittatura» significa altresì privare di ogni speranza quegli stessi cittadini, se si considera che i regimi autoritari non durano in eterno, e che è possibile intercettare qualche raro momento di instabilità - talvolta con l'aiuto di Internet - per reclamare il cambiamento. Aderire esclusivamente a questo o a quel polo della dicotomia altro non fa che infondere in tutti noi - e specie nei politici - un falso senso di dominio intellettuale su Internet. Questa posizione imbriglia le nostre facoltà cognitive in un'ideologia che tende a semplificare arbitrariamente la visione del mondo e ci spinge a decidere tra scelte opposte non in base ai loro meriti intrinsechi, ma solo se corrispondono ai nostri preconcetti sul mondo, che potrà apparirci un nirvana cyber utopico oppure un inferno cyber distopico.

Nonostante tutto, sono convinto che sarebbe meglio affermare che Internet non propaga la democrazia, aggiungendo in una nota a piè di pagina che ciò non equivale a dire che promuove invece la dittatura. Restare agnostici sugli effetti politici della Rete - conservando la più totale trasparenza - rappresenta l'unica strada per capire Internet in termini che non siano del tutto avulsi da esseri umani, governi, ideologia, potere, contaminazioni e, soprattutto, politica. Internet non va da nessuna parte: è qui con noi e ci resterà. Adesso è il momento giusto per decidere se dovrà evolvere per favorire i dittatori - con l'aiuto delle aziende della Silicon Valley - o se non sia possibile invece arginare il suo potenziale repressivo per espandere quello liberatorio. Coltivare una certa ingenuità nei confronti della Rete, sotto forma di utopia e distopia, non ci porterà molto lontano, se siamo seriamente intenzionati a trasformarla in una preziosa alleata per tutti coloro che hanno a cuore il futuro della democrazia e della libertà. In altre parole, se è sicuramente dannoso sminuire l'importanza di Internet, promuoverla acriticamente potrebbe rivelarsi altrettanto controproducente.
(traduzione di Rita Baldassarre)
«Corriere della Sera» del 30 ottobre 2011

26 ottobre 2011

Fermate lo scempio in tv

Il video della fine di Gheddafi: troppe volte e con troppo compiacimento
di Umberto Folena
Una due, tre, tante volte. Troppe. Gli ultimi istanti di Gheddafi tracimano dai canali tv e inondano il web. Il volto è di un moribondo prima e di un morto poi. Il sangue è il suo sangue. I libici che si affollano e gli danzano attorno non sono attori. Anzi sì, ma non professionisti. Come tutti: una telecamera con la lucina rossa del record, o un videofonino puntato, sono un richiamo irresistibile davanti al quale esibirsi. Anche il più incolto e illetterato intuisce, in quell’attimo, di far parte della storia. E non si tira indietro.
Una, due, tre, infinite volte. Quando la misura è colma? Forse quando un sussulto etico, o un residuo di pietas, suggeriscono che è ora di smettere? No. La parola fine verrà proclamata dall’implacabile curva dell’audience che comincia a scivolare all’ingiù. Diritto di cronaca? Dovere di mostrare "la verità"? Tremebonde foglie di fico. Quando hai esibito lo scempio del rais una volta – avvisando il pubblico di ciò che sta per aggredirlo sul video e dandogli il tempo e la libertà di cambiar canale – la seconda non è già più cronaca e nulla aggiunge all’informazione, ma è spettacolo. È puro e furbo show acchiappa-pubblico. E chi rimane accalappiato non è quasi mai l’amante perverso del sangue, né un media-sadico. Molto spesso è una persona normale fatalmente ipnotizzata dall’orrore: non lo cerca, ma se glielo sbattono in faccia non sa sottrarre lo sguardo. I Mot (Masters of television) lo sanno e se ne approfittano. E l’eccezione di Tv2000, e dei pochissimi altri che possano esserci sfuggiti, non basta a rincuorarci.
Evidentemente l’orrore di piazzale Loreto non ci basta né ci ha insegnato nulla. Recidivi e cinici. Così la tv italiana ha perso la sua guerra di Libia.
«Avvenire» del 22 ottobre 2011

La Statua della Libertà, una «dea» laica

di Franco Cardini
Tutti conoscono la Statua della Libertà, il monumentale colosso che, alto sulla roccia appunto conosciuta come Liberty Island, domina la baia di New York annunziando da lontano ai naviganti, originariamente addirittura con la luce della fiaccola-faro che tiene alta col braccio destro, ch’essi stanno finalmente per giungere nella terra d’ogni libertà. Si tratta di una sagoma in acciaio rivestita di 300 làmine sagomate di rame, alta 46 metri e poggiante su una base quadrata di 47 metri di granito sardo, per un totale di 93 metri d’altezza.
Le sue impressionanti dimensioni consentono di avvistarla già a 40 chilometri di distanza. Il modello concettuale dell’opera è ovviamente il Colosso di Rodi, vale a dire l’immensa statua-faro raffigurante il dio Apollo che nell’antichità dominava il porto dell’isola di Rodi e ch’era ritenuta una delle sette Meraviglie del mondo.
La sua concezione simbolica è ispirata a un semplice, elementare classicismo il messaggio del quale è comprensibile a tutti. Fasciata in un semplice peplo greco, cinta di una “corona radiale” che rinvia a una delle antiche corone imperiali, quella che indicava il carattere solare del potere (i raggi solari che la costituiscono sono sette, come le virtù teologali e cardinali), la severa figura muliebre ritratta rappresenta la Libertà che con la sua face luminosa illumina il mondo mentre, col braccio destro, sorregge le due tavole mosaiche della Legge le quali recano la fatidica data del 4 luglio 1776, il giorno della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Se la forma delle tavole rimanda alla tradizione mosaica, quindi biblica, la statua appare ispirata nel suo complesso alla cultura classica, quindi illuministico-massonica.
D’altro canto, lo stesso rinvio alla simbolica mosaica è patrimonio più perspicuo del mondo massonico che non di quello cristiano in quanto erede dell’ebraismo, che pur si potrebbe ritenere oggetto di un’implicita allusione. Ai piedi della Libertà giacciono la catene spezzate, simbolo del potere tirannico del re d’Inghilterra dal quale i coloni statunitensi si affrancarono con la ribellione armata. La statua ebbe naturalmente, al pari del resto della nazione statunitense - si pensi al Lafayette -, genitori francesi. Era stata difatti ideata da Édouard René de Laboulaye e costruita a Parigi su progetto di Frédéric Auguste Bartholdi - che per i sembianti della “Dea Libertà” s’ispirò forse alla statua della Libertà dell’ispirazione poetica che aveva visto nella fiorentina chiesa di Santa Croce, sul monumento funebre di Giovan Battista Nicolini opera dello scultore fiorentino Pio Fedi. Altri ritengono invece l’opera ispiratrice sia una statua marmorea di Camillo Pacetti, “la Legge Nuova”, che nel 1810 fu collocata a sinistra, sulla balconata sovrastante il portale maggiore del Duomo di Milano.
Comunque, la Statua della Libertà dovette la sua concezione e il suo prestigio soprattutto all’attento coordinamento dell’ingegner Gustave Eiffel, lo stesso della torre di ferro destinata a celebrare le glorie della scienza, della tecnica, del progresso e delle energie umane. Fu in effetti la repubblica francese a donare agli amici Stati Uniti, quel singolare monumento, smontato in 1883 casse. Per far loro passare l’oceano, furono necessari molti viaggi di una nave peraltro di stazza modesta: e la statua, che avrebbe dovuto esser pronta per il centenario della Dichiarazione d’Indipendenza, nel 1876, fu inaugurata solo dieci anni più tardi.
Ancora una quarantina d’anni dopo, nel 1924, il colosso - ormai divenuto un simbolo di speranza per tanti emigranti fu dichiarato monumento nazionale: la costruzione e la sistemazione erano state portate avanti grazie a un’entusiastica raccolta di fondi. Una poesia ad esso dedicata da Emma Lazarus, The New Colossus, recita fra l’altro: «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata».
Il protomodello della statua, in scala ridotta (11,50 metri), fu costruito nel 1870. È tuttora a Parigi, sulla Senna, vicino al ponte Grenelle sull’Île aux Cygnes, un’isola sulla Senna, nelle vicinanze del vecchio laboratorio di Bartholdi: tutti lo ricordano in quanto teatro della scena-madre di un film di Roman Polanski, Frantic. Donato alla città il 15 novembre 1889, guarda verso l’Oceano Atlantico, verso la sua “sorella maggiore” ch’era stata eretta tre anni prima. I restauri del 1986 condussero alla completa placcatura in oro zecchino della nuova fiaccola, mentre la vecchia venne rimossa. La statua vanta numerose repliche monumentali: da Parigi a Tokyo a Las Vegas a Colmar.
La Statua della Libertà è ormai un po’ parte di tutti noi. Ha perfino, involontariamente, influenzato il nostro linguaggio. Il 28 ottobre del 1886, quando fu inaugurata a New York, ne furono distribuite tra il pubblico in souvenir delle miniature fabbricate dalla società francese Gaget Gauthier. Ma per gli americani, pronunziare correttamente il cognome Gaget era impossibile: nacque così il gadget.
L’amiamo anche noi europei, quindi, quel colosso che per tanti dei nostri vecchi è stato un simbolo di speranza e riscatto. Ciò non deve d’altronde, sotto il profilo propriamente simbologico, far abbassare la guardia a quei cattolici che giustamente, nell’odierno tempo di progressiva perdita di valori identitari, sono preoccupati di mantenere o di recuperare la loro tradizione e il loro specifico linguaggio.
La Statua della Libertà, al pari della piramidale Tour Eiffel - la piramide-obelisco del Progresso che sfida il cielo - è un oggetto di culto della “religione civica” che si esprime tanto spesso - almeno dalla Rivoluzione francese in poi - attraverso una simbolica neopagana. La Libertà, come la Ragione, la Patria e la Natura, sono “donne” che si possono raffigurare come “dee”: e che sovente assumono forme che rinviano all’archetipo della Magna Mater - ad esempio quell’Iside molti caratteri della quale, peraltro, sono stati assorbiti anche nel mondo cristiano dal culto di Maria - o a quello della saggia e guerriera Athena.
«Avvenire» del 24 ottobre 2011

E il videogame salvò i giovani

di Luca Gallesi
​Brutte notizie per i genitori e gli educatori che si sforzano di tenere i ragazzi lontano dai computer: sembra che le ore passate a giocare davanti allo schermo non solo non siano dannose, ma che addirittura favoriscano la diminuzione dei reati giovanili.
Secondo i dati di un recente studio del “Centre for European Economic Research”, infatti, la considerevole diminuzione dei reati compiuti negli Usa nell’ultima decade - e parliamo della metà di quelli compiuti negli anni ’90 - è proprio merito dei videogiochi, che hanno tenuto lontano dalla strada, e quindi dal crimine, molti potenziali delinquenti, che si sono limitati a compiere tali reati solo nei giochi virtuali, davanti alla tv e senza alcuna conseguenza penale: al massimo si perde e bisogna ricominciare il gioco daccapo.
Certo, sono dati da prendere con cautela, e soprattutto vanno inseriti in un contesto, quello statunitense, che è assai diverso da quello europeo in generale e quello italiano in particolare, ma sembra che la tendenza globale vada in quella direzione, come dimostra un altro luogo comune sfatato: di solito, chi passa ore a giocare davanti al computer è considerato una persona poco socievole, con degli insuperabili problemi di relazione, quello che in inglese si chiama un nerd. Ebbene, pare che, almeno negli Usa, sia vero esattamente il contrario: Jane McGonigal, autorevole media-guru e apprezzata game-designer, ha appena pubblicato La realtà in gioco (Apogeo), un ponderoso saggio che dimostra come i giochi possano essere utilizzati per accrescere il nostro benessere aumentando il tasso di socialità - e socievolezza - dei giocatori.
L’autrice parte da lontano, addirittura da Erodoto, per dimostrare che i giochi migliorano la qualità della vita, come accadde ai Lidi quando, secondo lo storico greco, inventarono il gioco dei dadi per sopravvivere a una lunghissima carestia, alternando i giorni dedicati al cibo e quelli in cui si sfidavano con attività ludiche, che gli permisero di affrontare con successo i problemi reali. Oggi non è più la fame, ma la noia, l’angoscia, la solitudine o la depressione a rendere triste l’esistenza di molti individui, che nei giochi possono trovare sollievo o addirittura una soluzione alle loro difficoltà senza fuggire dalla realtà ma affrontandola con successo. Questo è il punto di maggiore interesse del libro, che non si limita a teorizzare possibili scappatoie virtuali per lenire il disagio della realtà, ma propone un approccio diverso al mondo dei videogiochi, che lungi dall’estraniarci dalla realtà, potrebbero insegnarci ad affrontarla con maggiori probabilità di successo.
Al rafforzamento delle virtù individuali, sempre secondo la studiosa americana, i videogiochi possono affiancare lo sviluppo di sensibilità sociali, come nel caso di The Extraordinaries o World without Oil, che invitano i giocatori - che sono tantissimi in tutto il mondo, a partecipare al mondo del microvolontariato, o a esplorare possibili alternative energetiche ai combustibili fossili.
The Extraordinaries è un’applicazione web, utilizzabile anche dai cellulari di ultima generazione, che permette a chiunque di far del bene, e non solo virtualmente: infatti si può, in un paio di minuti, aiutare una reale organizzazione no profit a raggiungere i suoi obiettivi, trasformati in una specie di caccia al tesoro tanto appassionante quanto effettivamente utile.
World without Oil, invece, immagina che, nel mondo reale, il petrolio stia esaurendosi; i giocatori, per sopravvivere, devono scambiarsi informazioni inventando soluzioni ai problemi di tutti i giorni, dalle inevitabili difficoltà nei trasporti alle probabili insurrezioni rivoluzionarie. Finanziato dalla “Corporation for Public Broadcasting”, il gioco ha immediatamente suscitato la curiosità di migliaia di giocatori, che hanno esplorato le più originali alternative, dalla coltivazione della propria verdura sui terrazzi dei condomini trasformati in orti alla diffusione di nuovi velocipedi, fino a enfatizzare quelle piccole attenzioni che possono cambiare le abitudini quotidiane come l’uso di borse di tela per fare la spesa o una maggiore, quasi maniacale cautela nell’evitare gli sprechi aumentando il riciclo.
Certo, si tratta di giochi la cui partecipazione non vanta i numeri del fantasy game World of Warcraft, che ha 13.000.000 (tredici milioni) di iscritti pronti a uccidere orde di nemici con armi e sortilegi, ma in futuro, forse anche in Europa, le cose potrebbero cambiare: il gioco è una cosa dannatamente seria.
«Avvenire» del 26 ottobre 2011

La prova dell'esistenza di Dio? Viene da Nietzsche

di Letizia Tortello
“È una vecchia diceria che esista un essere nella nostra lingua chiamato "Dio". Una diceria immortale, che non riusciamo in nessun modo a mettere a tacere». Chi parla (nei chiari toni della provocazione) non è un ateo e neppure un nichilista. È il filosofo Robert Spaemann, uno dei massimi pensatori tedeschi viventi, ospite questa settimana del X ciclo di seminari della Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino. Domani alle 18, presso il Circolo dei Lettori, terrà una lectio intitolata «Che cosa rende persone le persone?», e intanto arriva in libreria, edito da Lindau, il suo libro Tre lezioni sulla dignità umana.

Ottantaquattrenne dall’energia intellettuale inesauribile, nato a Berlino, compagno di ricerche di papa Benedetto XVI, Spaemann è autore di una dimostrazione di Dio «alle condizioni della vita moderna». Una tesi che muove da presupposti nietzscheani. Nel disorientamento del tempo presente, in cui laicità, religione ed etica sembrano sempre più universi lontanissimi tra loro, lui ribalta la «filosofia del martello». Fino al paradosso: «Dio è il fondamento e non si può che pensarlo così». Ma chi ha contribuito a preparare il terreno per questa nuova prova dell’esistenza di Dio è proprio il filosofo dello Zarathustra, che ne teorizzò la morte.

Professore, lei ha definito il suo argomento sull’esistenza di Dio come una tesi «Nietzsche-resistente». Che cosa significa?
«Contrariamente a quanto si crede, Nietzsche è il migliore teorizzatore del legame tra Dio, l’esistenza e la verità. Negare Dio equivale a dire che si nega la verità. Nella visione nietzscheana, gli uomini si limitano a conoscere i propri stati d’animo soggettivi. Ma se ci basiamo sull’identificazione tra il mondo e la sua rappresentazione, le rappresentazioni non coincideranno mai. Un esempio: poniamo che io abbia mal di testa, lei potrebbe dirmi che non è vero, perché il mal di testa lo sento solo io. Ma come ho scritto in un mio libro, se vogliamo essere reali dobbiamo rimanere attaccati all’esistenza di Dio, che è il garante dello spazio della verità, entro il quale il soggetto può recuperare la propria identità oltre l’autocoscienza istantanea».

Nietzsche non si è solo limitato a congedarsi da Dio, ha anche creato il Superuomo, un essere portatore di nuovi valori, fedele alla terra e non più al cielo. Come è stata possibile questa sostituzione?
«Il Superuomo ha accantonato la verità, a esistere sono solamente le interpretazioni del mondo. Ma l’Übermensch è pura fantasia».

Oggi però il mondo sembra dare ragione a Nietzsche. Sembra poter fare a meno di Dio.
«Gli uomini hanno dimostrato di non volere il Superuomo, bensì l’Ultimo uomo, quello che crede che la felicità sia divertimento, una vita piena di comodità, in cui si consumano le droghe. Ma io dico che ogni sostituto di Dio abbassa l’uomo. È la definizione di Dio l’essere insostituibile».

In un discorso del 2005 a Subiaco, quand’era cardinale, Ratzinger aveva lanciato una proposta paradossale: «Vivere come se Dio fosse». Non solo una scommessa, come diceva Pascal, ma una necessità, dice lei.
«Anche qui partirò da un esempio, per spiegare come gli uomini credono a molte verità, ne discutono e ci litigano. In realtà, la verità è una sola e non si basa sulla reciprocità. Parlavo prima del mio ipotetico dolore, non condiviso da lei. L’uomo è capace di verità perché senza di essa, intesa oggettivamente, non si riesce a rendere ragione dell’esperienza. Al fondamento di questa garanzia c’è Dio».

Lei si è più volte espresso sui temi della bioetica. Cosa pensa della recente sentenza della Corte di Giustizia europea che ha vietato la brevettabilità dei farmaci derivanti dalla ricerca su embrioni?
«Deve essere impedito dalle leggi quel progresso che si serve di esperimenti sugli esseri viventi, a partire dagli animali. Sono sperimentazioni criminali, paragonabili a quelle condotte nei campi di concentramento. La scienza non è il valore più alto».
«La Stampa» del 25 ottobre 2011

Supercittà, energia, povertà ecco le sfide per il pianeta

È già partito il conto alla rovescia per il neonato numero sette miliardi
di Gianni Riotta
L'Europa che invecchia e la Cina senza donne saranno le nuove emergenze
Nelle locandine degli spettacoli, temendo gelosie, si elencano le star «in ordine di apparizione». Per calcolare il vostro ordine di apparizione sul pianeta Terra, nel cast di 7 miliardi di esseri umani che le Nazioni Unite prevedono in arrivo per il 31 ottobre 2011, cliccate sul sito bit.ly nbwTkb, inserite la data di nascita e saprete il vostro posto nello show umano. Un nato l’1 gennaio 1920 ha il numero 1.859.068.335, una nata l’1 gennaio 1960 il 3.036.562.402 e due gemellini venuti alla luce nel Capodanno 2000 rispettivamente il 6.087.198.811 e 812.
Per secoli l’homo sapiens è cresciuto pochissimo, la curva della popolazione da Gesù alla fine del mondo narrata dal monaco Rodolfo il Glabro nell’anno 1000, è stabile. Per arrivare a un miliardo, nel 1800, abbiamo impiegato 250 mila anni. La vera crescita comincia con la rivoluzione industriale, nel 1913 l’Europa aveva più abitanti della Cina e, con gli Stati Uniti, ospitava un umano su tre. Il cittadino “6 miliardi” si chiama Adnan Nevic, ha 12 anni, nato il 12 ottobre 1999 a Sarajevo, nella Bosnia insanguinata: e vedremo che scelta simbolica sarà fatta stavolta dall’Onu. Per rispettare la realtà, Sorella 7 miliardi (nascono più donne che uomini) dovrebbe atterrare con la cicogna in una grande città dell’Africa, Lagos, il Cairo: là il mondo continua a crescere.
Vi annunceranno nei prossimi giorni l’Apocalisse sovraffollamento. Non fate attenzione, la crescita rallenta e il problema non è «Siamo troppi», né la subdola affermazione che questa fobia nasconde, cioè «Sono troppi questi poveri!». Il pianeta ha risorse e spazio, i guai non vengono dalla popolazione ma dalla sua distribuzione ed età. Fosco, il filosofo Malthus calcolava che dalla fine del 700 non avremmo avuto più di che sfamarci. Ha sbagliato per pessimismo, come il Club di Roma di Aurelio Peccei nel 1972 e l’economista Paul Ehrlich con il libro-allarme «The Population Bomb», 1980. Aumento della produttività nei campi, nuove tecniche sanitarie e sociali ci hanno permesso, secondo l’auspicio biblico, di «crescere e moltiplicarci» e ora nel mondo si fanno meno figli, forse troppo pochi.
Nel 2050 Europa, Usa e Canada non avranno che 12 abitanti su cento, la metà del 1800. Ma chi pensa alla Cina come alla Grande Fabbrica Esseri Umani, sbaglia. La tragica politica «un figlio per famiglia» fa sì che la popolazione cinese declini senza rimedi. Nel 2025 ci saranno 96,5 milioni di cinesi maschi tra 20 e 30 anni, con solo 80,3 milioni di donne della stessa età: troppe famiglie hanno abortito bambine sognando l’erede maschio. Nel 2050 l’America, cui gli ispanici garantiscono buona natalità, avrà più lavoratori della Cina: la corsa di Pechino è «Arricchiamoci prima di invecchiare». Dati, purtroppo, su cui pochi meditano. La fertilità del mondo scende.
Saremo 8 miliardi nel 2025 e ci saranno voluti 14 anni per arrivarci. È la prima volta nella storia che l’intervallo tra un miliardo e l’altro di umani aumenta, non diminuisce. Nel 1970 la fertilità media delle donne era 4,45 bambini a testa, oggi è dimezzata a 2,45. Nel 2050 - ha calcolato il demografo Jack Goldstone per la Fondazione Nardini - saremo 9 miliardi e 150 milioni, cifra che non crescerà. Fanno meno figli le donne occidentali, lievi aumenti in Francia e Svezia per ottime politiche familiari che però costeranno troppo nella crisi.
A ridurre le nascite non è tanto la pianificazione, i cui risultati non sono sempre coerenti con le intenzioni. Sono scuola, sanità, benessere: donne che sanno leggere, lavorano e fanno una vita decente, come è capitato a miliardi tra Cina, India e America Latina dal 1980, scelgono meno gravidanze. I problemi della Generazione 7 miliardi non sono quindi di numero. Sono sociali, energetici, militari. Saranno i poveri a fare più bambini, l’intera crescita dell’umanità da qui al 2050 sarà nei 24 Paesi più arretrati (fonte World Bank). Nel Sud del Sahara c’è una fertilità «antica», 4,64 bambini a donna. Nei prossimi 40 anni cresceremo di «soli» 2.300 milioni, la metà in Africa.
A Capodanno 2050, stima Fondazione Nardini, per 720 milioni di europei ci saranno 2 miliardi di africani. In certe aree dell’Italia del Nord ospiteremo un emigrante ogni tre persone. Il Giappone sarà il paese più vecchio della storia, l’Italia seguirà da vicino, l’Europa diventerà un continente di capelli bianchi con pochi lavoratori, e pagare le spese mediche della generazione baby-boom (1946-1964) preoccuperà i prossimi quattro presidenti Usa. Come nutrire, istruire e far lavorare i poveri resta il dilemma. Ma anche qui non seguite gli slogan. Il mondo che inquina non fa figli, e i 24 Paesi non sviluppati che affollano le culle producono solo il 7% di gas serra. Il caos possibile viene dal luogo in cui gli umani si stabiliranno. Per la prima volta dai tempi delle «Bucoliche» di Virgilio viviamo più in città che in campagna.
Le periferie delle megalopoli, tetti di lamiera ondulata, poche fognature, scuole, servizi, raccoglieranno le nascite. Tre miliardi di persone emigreranno verso i ghetti urbani nei prossimi 40 anni, e già la Cina soffre nel controllare l’ondata. Terrorismo, criminalità, disagi saranno comuni nelle Supercittà, Mumbai, Mexico City, New Delhi, Shangai, Calcutta, Karachi, Cairo, Manila, Lagos, Giacarta. Se rilanciamo la ricerca in agricoltura (il Center for Food and Nutrition creato da Guido Barilla sta lavorando in questo senso), se non smettiamo di lavorare a nuove fonti energetiche, se regoliamo le emissioni con raziocinio, se Cina, India e Usa evitano la guerra, se l’Europa non si lascia andare all’inerzia e la crisi economica si attenua, non ci sarà la tragedia nascite. I pericoli, avrebbe detto la saggia Agatha Christie «vengono dalla natura umana», non dalla sua diffusione. E per ora, quindi, che Dio benedica anche te, bebé 7.000.000.000.
«La Stampa del 26 ottobre 2011

18 ottobre 2011

Andrea Zanzotto (1921 - 2011)

Ho sentito la poesia crescere come il corpo, diventava qualcosa di intimamente attivo. Cominciai a 7 anni
di Paolo Di Stefano
Sorprende trovare Andrea Zanzotto seduto al tavolo della cucina con un pennello in mano e un foglio colorato ad acquerello. Ha un sorriso degli occhi, dolce e stanco. Per raggiungere il divano, a piccoli passi, deve farsi aiutare da suo figlio Fabio, che abita qui con lui, nella vecchia casa di Pieve di Soligo, a Nord di Treviso, il paese in cui il maggior poeta italiano della generazione post-Montale è nato nel 1921 e da cui si è allontanato solo per brevi periodi. Ci sono ricordi che allontanano la tristezza e altri che la rendono più aspra. «Dipende anche dal tempo atmosferico. Per esempio, oggi c'è un bel sole... e ricordare è più piacere che dolore. Ci sono stati periodi terribili, ma la memoria volentieri ti porta a momenti non dirò belli ma almeno sopportabili».
Non è sopportabile il ricordo di papà Giovanni, decoratore e pittore il cui nome è diventato una via di Pieve, socialista e cattolico, costretto ad allontanarsi per le continue minacce squadriste dopo aver lodato pubblicamente Matteotti: «I miei genitori hanno patito a lungo, perché mio padre era perseguitato politico, qui gli negavano l'impiego e dovette trascorrere lunghi periodi in Francia.
Poi trovò lavoro a Santo Stefano di Cadore, grazie a una tradizione di libertà che non teneva conto dei divieti. Papà affrontava i nemici, ma aveva una moglie malata e cinque figli». Il ricordo più fastidioso, oltre all'allergia e all'asma rivelatesi prestissimo, è vicino a quegli anni: «Non aver potuto prender parte con maggiore peso alla resistenza locale». Zanzotto partecipò alla stesura di manifesti e fogli informativi della resistenza e nell'agosto del '44 dovette rifugiarsi in montagna mentre Pieve bruciava. Tra i ricordi non sopportabili c'è anche il dolore e la solitudine di mamma Carmela: «È sempre stata occupata da eventi luttuosi». Tra i ricordi insopportabili ci sono i lutti precoci: la morte a sei anni della sorella Marina (gemella di Angela) nel terribile inverno del '29 e poi nel '37 la morte per tifo di Angela: «Deve esserci una vecchia fotografia con le due sorelline a Santo Stefano...». Zanzotto racconta di aver scritto un biglietto alla Madonna perché resuscitasse Marina: «Cercavo appoggio... Avere vissuto cose dolorosissime da piccolo ha influito sul resto della mia vita, rimane una traccia profonda. Io ero il primogenito e cominciai a esercitare sulle due gemelline una specie di protettorato. Un giorno ci hanno portati da certi parenti di Montebelluna per fare conoscenza, anche loro avevano due gemelle. Io avrò avuto 3 o 4 anni e mi esortarono a lodare le due bambine degli ospiti, io invece dissi che erano brutte, avevano gli occhi bigi, a differenza delle mie sorelline che avevano dei begli occhi neri».
Si avvicina una signora straniera: «La pastiglia, Professore...». Zanzotto ingoia una pastiglia con mezzo bicchiere d'acqua, mentre accarezza Utto2, un gattone nero che dal divano con un salto si è spostato sulle sue gambe. «Utto viene da farabutto. Ho conservato la tradizione del gatto, da piccolo avevo dei gattini, ma morivano anche quelli... Ne ho perso uno di recente, collegato ad altri tempi. Stento anche a ricordare i particolari del passato, perché ho come dei vuoti di memoria, ma c'è un fondo cupo sull'infanzia. Con la morte delle mie sorelle restava un sottofondo triste, anche quando non avevo proprio quel pensiero lì. La poesia mi ha aiutato sempre più, l'ho sentita crescere come il corpo, diventava qualcosa di intimamente attivo, anche perché riuscii abbastanza presto a scrivere delle cose decenti». Aveva più o meno 7 anni, Zanzotto, quando cominciò a scrivere versi: «La ricerca letteraria è come una sorgente che viene avanti e si impone sopra tutto il resto, e con la famiglia non posso dire che sia stata proprio una frizione... Non sono stato un padre distratto, ma nemmeno assorbito. I miei due figli sono cresciuti bravi e indipendenti». Tra i ricordi «sopportabili» c'è, nel '50, il premio San Babila per gli inediti, 100 mila lire. In giuria Montale, Ungaretti Quasimodo. «Ho comprato una Lambretta, che costava 115 mila lire. Quando mi videro arrivare a casa, nella Cal Santa, dove c'erano tutti i vecchi, è stato un momento importante, proprio. Una mia vicina di 80 anni mi pregò di farle fare un giro in lambretta». La voce flebile di Zanzotto, che sembra masticare le lunghe pause tra una frase e l'altra, si inarca in un sorriso. «La soddisfeci».
Più che sopportabile è il ricordo di tre figure femminili dell'infanzia. La nonna paterna: «Pregavo perché potessi morire prima e non dopo la morte di lei. Sono divagazioni lugubri e comiche nello stesso tempo. Le perdite convivevano con l'affetto che la nonna mi dimostrava, e appena potevo mi rifugiavo da lei che mi accontentava in tutto». Zia Maria, che avvia il piccolo Andrea alla lettura di settimanali e giornaletti: «Aveva un estro letterario e artistico, scriveva poesiole, fumava col bocchino e siccome mamma era molto timorata e ne pensava molto male. Era impiegata da un notaio, aveva un'istruzione di scuola inferiore, la sera andava in giro per scrivere lettere e le offrivano da bere. "Signora Maria, un goto?". Purtroppo finì per prendere l'abitudine del bicchiere». Terza presenza femminile è una direttrice didattica veneziana fiera di quello scolaro fuori dalla norma: «Mi aveva preso sotto la sua protezione e mi indicava a esempio di fronte agli altri, specialmente in geografia. Il colpo mancino che annullava tutti era l'enumerazione degli Stati Uniti, che allora erano 48».
Quel «titanismo esistenziale e cosmico» che Franco Fortini intravide subito nella poesia di Zanzotto ha sempre avuto qualcosa di religioso o di sacro: «Non ho mai avuto un distacco dalla religione infantile... Anzi, pian piano quella dimensione veniva sentita come necessaria, soprattutto per vincere i dolori della vita». E ci riusciva? «Sì». Forse anche per questo Zanzotto ha conservato l'abitudine di recitare il Requiem prima di dormire: «Un modo per rivolgere un pensiero ai miei morti». La morte è un pensiero più forte a quest'età? «In passato ho avuto parecchi momenti di angosce, però a un certo punto ci si rassegna. Diciamo che c'è un avvicinamento naturale all'idea. Ormai ho un'età in cui non c'è giornata che non porti la notizia della morte di un amico, e quindi... L'altra mattina Timoteo. Ogni giorno si può dire che qualcuno manca all'appello». All'appello mancano anche i grandi maestri del passato: Montale («quando venne a Pieve, vide mia moglie, che era preside e disse: ai miei tempi i presidi non erano così carini...»), Ungaretti («un uomo di straordinaria generosità»), Fellini, che gli chiese di scrivere per diversi suoi film, a partire da Casanova («è morto troppo presto, direi che aveva quell'ossessione della morte...»).
Utto è tornato ad accucciarsi sul divano. Sono passati tanti anni da quando nelle campagne si sentiva recitare il «filò», a cui il poeta ha dedicato un omonimo, memorabile, poemetto dialettale: «Il filò era un rito importante totalmente scomparso: nelle stalle si riunivano i contadini, e ognuno raccontava una storiella che conosceva. Era un insieme di conoscenze che sono state perdute e che invano qualcuno tenta di restaurare. Mi ricordo, non sono tanti anni, che mi meravigliavo di come potessero creare un partito rivendicando la forza del parlato dialettale senza nessuna base teorica. Per esempio, il rito di Bossi che va alle sorgenti del Piave... Si cominciava a degenerare. Sono equivoci storici. Per esempio, tutto il periodo del Medioevo avanzato in cui cresceva la nuova lingua italiana insieme con i vari dialetti non è stato capito. Ho scritto in dialetto molto presto, ma ho criticato la Lega perché non conosceva la realtà complessa dei dialetti, come nascano, fioriscano e sfioriscano».
Si sa, per Zanzotto è angoscioso anche il mutamento radicale del suo paesaggio. Angoscia e rabbia fotografate nel titolo di un magnifico libro-conversazione con Marzio Breda, In questo progresso scorsoio, uscito un paio d'anni fa da Garzanti. «Il paesaggio qua era qualcosa di compatto, quella stradina che si partiva dalle vicinanze della chiesa e andava al cimitero era un luogo molto rispettato... Mio padre, come pittore, ha decorato di immagini sacre quel porticato. Ora è un disastro, c'è stato uno snaturamento, hanno dato perfino il benestare a creare un deposito di gas che proviene dalla Russia». Marisa, sua moglie, si agita, va e viene, non sta nella pelle: «Parlano delle cattiverie di Zanzotto, perché ha difeso l'unico pezzo verde nell'ansa del Soligo. Andrea dovrebbe pubblicare gli insulti che ha ricevuto dal suo paese». Zanzotto alza gli occhi al cielo: «È diventato tutto incontrollabile, d'altra parte se si pensa agli allagamenti recenti in Veneto... che spavento, proprio!». Espressione di ribrezzo. «Pieve ormai è una piccola Los Angeles. Ci sono limiti realmente invalicabili, ma finché uno non è dentro il caos non se ne rende conto. Il rinsavimento, se avverrà, sarà formato di singulti. D'altra parte, l'altra sera in Tv parlavano degli antichi Maja che prevedevano nel 2012 la fine del mondo: se è così, vale la pena accettare quel che succede». Dall'ultima lunga pausa, sgorga un motivetto allegro, quasi cantato come una filastrocca infantile: «Comunque, se oggi seren non è doman seren sarà, se non sarà seren si rasserenerà».
«Corriere della Sera» del 28 marzo 2011

16 ottobre 2011

Ripensare l'umanenismo. È giusto che legioni di studenti si iscrivano a Lettere?

di Claudio Giunta
Dato che le facoltà umanistiche offrono pochi sbocchi lavorativi, sarebbe il caso che alle facoltà umanistiche si iscrivessero in pochi, e non in tantissimi come succede oggi. Questo è più o meno tutto ciò che c'è da dire sull'argomento, se non fosse che questa ragionevole conclusione va contro gli interessi, o i supposti interessi, di tutti i soggetti coinvolti in quello che nell'antilingua della burocrazia si chiama "processo formativo".
Vale a dire che, per motivi diversi, questa ragionevole conclusione è serenamente ignorata dallo Stato, dalle università e dagli studenti. Che lo Stato voglia ignorarla è comprensibile. Che altra possibilità c'è, infatti? Da un lato, vogliamo aumentare il numero dei laureati per colmare il nostro divario rispetto agli altri paesi europei, e un laureato in Filologia romanza pesa quanto un laureato in Ingegneria. Dall'altro, nonostante la riforma, in Italia l'università resta in sostanza l'unico canale di formazione post-secondaria. I ragazzi devono pur fare qualcosa. La scuola superiore non li ha preparati a un lavoro, e un relativo benessere permette a quasi tutti i diciottenni di non doverlo cercare, un lavoro: c'è tempo. Resta lo studio. E dato che le altre facoltà sono più difficili, o hanno dei test d'ingresso selettivi, bisogna che almeno le porte delle facoltà umanistiche restino spalancate. Che s'iscrivano tutti, dunque, indipendentemente dalle proprie soggettive capacità e dalle oggettive possibilità d'assorbimento nel mondo del lavoro. Poi qualche santo sarà.
Secondo soggetto, i docenti. Dato che la quota di finanziamento per ateneo è proporzionale al numero degli studenti, è difficile che le facoltà si mettano a lottare per averne di meno. Più studenti s'iscrivono più soldi arrivano, più insegnamenti si attivano. Perciò anche il famoso "orientamento universitario" finisce per essere, in sostanza, pubblicità che le facoltà (tutte) fanno a loro stesse in nome del proprio interesse, proprio interesse che non necessariamente coincide con l'interesse dello studente: «No, tu sei negato, fai qualcos'altro» non è una formula che sia contemplata nella retorica dell'orientamento universitario. Per questa ragione è un pio desiderio immaginare che le facoltà umanistiche decidano motu proprio una politica di assoluto rigore, bocciando agli esami tutti quelli che meriterebbero di essere bocciati: è difficile che una corporazione (qualsiasi corporazione) scelga di suicidarsi.
Terzo soggetto, gli studenti. Alcuni studenti s'iscrivono alle facoltà umanistiche perché non sanno che altro fare, e scelgono la via che a loro sembra più facile e che spesso è, di fatto, più facile. Benché molti pensino il contrario, questi studenti depistati e svogliati sono una minoranza. I più, sono studenti seri e motivati. Alcuni tra questi hanno fatto un buon liceo e sono pronti ad approfondire le materie che già al liceo preferivano. Non sono moltissimi, e non sono necessariamente i migliori. A volte sanno molto a paragone dei loro coetanei ma hanno intelligenze pigre e poco originali, e non hanno e – quel che è peggio – non vogliono avere nessuna esperienza del mondo che sta al di fuori delle aule scolastiche.
La maggior parte degli studenti seri e motivati non ha fatto "un buon liceo" ma proviene da scuole nelle quali l'istruzione umanistica è più carente: i professionali, i tecnici, l'arcipelago di scuole sperimentali che le varie riforme hanno prodotto. Che fare con questi studenti? Sono la prova dell'esistenza di un diffuso desiderio di istruzione. È un desiderio sacrosanto, preziosissimo per la società, e su cui è possibile costruire. Sembra non risentire del dumbing down indotto dai media; anzi, sembra crescere a mano a mano che il dumbing down dei media si fa più sfacciato. Sono spesso studenti molto diligenti, e persone anche umanamente eccezionali, disposte a fare veri sacrifici per imparare cose che, lo sanno benissimo, non li aiuteranno molto quando si tratterà di trovare un lavoro.
Ma il bagaglio di nozioni che posseggono quando entrano all'università è molto leggero. E non è solo questione di quanto poco sanno, ma – soprattutto – di un atteggiamento, di una forma mentis che è inadeguata allo studio. Questi studenti cambiano, maturano, crescono di mese in mese, ma non riescono veramente a recuperare il ritardo. Al termine dei loro studi pochi di loro troveranno un lavoro e – questa è la cosa più grave – pochi di loro meriteranno di trovarlo. Perché partivano da un punto troppo basso (purtroppo non tutto, sempre, è possibile, e ci sono muri che a una certa età vanno semplicemente accettati); o perché, e vengo al punto che mi sta più a cuore, nessuno ha mai chiesto loro di fare uno sforzo, nessuno ha mai chiesto loro di darsi veramente da fare per superare una soglia.
Un esame d'ingresso alle facoltà umanistiche potrebbe essere questa soglia. Un esame selettivo, non un test orientativo. Per esempio, un esame sul programma scolastico svolto negli ultimi tre anni in determinate materie; o su un certo numero di libri fondamentali (sì, quei libri che «bisognerebbe aver letto al liceo»). A chi ha fatto (bene) il liceo basterebbe, per prepararsi, un pezzo dell'estate. A chi ha fatto una scuola professionale servirebbe di più: un recupero durante l'ultimo anno scolastico, forse un anno in più di studio per conto proprio. Fatti suoi. Sarebbe un investimento ragionevole, utile anche per chi lo fa, per capire se è davvero quella la strada che vuole intraprendere o se è soltanto un'infatuazione, un equivoco. Una soglia. E chi non la supera rimane fuori. Rimanere fuori a 18 anni non è una tragedia. Le alternative, a quell'età, esistono. E non passare un esame, trovare sulla propria strada qualcuno che dice «No, tu non puoi fare questi studi», può essere una fortuna. Se invece la soglia la si trova, insuperabile, a 24 o 25 anni, le cose sono infinitamente più difficili.
Una soluzione come quella che ho appena proposto dovrebbe anche aiutarci, in progresso di tempo, a diminuire il numero dei laureati in discipline umanistiche. Il che mi porta alla seconda questione che vorrei sollevare. Il dibattito in corso sul ruolo del sapere umanistico oggi non mi sembra bene impostato. Che cosa dobbiamo volere? Che cosa non dobbiamo volere?
Dobbiamo volere l'incremento della cultura diffusa. Vogliamo che le persone leggano più libri, e libri migliori, che vedano film decenti, che s'interessino al lavoro scientifico che sta dietro ai microchip dei loro cellulari; vogliamo che, quando vedono Voyager su Rai 2, sghignazzino. Ora, per quanto possa dispiacere, la cultura diffusa non si accresce, in primo luogo, attraverso iniezioni di cultura diffusa. Una retrospettiva di Kubrick in lingua originale, una lussuosa stagione concertistica, un tour gratuito dell'osservatorio astronomico, sono tutte cose benedette, ma non cambiano molto la situazione. Si chiama: preaching for the saved, predicare a quelli già salvati. Oppure si chiama: predicare a quelli che fanno solo finta di ascoltare, perché il Mondo li ha convinti che bisogna fare così.
Per migliorare la cultura diffusa bisogna procedere per gradi, e questo vuol dire che gran parte dello sforzo va fatto non nel settore della cultura genericamente intesa ma nel settore dell'istruzione. Ma anche qui bisogna intendersi.
Nel suo saggio Non per profitto, Martha Nussbaum lamenta un deficit di cultura umanistica: per affrontare la crisi presente e le sfide future occorrerebbero più letterati, più filosofi, e insomma più persone versate nella cultura umanistica, perché è questa la cultura davvero vitale per una società che si voglia civile. Il favore con cui questo libro pieno di retorica e buoni sentimenti è stato accolto da molti non mi pare un buon segno. Può darsi che una ricetta del genere possa avere un senso negli Stati Uniti, o in certe parti degli Stati Uniti, dove il disprezzo per la cultura disinteressata è più forte che da noi. Ma in Italia? In questo paese di avvocaticchi con le loro plaquettes di poesie pubblicate in proprio? In questo paese dove ogni villaggio ha un assessore alla cultura, e ogni assessore si porta dietro uno stuolo di geniali pittori, scultori, esegeti di Dante, filosofi da pubblica concione?
A me non pare che la strada indicata dalla Nussbaum sia quella giusta. Se proprio vogliamo parlare della miscela che dovrebbe formare la cultura degli italiani, e ammesso e non concesso che abbia senso dosare le percentuali di "umanesimo" e quelle di "scienza", mi pare chiaro che è nell'istruzione tecnico-scientifica che il nostro paese è particolarmente carente.
Questo non significa che l'istruzione umanistica non sia fondamentale. Lo è, ma bisogna intenderla in un modo sensato. Intanto, per tornare a quanto ho già accennato, è precisamente istruzione, e non genericamente cultura: sono le lezioni che si fanno a scuola e all'università, non sono le conferenze, le mostre e i concerti con cui i cittadini riempiono il loro tempo libero. Ben vengano questi loisirs ma, per cominciare, io non sono così convinto che il loro costo debba gravare sui bilanci delle amministrazioni pubbliche. Mi pare che i soldi che spendiamo per questo genere di cultura non siano pochi ma troppi. Invece è chiaro che l'istruzione umanistica ha un ruolo cruciale a scuola, anche e soprattutto nelle scuole tecniche e professionali. In questo modo, migliorando l'istruzione di base, è possibile formare dei cittadini migliori, che all'idea di cultura – di cultura personale, di applicazione e studio – resteranno affezionati anche una volta usciti dalla scuola secondaria.
Ma, una volta usciti dalla scuola secondaria, non ha senso che s'iscrivano in massa alle facoltà umanistiche. È questo che non dobbiamo volere. L'acculturazione di massa è un giusto proposito ma non può essere il proposito dell'università. L'acculturazione di base deve avvenire prima. L'Italia non ha bisogno di legioni di laureati in filosofia. Ha bisogno, lo ripeto, di una buona cultura diffusa, di una coscienza civica diffusa. Ma questo è tutt'altro discorso: e l'aiuto che le facoltà umanistiche possono dare in questo senso consiste soprattutto nel formare ottimi insegnanti e intellettuali che riescano a innalzare il tono delle professioni pubbliche (giornalismo, politica), non consiste nel laureare in Lettere l'intera nazione.
Possiamo dire che l'università stia adempiendo questo compito? Difficile generalizzare. Ma la mia impressione è che l'università ratifichi l'esistente, dando poco a tutti: poco agli studenti bravi, che restano bravi senza però sviluppare del tutto le loro qualità, perché le qualità si sviluppano soprattutto quando ci sono degli ostacoli da superare, e di ostacoli in questa università ce ne sono troppo pochi; e poco agli studenti mediocri, che restano mediocri ma superano lo stesso gli esami, e si laureano lo stesso, perché a tutti fa comodo così. Ma a lungo andare, in realtà, questa situazione non fa comodo a nessuno, e meno che meno alla società, che ci mette i soldi.
«Il Sole 24 Ore» del 16 ottobre 2011

Le Maldive affondano? Una bufala, ma la prova dell’inganno sparisce

Un albero dimostrava che il mare in 50 anni non si era alzato di un centimetro.
Un gruppo di ambientalisti australiani lo sega
di Rino Camilleri
Piatto ricco, mi ci ficco. Deve aver pensato questo il presidente delle Maldive quando, il 17 ottobre 2009, ha tenuto - in mondovisione - una riunione di governo sott’acqua, con tanto di maschera da sub e bombole, per richiamare l'attenzione planetaria (e soprattutto gli aiuti della comunità internazionale) sulla fine prossima ventura, come Atlantide, delle sue isole.
Già: dice che si inabisseranno per via dell'ineluttabile innalzamento degli oceani.
Il quale è colpa del famoso riscaldamento globale.
Il quale è responsabile (così dicono gli «esperti») della glaciazione che non ha ancora finito di mettere in ginocchio Europa e Usa.
Com'è noto, qualunque cosa succeda, caldo, freddo, terremoti, tsunami, è colpa del Global Warming (qui in Italia del governo Berlusconi).
Certe bufale (ricordate l'influenza suina?) hanno le gambe corte, ma certe altre le hanno così lunghe da meritare Oscar e Nobel. Come questa del disastro climatico imminente.
Per fortuna esistono, qua e là, molte filiali del celebre e antico club degli «apoti» (coloro che non la bevono).
In Italia a guardia delle bufale climatiche abbiamo - oltre alla nostra firma Fancesco Battaglia - la benemerita agenzia SviPop.org (Sviluppo & Popolazione), diretta da Riccardo Cascioli.
Nel suo numero 120 (16 gennaio u.s.), a firma di Luigi Mariani, riporta una lettera aperta inviata (vanamente) da un fior di scienziato al citato presidente delle Maldive, Mohamed Nasheed, nella quale si prega il destinatario di smetterla di terrorizzare il suo popolo a scopi elettorali e/o finanziari.
Lo scienziato è lo svedese Nils-Axel Mörner, già a capo dell'Istituto di Geofisica e Geodinamica all'Università di Stoccolma, già presidente della Commissione Inqua sulle variazioni del livello del mare e l'evoluzione costiera, già leader della Maldive Sea Level Project e già presidente del progetto Intas su Geomagnetismo e Clima.
Lo scienziato ricorda di essere stato nelle Maldive per un decennio e di avervi studiato proprio i livelli del mare.
Nel 2001 il suo gruppo di ricerca trovò «prove schiaccianti» del non aumento del livello del mare; anzi, una stabilità almeno trentennale.
Il Mörner annunciò la rassicurante notizia in un'intervista a una televisione locale ma il predecessore di Nasheed ne impedì la diffusione.
Salito al potere Nasheed, il Mörner scrisse per due volte a quest'ultimo, senza mai ricevere risposta.
Il fatto più sconfortante è però legato a un albero.
Già.
Nel 2007, alla tivù svedese, il Mörner denunciò lo scandalo: nel 2003 certi attivisti ambientalisti australiani segarono quell'albero e lo fecero sparire.
Perché?
Perché era la prova provata che il livello del mare alle Maldive non si era mosso di una virgola almeno dagli anni '50.
Poiché quelle isole erano state una colonia penale, le testimonianze su tale albero che svettava vicinissimo alla costa abbondavano.
Il Mörner lo aveva tenuto d'occhio negli anni, proprio perché il mare non l'aveva mai neanche sfiorato.
Stando agli allarmismi, sarebbe dovuto rimanere sommerso già da quel dì.
Invece no, sempre là, sempre all'asciutto.
Lo scienziato svedese riferiva nella sua lettera di ben cinque incontri internazionali sulla stima dei livelli marini.
Risultato: i cambiamenti di livello attesi per il 2100 variano da più 5 cm. a circa 15 cm., «un valore che comporterebbe effetti di entità assai ridotta se non trascurabile per gli abitanti delle aree costiere di tutto il pianeta».
Il professor Mörner prega dunque sentitamente il presidente maldiviano di smetterla di terrorizzare la sua gente con bufale che non sono altro che «frutto di simulazioni avventate svolte al computer e costantemente smentite dalla meticolosa osservazione del mondo reale».
Vale la pena di riportare per intero la piccata chiusura della lettera: «La sua riunione di Gabinetto sott'acqua non è dunque nient'altro che un espediente e una trovata pubblicitaria del tipo di quelle di cui è maestro Al Gore e configura un comportamento disonesto, del tutto inefficace e certamente non scientifico».
Non vorremmo essere cattivi profeti ma temiamo che il presidente della Repubblica delle isole Maldive non risponderà nemmeno a questa terza missiva.
«Il Giornale» del 20 gennaio 2011

Mastrocola: studiare non serve?

di Roberto I. Zanini

«Theodor Wiesengrund Adorno. Qualcuno, per caso, ancora se lo ricorda? Criticava la condiscen­denza per gli uomini come sono, vista come falsa virtù... 'Il bor­ghese – diceva – è tollerante. Il suo amore per la gente così com’è nasce dall’odio per l’uomo come dovrebbe essere'». È una delle provocazioni contenute nel libro di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare (Guanda), che af­fronta il drammatico problema di una scuola che ha smesso di inse­gnare. Il problema, spiega abil­mente l’autrice, che oltre a essere una nota scrittrice è anche do­cente di Lettere al liceo, è il frutto di una società essenzialmente e­donista, che non intende impe­gnarsi a far crescere i propri figli.

La frase di Adorno fotografa con i­nusitata efficacia questo stato di cose e ha il grande pregio di ob­bligare alla discussione.
«Lui so­steneva che il consumismo di massa ci avrebbe ridotto a restare quello che eravamo, cioè massa amorfa. Il sospetto è che abbia a­vuto ragione. E la scuola ne è una diretta conseguenza. Oggi un ra­gazzo può agevolmente chiedersi se lo studio serva ancora. Il dram­ma è che noi adulti abbiamo ri­sposto di no. Così i giovani non studiano. Al liceo ho molti stu­denti che si interessano alle lezio­ni, bravi ragazzi, che però a casa non aprono libro. E non c’è nes­suno che faccia loro comprendere l’importanza dello studio».

Non lo fa la scuola, non lo fa la famiglia, non lo fa la società. Ne consegue, pare di capire, una sorta di grande inganno i cui i nostri ragazzi sono le vere vittime.
«Un inganno dai tanti volti. La scuola fa lavorare in gruppo quando sappiamo benis­simo che si tratta di un modo per non studiare. Insegna a lavorare sfruttando il web e questo è vera­mente il massimo che si potesse fare per fre­gare i giovani: dire lo­ro che tanto c’è il computer, che si può sempre mettere la pa­rola giusta sul motore di ricerca e poi si sca­rica, si copia e incolla e il compito del gior­no è fatto. Non c’è nemmeno bi­sogno di leggere quello che si è scaricato».

Sono i professori, per­sino i libri di testo che chiedono agli studenti di studiare in questo modo con internet.
«E così si a­valla la logica che per studiare non serve fatica. Anzi, non serve proprio studiare. Servono solo le nuove abilità: utilizzare i nuovi programmi, navigare in rete, chattare, collegarsi a facebook».

Se si avanzano critiche su questi ar­gomenti c’è sempre il professore che con tono di compatimento ti fa notare che forse sei retrogrado, antiquato, reazionario.
«Ma è una falsità. Siamo noi i più moderni. Noi che usiamo tranquillamente tutte le nuove tecnologie cono­scendo Dante e Petrarca, avendo letto Tasso, Leopardi e Montale, sapendo di latino e di sintassi. Insomma, vogliamo o no che i nostri ragazzi abitino anche una sfera mentale, spirituale, del­le idee e non siano interamente calati nel più puro materialismo? Vogliamo che la scuola serva an­cora a qualcosa? Cosa vogliamo che facciano i nostri figli?».

Biso­gnerebbe chiederlo alle famiglie, che oltre a non far studiare i figli a casa se la prendono con maestri e professori quando danno troppi compiti o pretendono qualcosa di più dagli studenti.
«È quella che nel libro ho definito l’inversione delle responsabilità. Se le famiglie remano contro gli insegnanti che vogliono lavorare la scuola non serve più. Meglio che tolga il di­sturbo, appunto. I genitori sem­pre schierati dalla parte dei figli sono il fenomeno più deva­stante del mondo scolastico. Del resto la scuola e il modo di approcciarsi alla scuola sono il rifles­so della società».

Viene da chiedersi come sia potuto ac­cadere tutto questo.
«Le rispondo con una provocazio­ne: forse siamo un Paese troppo progredito per credere ancora nella scuola».

Un’affermazione drammatica.
«Drammatica, ma realista. La nostra società, cioè tutti noi, è troppo concentrata sul suo ombelico, è troppo rivolta al piacere. La famiglia media pensa a come impiegare il tempo libero nei divertimenti, nello sport, pen­sa ad avere due auto, due telefo­nini, la tv dell’ultima generazio­ne... in tutto questo la scuola è un disturbo. Ci sono i compiti da fa­re, c’è da impegnarsi a seguire i fi­gli, a spronarli... Molto più facile affidarli alle badanti tecnologiche, come la tv, internet, le play sta­tion. Si sono perduti i valori peda­gogici della fatica, dell’umiltà. Studiare è un impegno e le fami­glie non vogliono più che i figli studino. Pensano alla scuola co­me a un contenitore».

Detta così sembra una delle pessime conse­guenze del ’68?
«Questa situazio­ne è certamente figlia anche delle ideologie, delle letture cattive e distorte degli scritti di don Milani, quello che nel libro chiamo il donmilanismo, che ha portato a una scuola appiattita verso il bas­so. Della lettura di comodo dei li­bri di Gianni Rodari, che defini­sco rodarismo e che ha portato al­l’inganno criminale della scuola creativa, che lascia spazio alla fantasia, ma non insegna la gram­matica, la struttura del pensiero e del discorso. Ma per per diventare grandi bisogna prima aver molto letto, molto pensato e molto stu­diato, poi ci si può aprire alla creatività vera».

«Avvenire» del 17 febbraio 2011

12 ottobre 2011

"Apocalypto": nel film di Gibson la verità sul popolo maya

di Paolo Petrilli
“Una grande civiltà non è conquistata dall’esterno, finchè non ha distrutto se stessa dall’interno.”(W. Durrant).
La frase compare sullo schermo prima che il film inizi ed è subito chiaro che Gibson ne farà l’intento programmatico di tutta la pellicola, o almeno avrebbe dovuto esserlo, valutata la miopia della stragrande maggioranza dei critici che volutamente o ingenuamente (a voi il giudizio) ne hanno ristretto gli orizzonti costringendoli in quelli di un mero film di avventura, un po’ troppo violento per il genere.
Al centro della vicenda c’è l’indigeno Zampa di Giaguaro che vive con la sua tribù nella foresta intorno al XV secolo. Vivono di caccia, scherzano tra di loro, qualcuno ha dei problemi con la suocera. Ma sanno capire anche quali sono i valori veri da trasmettere ai loro figli.
Nel frattempo il popolo maya, per alimentare i propri sacrifici umani, compie delle spedizioni nella foresta per catturare questi indigeni che forse saranno bravi nella caccia ma sicuramente non sono così abili nella guerra.
Zampa di Giaguaro riesce a mettere in salvo la moglie incinta e il figlioletto in un pozzo, ma preso anche lui viene portato con un lungo cammino attraverso la foresta nel centro della civiltà maya, fin sopra una gigantesca piramide dove vengono compiuti sacrifici umani.
Una improvvisa eclisse lo salva dalla morte, ma per conquistare il diritto a tornare dai suoi deve superare un altro esame, ancora più violento, che lo porta ad uccidere il figlio di un capo e quindi a ritrovarsi dietro un gruppo di guerrieri, guidati da questo padre furente, che vogliono fargli la pelle.
Lasciamo il finale alla sorpresa dello spettatore.
Gibson applica al tema delle popolazioni centroamericane precolonizzazione la stessa operazione culturale di The Passion. Un’operazione culturale di verità. Se nella passione di Cristo rappresentò in maniera storicamente accurata la flagellazione romana (che aveva delle regole strutturate), in Apocalypto tema dell’indagine è la descrizione della civiltà maya e dei suoi rituali religiosi. In entrambi i casi il risultato sfiora picchi di violenza a tratti insostenibili, ma necessari a rappresentare la realtà dei fatti.
Dopo la visione del film l'idea che si aveva della civiltà maya non è più la stessa, non vi si riconosce il mito del buon selvaggio sposato da quasi tutti i libri di testo scolastici. Non un Eden violato dai conquistadores, ma un mondo semiprimitivo, legato ancora alla mitologia del sangue. Un mondo senza speranza, in cui una dipartita prematura viene spesso letta come un sollievo (“Dormi, non ci sarà più dolore” dice il padre guerriero chiudendo gli occhi al figlio ferito a morte).
Ma Gibson a questo punto va oltre. Non si ferma ad annotazioni di ordine antropologico, ma sposta le ambizioni del film su un piano ulteriore, proponendo una lettura soprannaturale della vicenda umana. Non accorgersene, o - peggio - non tenerne conto, significa leggere il film solo a metà.
Non si spiega in altro modo la profezia della bambina percossa.
Ecco alcune delle frasi che pronuncia: “Il momento sacro è vicino”; “Colui che vi prenderà cancellerà il cielo e la terra. Vi cancellerà e terminerà il vostro mondo”; e ancora “E’ con noi adesso”, il tutto seguito da riferimenti a Zampa di Giaguaro che sarà lo strumento propiziatorio del primo contatto con la civiltà occidentale.
Come dire che Dio, stanco della crudeltà crescente dei Maya, ritiene i tempi maturi perché il Verbo, tramite gli Spagnoli, entri e modifichi per sempre quel mondo semiprimitivo e sanguinario.
L’astuzia del regista sta nel chiarire, con la vicenda della tribù di Zampa di Giaguaro, quali furono le dinamiche che nella realtà portarono le popolazioni presenti sul territorio centroamericano e vessate dai Maya ad unirsi agli Spagnoli, per porre fine al clima di terrore in cui vivevano.
A margine va annotato un certo compiacimento manieristico nella infernale rappresentazione della città delle piramidi, popolata da una umanità corrotta e anche visivamente sgradevole; una sguardo "apocalittico", per l’appunto, che sembra a tratti prediligere le viscere per veicolare i messaggi forti di cui la pellicola è portatrice. Ma è un peccato veniale, anche perché strumentale a Gibson per confezionare un prodotto impeccabile anche cinematograficamente, coraggioso nel ridurre a una manciata di minuti i momenti parlati e nel lasciarli in maya-yucateco, una lingua morta.
E’ un grandioso affresco di un mondo un istante prima del suo collasso, che inchioda alla poltrona per più di due ore e che conferma il talento di un autore, Gibson, davvero ispirato.

Scaricato dal sito www.europaoggi.it il 12 ottobre 2011
Fonte: http://www.europaoggi.it/content/view/831/0/

La Conquista delle Americhe

dal libro Pensare la storia. Una lettura cattolica dell'avventura umana
(Paoline, Milano 1992, p. 637-660)
di Vittorio Messori

La tutela dei nativi ci fu in america del sud e non al nord. I "conquistatori" liberarono i nativi dall'oppressione di regimi sanguinari aztechi e inca
Ben sette Oscar per «Dance with wolves», «Balla coi lupi», il film americano "dalla parte degli indiani". Fu attorno alla metà degli anni Sessanta che il western procedette alla svolta: fu messo in crisi lo schema "bianco buono - pellerossa cattivo", con i primi dubbi sulla bontà della causa dei pionieri anglosassoni. Da allora quella crisi è andata sempre aumentando, sino al rovesciamento completo: ora, le nuove categorie esigono di vedere nell'indiano sempre un puro eroe e nel pioniere sempre un brutale invasore.
Nauralmente, anche questo rischia di diventare una sorta di nuovo conformismo dell'uomo occidentale P.C., Political Correct, come si dice per indicare chi rispetta i canoni e i tabù della mentalità corrente.
Mentre prima era socialmente scomunicato chi non vedesse un martire della civiltà e un campione del patriottismo "bianco" nel colonnello George A. Custer, ora incappa nella stessa scomunica chi parlasse male di Toro Seduto e dei suoi Sioux che, quel mattino del 25 giugno 1876, a Little Big Horn, massacrarono il Custer stesso con gli yankees del 7° cavalleggeri.

La leggenda nera nasce dall'Olanda e dalla Gran Bretagna, potenze protestanti
Malgrado il rischio di nuovi slogan conformistici, non si può non accogliere con soddisfazione l'attuale scoprimento degli altarini dell’'altra" America, quella protestante, che diede (e dà) tante sdegnose lezioni di morale all'America cattolica. Già dal Cinquecento le potenze nordiche riformate - Gran Bretagna e Olanda in primis - diedero inizio alla guerra psicologica, inventando la "leggenda nera" della barbarie e dell'oppressione, nei suoi domini oltreoceano, di quella Spagna con cui erano in lotta per il predominio marittimo.
"Leggenda nera" che - come accade puntualmente per tutto ciò che è fuori moda nel mondo laico - viene ora scoperta golosamente da preti, frati e cattolici "adulti" in genere i quali, protestando con toni virulenti contro le celebrazioni del quinto centenario del «descubrimiento» non sanno di essere succubi, con qualche secolo di ritardo, di una fortunata campagna dei servizi di propaganda britannici e olandesi.
Ha scritto uno storico di oggi, insospettabile in quanto calvinista, Pierre Chaunu: «La leggenda antispanica, nella sua versione americana (in quella europea punta soprattutto sull'Inquisizione) ha giocato un ruolo salutare di valvola di sfogo. Il preteso massacro degli indios da parte degli spagnoli nel XVI secolo ha coperto il massacro americano sulla frontiera dell'Ovest nel XIX secolo. L'America protestante ha così potuto liberarsi del suo crimine rigettandolo sull'America cattolica».

Prima degli europei c'erano ben altri usurpatori: Inca e Aztechi
Intendiamoci: prima di occuparsi di simili temi occorrerebbe liberarsi da certi attuali moralismi irreali che non vogliono riconoscere che la storia è una inquietante, spesso terribile signora. Nella prospettiva realistica da ritrovare, bisognerebbe condannare, ovviamente, errori ed atrocità (da qualunque parte vengano) senza però maledire, quasi fosse stato cosa mostruosa, il fatto in sé dell'arrivo degli europei nelle Americhe e del loro installarsi in quelle terre, organizzandovi un nuovo habitat.
Nella storia non è praticabile l'edificante esortazione a "restare ciascuno nella sua terra, senza invadere quella di altri". Non è praticabile non soltanto perché così si negherebbe ogni dinamismo alla vicenda umana; ma soprattutto perché ogni civiltà è frutto di un rimescolamento che mai fu pacifico. Senza scomodare la Storia Sacra stessa (la terra che fu promessa agli ebrei da Dio non era loro, ma fu da essi strappata a forza agli abitatori precedenti), le anime belle che inveiscono contro i malvagi usurpatori nelle Americhe dimenticano (tra l'altro) che, al loro arrivo, quegli europei trovarono ben altri usurpatori. L'impero azteco e quello inca erano stati creati con la violenza ed erano mantenuti con sanguinaria oppressione da popoli invasori che avevano ridotto in schiavitù i nativi.

I popoli oppressi appoggiarono i conquistatori perché erano dei liberatori
E si fa spesso finta di ignorare che le sbalorditive vittorie di poche decine di spagnoli contro migliaia di guerrieri non furono determinate né dagli archibugi né dai pochissimi cannoni (tra l'altro, spesso inutilizzabili, in quei climi, perché l'umidità neutralizzava le polveri) né dai cavalli (che non potevano essere lanciati alla carica nella foresta).
Quei trionfi furono dovuti innanzitutto all'appoggio degli indigeni oppressi dagli incas e dagli aztechi. Dunque, più che come "usurpatori", gli iberici furono salutati in molti luoghi come liberatori. E aspettiamo ancora che gli storici "illuminati" ci spieghino come mai non ci furono, negli oltre tre secoli ispanici, rivolte contro i nuovi dominatori, pur ridottissimi di numero ed esposti, quindi, al pericolo di essere spazzati via al minimo moto. L'immagine dell'invasione dell'America del Sud svanisce subito a contatto con le cifre: nei cinquant'anni tra il 1509 e il 1559, dunque nel periodo di una conquista dalla Florida allo stretto di Magellano, gli spagnoli che raggiunsero le Indie Occidentali furono poco più di 500 (ma sì: cinquecento!) l'anno. In totale, 27.787 persone in tutto, in quel mezzo secolo.

La storia moralista è fantastoria
Per tornare ai rimescolamenti di popoli con i quali bisogna fare realisticamente i conti, non va dimenticato ad esempio - che i colonizzatori del Nord America venivano da un'isola che a noi sembra naturale definire "anglo-sassone". In realtà, era dei Britanni, che prima furono assoggettati dai Romani e poi da barbari germanici - gli Angli e i Sassoni, appunto - che massacrarono buona parte degli indigeni e l'altra parte la fecero fuggire sulle coste della Gallia dove, cacciati a loro volta gli abitanti originari, crearono quella che fu detta Bretagna. Del resto, nessuna delle grandi civiltà (né quella egizia, né quella romana, né quella greca, senza mai dimenticare quella ebraica) fu creata senza invasioni e relative cacciate dei primi abitatori.
Dunque, nel giudicare la conquista europea delle Americhe, occorrerà guardarsi dall'utopismo moralistico che vorrebbe una storia fatta tutta di inchini, di buone maniere, e di "prego, prima Lei".

La conquista "cattolica" è stata migliore della protestante
Chiarito questo, andrà pur anche detto che c'è "conquista" e "conquista": è certo (e anche film come il premiatissimo Balla coi lupi cominciano a farlo capire) che quella "cattolica" è stata ampiamente preferibile a quella "protestante".
Come ha scritto un altro storico contemporaneo, Jean Dumont: "Se, per disgrazia, la Spagna (con il Portogallo) fosse passata alla Riforma, fosse divenuta puritana e avesse dunque applicato gli stessi principi del Nord America ("lo dice la Bibbia: l'indiano è un essere inferiore, anzi è un figlio di Satana"), un immenso genocidio avrebbe spazzato via dal Sud America la totalità dei popoli indigeni. Oggi, i turisti, visitando poche "riserve" dal Messico alla Terra del Fuoco, scatterebbero fotografie di sopravvissuti, testimoni del massacro razziale, compiuto per giunta in base a motivazioni «bibliche»".

In nord america sono rimasti 1 milione e mezzo di indiani
In effetti, le cifre parlano: mentre i "pellerossa" superstiti nel Nord America si contano a poche migliaia, nell'America ex-spagnola ed ex-portoghese la maggioranza della popolazione o è ancora di origine india o è il frutto di incroci di precolombiani con europei e (soprattutto in Brasile) con africani.
Il discorso sulle diverse colonizzazioni (iberica e anglosassone) delle Americhe è talmente vasto - e tanti sono i pregiudizi accumulatisi - che non possiamo che allineare qualche appunto. Per restare alla popolazione indigena, questa (lo ricordammo) è quasi scomparsa negli attuali Stati Uniti, dove sono registrati come "membri di tribù indiana" circa un milione e mezzo di persone. In realtà, la cifra, già assai esigua, si riduce di molto se si considera che, per quella registrazione, basta un quarto di sangue indiano.

In sud america il 90% della popolazione è india
Situazione rovesciata a Sud, dove - nella zona messicana, in quella andina, in molti territori brasiliani - quasi il 90 per cento della popolazione o discende direttamente dagli antichi abitanti o è il frutto di incroci tra indigeni e nuovi arrivati. Inoltre, mentre la cultura degli Stati Uniti non deve a quella indiana che qualche parola, essendosi sviluppata dalle sue origini europee senza quasi scambi con le popolazioni autoctone, non così nell'America ispanoportoghese, dove l'incrocio non è stato certo solo demografico, ma ha creato una cultura e una società nuove, dalle caratteristiche inconfondibili.

Portoghesi e spagnoli non disdegnavano di sposare indigeni
Certo: questo è dovuto anche al diverso stadio di sviluppo dei popoli che anglosassoni e iberici trovarono in quei continenti; ma è dovuto anche, se non soprattutto, alla diversa impostazione religiosa. A differenza di spagnoli e portoghesi cattolici che non esitavano a sposare indigene, nelle quali vedevano persone umane alla pari di loro, i protestanti (seguendo la logica di cui già parlammo e che tende a far tornare indietro, verso l'Antico Testamento, il cristianesimo riformato) erano animati da quella sorta di "razzismo" o, almeno, di senso di superiorità da "stirpe eletta", che aveva contrassegnato Israele. Questo, unito alla teologia della predestinazione (l'indiano è arretrato perché "predestinato" alla dannazione, il bianco è progredito come segno di elezione divina), portava a considerare come una violazione del piano provvidenziale divino il rimescolamento etnico o anche solo culturale.

Tutte le terre conquistate dal protestantesimo hanno vissuto la piaga del razzismo e dell'apartheid
Così è avvenuto non solo in America e con gli inglesi, ma in tutte le altre zone del mondo dove giunsero europei di tradizione protestante: l'apartheid sudafricano, per fare l'esempio più clamoroso, è tipica creazione - e teologicamente del tutto coerente - del calvinismo olandese. (Sorprende, dunque, quella sorta di masochismo che ha spinto di recente la Conferenza dei vescovi cattolici sudafricani a unirsi, senza alcuna precisazione o distinguo, alla "Dichiarazione di pentimento" dei cristiani bianchi verso i neri di quel Paese. Sorprende perché, se qualche comportamento condannabile può esserci stato anche da parte cattolica, questo - al contrario di quanto verificatosi da parte protestante - è avvenuto in pieno contrasto sia con la teoria sia con la prassi cattoliche. Ma tant'è: sembra che, oggi, ci siano non pochi clericali ben lieti di addossare alla loro Chiesa anche colpe che non ha).

La Spagna non fece colonie ma "province"
E' proprio dalle diverse teologie che traggono origine i diversi modi di "conquista" delle Americhe: gli spagnoli non considerarono la popolazione dei loro territori come una sorta di spazzatura da eliminare per installarvisi da soli padroni. Si riflette poco sul fatto che la Spagna (a differenza della Gran Bretagna) non organizzò mai il suo impero americano in "colonie" ma in "province". E che il re di Spagna non assunse mai la corona di "Imperatore delle Indie", anche qui a differenza di quanto farà, e ormai alle soglie del XX secolo, la monarchia inglese. Sin dall'inizio (e poi, con costanza implacabile, per tutta la storia seguente) i coloni protestanti considerarono loro diritto fondato sulla Bibbia stessa – il possedere senza problemi né limiti tutta la terra che riuscivano ad occupare, cacciandone o sterminandone gli abitanti. I quali, in quanto non facenti parte del "nuovo Israele" e in quanto marchiati dai segni di una predestinazione negativa, erano in completa balia dei nuovi padroni.

Anche nei confronti della terra una diversa impostazione "teologica"
Il regime dei suoli instaurato nelle diverse parti americane conferma queste diverse prospettive e spiega i diversi esiti: al Sud si ricorse al sistema della «encomienda» che era un istituto di derivazione feudale, era la concessione fatta dal sovrano a un privato di una porzione di territorio tenendo conto della popolazione già presente, i cui diritti erano tutelati dalla Corona, che restava la vera proprietaria. Non così al Nord, dove prima gli inglesi e poi il governo federale degli Stati Uniti dichiareranno la loro proprietà assoluta sui territori occupati e da occupare: tutta la terra è ceduta a chi lo desideri al prezzo che verrà poi fissato, in media, in un dollaro ad acro. Quanto agli indigeni eventualmente presenti su quelle terre sarà cura dei coloni (se necessario con l'aiuto dell'esercito) di allontanarli o, meglio, di sterminarli.

La caccia all'indiano rendeva: 12 sterline per uno scalpo
Il termine sterminio non è esagerato e rispetta la realtà concreta. Molti, ad esempio, non sanno che la tecnica della scotennatura era conosciuta dagli indiani del Nord come del Sud. Ma tra questi ultimi scomparve subito, vietata dagli spagnoli. Non così al Nord. Per citare, ad esempio, la voce relativa su una enciclopedia insospettabile come la Larousse: «La pratica dello scotennamento sì diffuse nel territorio degli attuali Stati Uniti a partire dal XVII secolo, quando i coloni bianchi presero ad offrire grosse ricompense a chi portava la capigliatura (o scalpo) di un indiano: uomo, donna o bambino che fosse».
Nel 1703 il governo del Massachusetts pagava 12 sterline per scalpo, tanto che la caccia all'indiano (organizzata con tanto di cavalli e mute di cani) diventò presto una sorta di sport nazionale, per giunta molto redditizio. Il motto «il miglior indiano è l'indiano morto», sempre messo in pratica negli Stati Uniti, nasce non solo dal fatto che ogni indiano soppresso era un fastidio in meno per i nuovi proprietari, ma pure dal fatto che il suo scalpo era ben pagato dalle autorità. Usanza che nell'America "cattolica" non era solo sconosciuta ma che avrebbe suscitato - se qualcuno, abusivamente, avesse cercato di introdurla - non soltanto lo sdegno dei religiosi, sempre presenti accanto ai colonizzatori, ma anche le severe pene stabilite dai re a tutela del diritto alla vita degli indigeni.

Nel sud si moriva di malattie e non di spada
Ma questi, si dice, morirono a milioni anche nel Centro e Sud America. Certo, morirono: ma non al punto di quasi scomparire come nel Nord. Il loro sterminio non fu determinato soprattutto dalle spade d'acciaio dì Toledo e dalle armi da fuoco (che, come vedemmo, tra l'altro facevano quasi sempre cilecca), bensì dagli invisibili quanto micidiali virus portati dal Vecchio Mondo.
Lo choc microbico e virale che causò in pochi anni il dimezzamento delle popolazioni nell'America iberica è stato studiato dal "Gruppo di Berkeley", formato da studiosi di quella università. Fu qualcosa di paragonabile alla peste nera che, nel Trecento, aveva desolato l'Europa provenendo dall'India e dalla Cina. Tubercolosi, polmonite, influenza, morbillo, vaiolo: mali che, nella loro isolata nicchia ecologica, gli indios non conoscevano, per i quali non avevano dunque difese immunitarie e che furono portati dagli europei. I quali non possono, evidentemente, essere considerati responsabili per questo: anzi, furono falcidiati a loro volta da malattie tropicali alle quali gli indigeni resistevano assai meglio. Giustizia vuole che si ricordi (cosa che si fa assai di rado), che l'espansione dell'uomo bianco al di fuori dell'Europa assunse spesso l'aspetto tragico di un'ecatombe, con una mortalità che - con certe navi, incerti climi, con certi autoctoni - raggiunse percentuali impressionanti.

Quel contagio appariva misterioso agli occhi di alcuni commentatori del tempo
Ignorando i meccanismi del contagio (Pasteur era ancora ben lontano...) anche uomini come Bartolomé de Las Casas - figura controversa della quale bisognerà parlare al di là degli schemi semplificatori - caddero nell'equivoco: vedendo quei popoli diminuire drasticamente, gettarono il sospetto sulle armi dei connazionali, mentre non erano, spesso, che i virus di costoro. E' un fenomeno di contagio micidiale osservato anche molto di recente tra tribù restate isolate nella Guyana francese e nell'Amazzonia brasiliana.
L'usanza spagnola di un «Jesùs!» detto come augurio a chi starnutisce nasce dal fatto che anche un semplice raffreddore (di cui lo starnuto è segnale) era spesso mortale per gli indigeni che non lo avevano mai conosciuto e per il quale, dunque, non avevano difese biologiche. (...)

Colombo fece schiavi ma fu punito dalla regina Isabella e fu vietata la schiavitù
Sentiamo, ad esempio, Jean Dumont: «La schiavitù per gli indiani è esistita, ma per iniziativa personale di Colombo, quando aveva i poteri effettivi di vice-re delle terre scoperte: dunque nei soli, primissimi stanziamenti nelle Antille, prima del 1500. Contro questa schiavitù degli indigeni (Colombo ne inviò molti in Spagna, nel 1496) Isabella la Cattolica reagì come aveva reagito facendo liberare, sin dal 1478, gli schiavi dei coloni nelle Canarie. Fece dunque riportare nelle Antille gli indios e li fece liberare dal suo inviato speciale, Francisco de Bobadilla il quale, per contro, destituì Colombo e l'inviò prigioniero in Spagna per i suoi abusi. Da allora, la politica adottata fu ben chiara: gli indiani sono uomini liberi, soggetti come gli altri alla Corona e devono essere rispettati come tali, nei loro beni come nelle loro persone».

Il testamento di Isabella: difendete i nativi
E chi sospettasse che il quadro sia troppo idillico, leggerà utilmente il "codicillo" che, tre giorni prima di morire, nel novembre del 1504, Isabella aggiunse di suo pugno al testamento e che così, testualmente, dice: «Poiché, dal tempo in cui ci furono concesse dalla Santa Sede Apostolica le isole e terra ferma del mare Oceano, scoperte e da scoprire, la nostra principale intenzione fu di cercare di indurre i popoli di esse alla nostra santa fede cattolica e inviare là religiosi e altre persone dotte e timorose di Dio per istruire gli abitanti nella fede e dotarli di buoni costumi e porre in ciò lo zelo dovuto; per questo supplico il Re, mio signore, molto affettuosamente, e raccomando e ordino alla principessa mia figlia e al principe suo marito, che così facciano e compiano e che questo sia il loro principale fine e che in esso impieghino molta diligenza e che non consentano che i nativi e gli abitanti di dette terre acquistate e da acquistare ricevano danno alcuno nelle loro persone o beni, ma facciano in modo che siano trattati con giustizia e umanità e se alcun danno hanno ricevuto lo riparino».
E' un documento straordinario, che non trova alcun riscontro nella storia "coloniale" di alcun Paese. Eppure, nessuna storia è diffamata come questa che inizia da Isabella la Cattolica.

Sono attendibili le cronache di Bartolomeo de Las Casas?
Bartolomé de Las Casas: è il nome che sembra inchiodare alle sue responsabilità la colonizzazione spagnola nelle Americhe. Un nome sempre tirato in campo, assieme alla più fortunata delle sue opere che ha un titolo che è già un programma: «Brevssima relaciòn de la destrucciòn de las Indias». Una "distruzione": se così uno spagnolo stesso, un frate domenicano, definisce la Conquista del Nuovo Mondo, come trovare argomenti che difendano quella impresa? Il processo non è forse chiuso, con definitivo verdetto negativo, per la colonizzazione iberica?
E, invece, no: non è affatto chiuso. Anzi, verità e giustizia impongono di non accettare acriticamente le invettive di Las Casas; per dirla con gli storici più aggiornati, è giunto il momento di farlo anche a lui una sorta dì "processo", a lui così furibondo nell'imbastirne ad altri.

Gli storici concordano: le denuncie di Las Casas non sono attendibili
Chi era, innanzitutto, Las Casas? Nacque a Siviglia nel 1474 dal ricco Francisco Casaus, il cui nome denuncia una origine ebraica. Alcuni studiosi, analizzando dal punto di vista psicologico la personalità complessa, ossessiva, "urlante", sempre bisognosa di puntare il dito contro dei "cattivi" di Bartolomé Casaus, divenuto padre Las Casas, si sono spinti addirittura a parlare di uno «stato paranoico di allucinazione», di una «esaltazione mistica con conseguente perdita del senso della realtà». Giudizi severi, difesi però da grandi storici, come Ramòn Menéndez Pidal.
E', questo, uno studioso spagnolo e, quindi, potrebbe essere sospettato di parzialità. Ma non è spagnolo, bensì statunitense di origini anglosassoni, docente di storia sudamericana in una università Usa, William S. Maltby che, nel 1971, ha pubblicato uno studio sulla "Leggenda nera", sulle origini del mito della crudeltà dei "papisti" spagnoli. Maltby, scrivendo tra l'altro che «nessuno storico che si rispetti può oggi prendere sul serio le denunce ingiuste e forsennate di Las Casas», conclude: «Tirando le somme, si deve dire che l'amore di questo religioso per la carità fu quantomeno maggiore del suo rispetto della verità».

Suo padre fu uno schiavista di Colombo e lui stesso ne colse l'eredità prima di convertirsi
Davanti a questo frate che, con le sue accuse, è all'origine della diffamazione della gigantesca epopea spagnola nel Nuovo Mondo, qualcuno ha pensato che (certo inconsciamente) giocassero anche le origini ebraiche. Quasi un emergere, insomma, dell'ostilità ancestrale contro il cattolicesimo, soprattutto di quello spagnolo, reo di avere allontanato gli israeliti dalla penisola iberica. Troppo spesso si fa storia dando per scontato che i suoi protagonisti si comportino sempre e solo in maniera razionale, non volendo ammettere (e proprio nel secolo della psicoanalisi!) l'influenza oscura dell'irrazionale, delle pulsioni nascoste ai protagonisti stessi. Può dunque ben darsi che neppure Las Casas sia sfuggito a un inconscio che (attraverso l'ossessivo diffamare i suoi connazionali, confratelli religiosi compresi) rispondesse a una sorta di occulta "vendetta".
Comunque sia, il padre di Bartolomé, quel Francisco Casaus, accompagnò Colombo nel suo secondo viaggio oltre Atlantico, fermandosi nelle Antille e dando conferma delle doti di abilità e di intraprendenza semitiche col crearsi una grande piantagione dove praticò quella schiavitù degli indios che, come abbiamo già visto, aveva contrassegnato il primissimo periodo della Conquista. E, almeno ufficialmente, quel periodo soltanto. Dopo gli studi all'università di Salamanca, anche il giovane Bartolomé parti per le Indie, dove raccolse la pingue eredità paterna, impiegando, sino ai 35 anni e oltre, quegli stessi metodi brutali che con tanto sdegno denuncerà in seguito.

I nativi erano talmente tutelati che era meglio usare gli schiavi neri
Supererà, grazie a una conversione, questa fase, facendosi partigiano intransigente degli indios e dei loro diritti. Ascoltato dalle autorità della Madrepatria che, su sua insistenza, approveranno severe leggi di tutela degli indigeni, provocherà però un imprevisto "effetto perverso". Succederà infatti che i proprietari spagnoli, bisognosi di numerosa mano d'opera, non troveranno più conveniente utilizzare le popolazioni autoctone che qualche autore definisce oggi (rovesciando il luogo comune di crudeltà e arbitri) addirittura «sin troppo protette» e cominciarono a dar retta a quegli olandesi, inglesi, portoghesi, francesi che offrivano schiavi importati dall'Africa e catturati da arabi musulmani.
La tratta dei negri (colossale affare quasi interamente in mani islamiche e protestanti) interessò però solo marginalmente, quasi solo nelle isole dei Caraibi, le zone sotto dominio spagnolo. Basta viaggiare anche oggi in quelle regioni, restate, nella zona centrale e andina, a grande maggioranza india e, nella zona meridionale, tra Cile e Argentina, di popolamento quasi esclusivamente europeo: rari i neri, a differenza del Sud degli Stati Uniti, del Brasile, delle Antille inglesi e francesi.

Las Casas non si accorse dei neri. Le autorità spagnole per fortuna sì
Ma, seppure in numero ridotto rispetto alle zone sotto dominio di altri popoli, gli spagnoli cominciarono a importare africani anche perché ad essi non fu estesa subito la protezione degli indios, adottata sin da Isabella la Cattolica e poi sempre perfezionata. Quei neri potevano essere sfruttati (almeno nei primi tempi, ché anche per essi giungerà una legge spagnola di tutela, mentre nei territori inglesi non giungerà mai), mentre farlo con gli indios era illegale (e le audiencias, i tribunali dei vice-re spagnoli, spesso non scherzavano). Un effetto imprevisto e, dicemmo, "perverso", dell'accanita lotta condotta da Las Casas; il quale, va pur detto, se nobilmente si batté per gli indios, non altrettanto fece coi negri, per i quali, quando cominciarono ad affluire, catturati sulle coste africane dai musulmani e portati dai mercanti del Nord Europa, non sembra abbia avuto particolari attenzioni.

Las Casas dimostra che c'era libertà di parola
Per tornare alla sua conversione, determinata dalle prediche di denuncia degli arbitri dei coloni (tra i quali era egli stesso) pronunciate da religiosi - e ciò conferma la vigilanza evangelica esercitata dal clero regolare - fattosi prima prete e poi domenicano, Bartolomé dedicò il resto della sua lunga vita a perorare presso le autorità di Spagna la causa degli indigeni.
Occorre, anche qui, riflettere. Innanzitutto, sul fatto che il focoso religioso abbia potuto impunemente attaccare, e con espressioni terribili, il comportamento non solo dei privati ma pure delle autorità. Per dirla con l'insospettabile americano Maltby, critiche anche ben più blande non sarebbero state di certo tollerate dalla monarchia inglese, la quale avrebbe subito ridotto al silenzio l'imprudente contestatore. E questo perché (continua lo storico yankee, rovesciando un altro luogo comune) «a parte le questioni di fede, la libertà di parola fu prerogativa degli spagnoli durante il loro Secolo d'oro, come dimostra il fatto che gli archivi ci restituiscono tutta una gamma di accuse pronunciate in pubblico - e non represse - contro le autorità».

Le denuncie furono sempre prese sul serio e spesso diventarono leggi
Ma, poi, si riflette ancor meno sul fatto che questo furibondo "contestatore" non solo non fu neutralizzato, ma divenne intimo dell'imperatore Carlo V, fu da lui nominato ufficialmente Protector General de todos los indios, fu invitato a presentare progetti che, discussi e approvati malgrado le forti pressioni contrarie, divennero legge nelle Americhe spagnole.
Mai, nella storia, un "profeta" (come Las Casas stesso si considerava) fu tanto preso sul serio da un sistema politico che invece ci dipingono tra i più oscuri e terribili.
Le denunce di Bartolomé de Las Casas, dunque, sono state prese radicalmente sul serio dalla Corona spagnola e l'hanno spinta a promulgare leggi severe a difesa degli indios e poi addirittura ad abolire l'encomienda, la concessione temporanea delle terre ai privati, con grave danno dei coloni.

All'università di Salamanca nasce il diritto internazionale moderno basato sull'"eguaglianza di tutti gli uomini"
Sentiamo Jean Dumont: «Il fenomeno Las Casas è esemplare in quanto porta una conferma del carattere fondamentale e sistematico della politica spagnola di protezione degli indiani. Il governo iberico, sin dal reggente Jiménez de Cisneros, nel 1516, non si mostra affatto offeso per le denunce - pur talvolta ingiuste e quasi sempre forsennate del domenicano. Non solo il padre Bartolomé non è fatto oggetto di alcuna censura, ma i monarchi e i loro ministri, con una straordinaria pazienza, lo ricevono, lo ascoltano, riuniscono delle giunte per studiare le sue critiche e le sue proposte e anche per varare, sulle sue indicazioni e raccomandazioni, l'importante provvedimento delle "Leggi Nuove". Ancor più: sono gli avversari di Las Casas e delle sue idee che la Corona riduce al silenzio».
L'imperatore, Carlo V, per dare maggiore autorità a questo protetto che pure diffama i suoi sudditi e funzionari, lo fa fare vescovo. E anche in base alle denunce del domenicano e di altri religiosi che, all'università di Salamanca, si crea una scuola di giuristi che elaboreranno il diritto internazionale moderno, sulla base fondamentale dell"'eguaglianza naturale di tutti i popoli" e dell'aiuto reciproco tra le genti.

I numeri dei sacrifici umani degli Aztechi: 80.000 giovani alla volta
Un aiuto del quale gli indios avevano particolarmente bisogno; come ricordavamo (ma come spesso non si ricorda) i popoli dell'America Centrale erano caduti sotto l'orribile dominio degli invasori aztechi, una delle genti più feroci della storia, con una fosca religione basata sui sacrifici umani di massa. Nelle solennità, che duravano ancora quando giunsero i Conquistadores a sbaragliarli, sulle grandi piramidi che servivano da altare si giunse a sacrificare agli dei aztechi sino a 80.000 giovani per volta. Le guerre erano determinate dalla necessità di procurarsi sempre nuove vittime.
Si accusano gli spagnoli di avere provocato un tracollo demografico che abbiamo visto essere dovuto in gran parte allo "choc virale". In realtà, senza il loro arrivo, la popolazione si sarebbe ridotta ancor più ai minimi termini, vista l'ecatombe che i dominatori facevano della gioventù delle popolazioni soggiogate. L'intransigenza, talvolta il furore dei primi cattolici sbarcati, sono ben spiegabili davanti a questa oscura idolatria nei cui templi scorreva sempre sangue umano.

C'è chi vorrebbe ripristinare quelle mattanze ...
Di recente, l'attrice americana Jane Fonda che tenta, dai tempi del Vietnam, di presentarsi come "politicamente impegnata" schierandosi a difesa di cause sbagliate, ha voluto adeguarsi al conformismo denigratorio che ha travolto anche non pochi cattolici. Se questi ultimi lamentano (incredibilmente, per chi un poco conosca che cosa fossero i "culti" aztechi) quella che chiamano «la distruzione delle grandi religioni precolombiane», la Fonda si è spinta ancora più in là, affermando che quegli oppressori «avevano una migliore religione e un migliore sistema sociale di quello imposto con la violenza dai cristiani».
Le ha replicato, su uno dei maggiori quotidiani, uno studioso anch'egli americano, ricordando all'attrice (e magari ai cattolici che piangono il "crimine culturale" della distruzione del sistema religioso azteco) quale fosse il rituale delle continue mattanze sulle piramidi messicane.

Liturgia Azteca:
Eccolo: «Quattro preti afferravano la vittima scaraventandola sulla pietra sacrificale. Quindi, il Gran Sacerdote piantava il coltello sotto il capezzolo sinistro facendosi largo attraverso la cassa toracica, finché, rovistando a mani nude, non riusciva a strappare il cuore ancora pulsante e a metterlo in una coppa per offrirlo agli dèi. Dopodiché, i corpi venivano fatti precipitare dalle scale della piramide. Ad attenderli, al fondo, c'erano altri preti che incidevano ogni corpo sulla schiena, dalla nuca ai talloni, e ne strappavano la pelle in un unico pezzo. Il corpo scuoiato era preso da un guerriero che lo portava a casa e lo faceva a pezzi. I quali erano offerti agli amici, oppure questi erano invitati a casa per festeggiare con le carni della vittima. Le pelli, invece, conciate, servivano di abbigliamento alla casta sacerdotale».
Mentre così erano sacrificati i giovani e le giovani (a decine di migliaia ogni anno: il principio era che i cuori umani dovevano essere offerti senza interruzione alle divinità), i bambini erano precipitati nella voragine di Pantilàn, le donne non vergini erano decapitate, gli uomini adulti scorticati vivi e finiti poi con le frecce. E così via, con altre piacevolezze che verrebbe voglia di augurare a Jane Fonda (e a certi frati e clericali vari, oggi così virulenti contro i "fanatici" spagnoli) perché, provatele, ci dicano poi se davvero "il cristianesimo è peggio".

Il "regime" Inca
Solo un po' meno sanguinari erano gli incas, gli altri invasori che avevano ridotto in schiavitù gli indigeni più a Sud, lungo le Ande. Come ricorda uno storico: «I sacrifici umani erano praticati dagli incas per allontanare un pericolo, una carestia, un'epidemia. Le vittime erano di solito dei bambini, a volte degli uomini e delle vergini. Le vittime erano strangolate o sgozzate, a volte si strappava loro il cuore alla maniera azteca».
Tra l'altro, il regime imposto dai dominatori incas agli indios era un chiaro precursore del "socialismo reale" alla marxista. E, naturalmente, come ogni sistema di questo tipo, non funzionava, tanto che gli oppressi diedero una mano entusiasta per liberarsene ai pochi spagnoli giunti provvidenzialmente. Come nell'Europa Orientale del XX secolo, sulle Ande del XVI era vietata la proprietà privata; denaro e commercio non esistevano; l'iniziativa dei singoli era vietata; la vita privata era sottoposta a un duro regolamento di stato. E, tanto per dare un ulteriore tocco ideologico "moderno", precedendo in questo caso non solo il marxismo ma anche il nazismo, il matrimonio era permesso solo seguendo le leggi eugenetiche di stato, per evitare "contaminazioni razziali" e assicurare un razionale "allevamento umano".

Non c'era la ruota, il ferro, l'uso del cavallo e delle bestie da soma. Ci pensavano gli schiavi
A questo terribile scenario sociale, si aggiunga che nessuno, nell'America precolombiana, conosceva l'uso della ruota (se non per impieghi religiosi), né il ferro, né sapeva impiegare il cavallo. Il quale pare non fosse assente all'arrivo degli spagnoli, forse viveva in alcune zone allo stato brado, ma gli indigeni non conoscevano il modo di domarlo né avevano inventato i finimenti. Niente cavallo significava assenza anche di muli e di asini, così che - aggiungendovi la mancanza delle ruote - tutti i trasporti, in quelle zone montagnose, anche per la costruzione degli enormi palazzi e templi dei dominatori, erano fatti a spalle da torme di schiavi.
E' su queste basi che i giuristi spagnoli, nel quadro della "eguaglianza naturale di tutti i popoli", riconoscevano agli europei il diritto oltre che il dovere di aiutare genti che ne avessero bisogno. E non si può dire che non avessero bisogno d'aiuto gli indigeni precolombiani. Non si dimentichi che, per la prima volta nella storia, degli europei si confrontavano con culture tanto diverse e lontane. A differenza dì quanto faranno gli anglosassoni, che si limiteranno a sterminare quegli "alieni" che trovavano nel Nuovo Mondo, gli iberici raccolsero la sfida culturale e religiosa con una serietà che è una delle loro glorie.

Non una situazione idilliaca ma un sistema in cui riaffiorava continuamente la coscienza cristiana
Sulla colonizzazione spagnola nelle Americhe e su denunce come quelle di Las Casas (continuiamo il nostro discorso), è significativo quanto scrive il protestante Pierre Chaunu: «Ciò che deve stupirci non sono gli abusi iniziali, è semmai il fatto che siano stati tanto contrastati da una resistenza che veniva, a tutti i livelli - quelli della Chiesa, ma anche quelli dello Stato - da una profonda coscienza cristiana».
Così, opere come la «Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie» di fra Bartolomè furono utilizzate senza scrupoli dalla propaganda protestante e poi illuminista, mentre sono - per dirla ancora con Chaunu - «il più bel titolo di gloria della Spagna». Testimoniano, in effetti, della sensibilità al problema dell'incontro con un mondo del tutto nuovo e inatteso, sensibilità che sarà a lungo assente nel colonialismo prima protestante e poi "laico", gestito dalla brutale borghesia europea dell'Ottocento, ormai secolarizzata.

Las Casas fu sempre preso sul serio... forse troppo
Abbiamo visto come, dalla Corona in giù, non solo non si prendano provvedimenti contro una contestazione come quella di Las Casas, ma si tenti di correre ai ripari con leggi che tutelino quegli indios dei quali il "contestatore" stesso sarà proclamato Protector General. Per dodici volte il frate varcherà l'Oceano per perorare presso il governo della Madrepatria la causa dei suoi protetti: e, sempre, sarà onorato e ascoltato e i suoi cahiers de doléances saranno passati a commissioni che ne trarranno leggi, oltre che a professori che daranno vita al moderno "diritto delle genti".
Siamo di fronte a un fatto inedito, che non ha esempi nella storia dell'Occidente: ed è tanto più sorprendente se si aggiunge che Las Casas non fu solo preso sul serio ma - probabilmente - fu persino preso troppo sul serio.

Anche perché 20 milioni di indios massacrati sono un po' troppi (lo ha scritto Las Casas)
Dicemmo già, in effetti, di un sospetto - avanzato da chi ne ha indagato la psicologia - addirittura di uno "stato di allucinazione", di una "esaltazione mistica" in questo convertito. Per dirla con l'insospettabile americano William S. Maltby, «le esagerazioni di Las Casas lo espongono a un giusto e indignato ridicolo». O, per citare Jean Dumont: «Nessuno studioso che si rispetti può prendere sul serio le sue denunce estreme». Scegliendo ancora, ecco qui, tra i mille, il laicissimo Celestino Capasso: «Trascinato dalla sua tesi, il domenicano non esita a inventare notizie, precisando persino a 20 milioni il numero degli indios massacrati, o accogliendo per fondate notizie fantastiche, come l'uso dei conquistatori di farsi accompagnare da schiavi per il pasto dei cani da combattimento...».
Come dice Luciano Perena, dell'Università di Salamanca: «Las Casas si perde sempre in cose vaghe e imprecise. Non dice mai quando né dove si consumarono gli orrori che denuncia, né si cura di stabilire se costituiscano l'eccezione. Al contrario: contro ogni verità, lascia intendere che le atrocità sarebbero state il modo unico e abituale della Conquista». Per lui, personalità pessimista e ossessiva, il mondo è in bianco e nero. Da una parte i suoi malvagi connazionali, quasi belve scatenate; dall'altra parte gli indigeni, visti, testualmente, come «gente che non conosce sedizioni o tumulti», che è «del tutto sprovvista di rancore, di odio, di desiderio di vendetta». In questo senso, è tra i predecessori del mito del "buon selvaggio", caro agli illuministi del Settecento come Rousseau, e che continua ad agire in certo attuale, ingenuo terzomondismo secondo il quale tutti gli uomini sono santi, purché non siano europei o nordamericani: i soli, ovviamente, che nascano marchiati da una colpa imperdonabile.

Un utopista con buone intenzioni ma poca presa sulla realtà
Stupisce, in un frate, questa negazione del peccato originale, questa mancanza di realismo e anche di giustizia: da una parte starebbero degli angeli indifesi e dall'altra dei demoni spietati. Tra l'altro, quell'Hernán Cortés che mise fine al grande impero degli aztechi e che è presentato da Las Casas a tinte fosche (che pare non meritasse del tutto) era anche colui che dalle piramidi vide scendere il fiume di sangue umano delle vittime sacrificate. Mai un'impresa come quella di simili Conquistadores avrebbe potuto realizzarsi con le buone maniere: qui, poi, la durezza era considerata sacrosanta dagli spagnoli perché di quelle popolazioni "mitissime", secondo Las Casas, facevano pur parte gli aztechi - e poi gli incas, di cui si occuperà Francisco Pizarro - con quel loro "vizietto" di strappare il cuore a decine di migliaia di giovani.
Come tutti gli utopisti, Las Casas non superò la prova della realtà: tra i molti altri privilegi, il governo gli concesse di provare a mettere in pratica, in appositi territori messigli a disposizione, il suo progetto di evangelizzazione tutto "dialogo" e scuse. Ogni volta, finì col massacro dei missionari o nella loro fuga, incalzati dai cosiddetti "buoni selvaggi" muniti di temibili frecce avvelenate. Come sempre, i sogni, messi in pratica, si rovesciano in incubi.
Così, per dirla con il suo più recente biografo, Pedro Borgés, docente alla Complutense di Madrid, Bartolomé si rifugiò di nuovo nell'irrealismo, «predicando sempre non ciò che si poteva, ma ciò che si sarebbe dovuto fare». E comunque lo stesso Borgés che mette in guardia dal pensare che Las Casas sia il precursore di certa marxisteggiante "teologia della liberazione": da buon convertito, ciò che gli interessava era la salvezza eterna. La sua ossessione per gli indios non era per mettere al riparo i loro corpi, bensì per salvare le loro anime. Solo se presi nel verso giusto avrebbero accettato il battesimo, senza il quale sarebbero andati all'inferno sia essi che gli spagnoli. Siamo, dunque, all'opposto di chi oggi non vede che la dimensione orizzontale e che, quindi, nulla ha a che fare con il mistico Las Casas.

Una cristianità dalla vivace fede "meticcia" incarnata nell'incontro tra diverse culture
Comunque, come riconosce Maltby, «quali che fossero i difetti del suo governo, nessuna nazione della storia eguagliò la Spagna nella preoccupazione per la salvezza delle anime dei suoi nuovi sudditi». Fino a quando la corte di Madrid non fu inquinata da massoni e "illuminati", non si badò né a spese né a difficoltà per onorare gli accordi con il Papa, che aveva concesso i diritti del Patronato contro precisi doveri di evangelizzazione. I risultati parlano: grazie al sacrificio e al martirio di generazioni di religiosi mantenuti con larghezza dalla Corona, nelle Americhe si creò una cristianità che è ora la più numerosa della Chiesa cattolica e che, malgrado i limiti di ogni cosa umana, ha dato vita a una vivace fede "meticcia", incarnata nell'incontro vitale di diverse culture. Lo straordinario barocco del cattolicesimo latino-americano è il segno più evidente di come (malgrado gli errori e gli orrori) sia felicemente riuscita una delle più grandi avventure religiose e culturali. A differenza che nel Nord America, qui cristianesimo e culture precolombiane hanno dato vita a un uomo e a una società davvero nuovi rispetto alla situazione precolombiana.

L'opera di Las Casas fu usata dalla guerra psicologica anticattolica
Pur nelle sue esagerazioni, generalizzazioni illecite, invenzioni e diffamazioni, Las Casas è testimone importante di un Occidente non dimentico dei moniti evangelici. Abusivo fu isolarlo dal dibattito in corso allora nella penisola iberica, per strumentalizzarlo come arma da guerra contro il "papismo". Fingendo oltretutto di ignorare che, contro la Spagna, si utilizzava la voce di uno spagnolo (membro, tra l'altro, di un ordine nato in Spagna), ascoltato e protetto dal governo e dalla Corona di quella Spagna stessa.
«Arma cinica di una guerra psicologica», così Pierre Chaunu definisce l'uso che le potenze protestanti fecero dell'opera di Las Casas. Le redini dell'operazione antispagnola furono prese innanzitutto dall'Inghilterra; per ragioni politiche ma anche religiose, poiché in quell'isola il distacco da Roma di Enrico VIII aveva creato una Chiesa di Stato abbastanza potente e strutturata da porsi come capofila delle altre comunità riformate in Europa. La lotta inglese contro la Spagna fu vista così come la lotta del "puro Evangelo" contro "la superstizione papista".

Quelle immagini disegnate da un olandese antipapaista
Una parte importante in questa operazione di "guerra psicologica" fu giocata anche dai Paesi Bassi e dalle Fiandre, impegnati contro gli spagnoli. Fu proprio un fiammingo, Theodor De Bry, che disegnò le incisioni per accompagnare una delle tante edizioni fatte in terra protestante della «Brevissima Relazione»: disegni truculenti, dove gli iberici sono rappresentati mentre si danno a ogni sorta di sadiche efferatezze contro i poveri indigeni. Poiché queste del De Bry (il quale, naturalmente, lavorò di fantasia) sono praticamente le sole immagini antiche della Conquista, esse furono continuamente riprodotte e ancora adesso stanno, ad esempio, su molti manuali scolastici. Inutile dire quanto abbiano contribuito al formarsi della "Leggenda nera".

E dopo: Napoleone che però non durò
A proposito della quale - tanto per dare qualche altro elemento ai molti già elencati - va anche osservato che sempre si dimentica di riflettere su ciò che avvenne dopo il dominio spagnolo. Il Paese iberico, si sa, fu invaso da Napoleone e (malgrado quella tenace, invincibile resistenza popolare che fu il primo segno della fine per l'impero francese), dovette abbandonare a se stessi gli immensi territori americani.

Quando si ristabilì l'autorità spagnola c'erano i borghesi che non avevano intenzione di ricominciare a tutelare i nativi
Quando la stella napoleonica si eclissò e la Spagna riebbe il suo governo, era ormai troppo tardi per ristabilire oltre Oceano lo statu quo: furono inutili i tentativi di domare la rivolta dei "creoli", cioè della borghesia bianca ormai radicata in quei luoghi. Quei borghesi benestanti erano coloro che da sempre avevano relazioni tese con la Corona e il governo della Madrepatria, accusati di "difendere troppo" gli indigeni e di impedirne lo sfruttamento. Soprattutto, l'ostilità creola si dirigeva contro la Chiesa e in particolare contro gli ordini religiosi perché non solo vegliavano affinché fossero rispettate le leggi di Madrid a tutela degli indios ma anche perché (a partire da subito, prima ancora di Las Casas: la prima denuncia contro i Conquistadores risuonò nell'Avvento del 1511 in una chiesa dal tetto di paglia a Santo Domingo e la pronunciò padre Antonio de Montesinos) sempre si erano battuti affinché quella legislazione fosse continuamente migliorata. Si è forse dimenticato che le spedizioni armate per distruggere le reducciones dei gesuiti erano state organizzate dai proprietari spagnoli e portoghesi, quegli stessi che fecero pesanti pressioni sulle rispettive Corti e governi perché la Compagnia di Gesù fosse definitivamente soppressa?

La borghesia massonica non ne voleva sapere della Chiesa e della tutela degli indios
Anche a causa di questa opposizione alla Chiesa, vista come alleata degli indigeni, l'élite creola che guidò la rivolta contro la Madrepatria era inquinata in profondità dal Credo massonico che diede ai moti di indipendenza il carattere di duro anticlericalismo - se non di anticristianesimo - che è continuato sino ai giorni nostri. Sino - ad esempio - al martirio dei cattolici nel Messico della prima metà del nostro secolo. I «Libertadores», i capi della insurrezione contro la Spagna, furono tutti alti esponenti delle Logge: del resto, proprio da quelle parti si formò alla ideologia liberomuratoria Giuseppe Garibaldi, destinato a diventare Gran Maestro di tutte le massonerie. Un'occhiata alle bandiere e ai simboli statali dell'America Latina rivela l'abbondanza di stelle a cinque punte, triangoli, piramidi, squadre e di tutto l'armamentario del simbolismo dei "fratelli".
Sta di fatto che, proprio in nome dei principi di fratellanza universale massonica e dei "diritti dell'uomo" di giacobina memoria, i creoli, non appena liberati dall'impaccio delle autorità spagnole e della Chiesa, poterono disfarsi anche dell'impaccio delle leggi di tutela per gli indios. Quasi nessuno dice l'amara verità: dopo il primissimo periodo (fatalmente duro per l'incontro-scontro di culture tanto diverse) della colonizzazione iberica, nessun altro periodo fu tanto disastroso per gli autoctoni sudamericani come quello che inizia agli albori del XIX secolo, con l'assunzione del potere da parte della borghesia sedicente "illuminata".

Escono di scena Chiesa e Spagna: si sopprimono le lingue locali, si distruggono le culture indigene...
Al contrario di quanto vuol far credere la "leggenda nera" protestante e illuminista, l'oppressione senza limiti, il tentativo di distruzione delle culture indigene inizia con l'uscita di scena della Corona e della Chiesa. E' da allora, ad esempio, che si inizia un'opera sistematica di distruzione delle lingue locali, per sostituirle con il castigliano, idioma dei nuovi dominatori che pur proclamavano di avere assunto il potere "in nome del popolo". Ma era un "popolo" costituito in realtà solo dalla esigua classe dei proprietari terrieri di origine europea.

...si prendono provvedimenti per impedire la mescolanza razziale...
Fu da allora che spuntarono quei provvedimenti, che mai erano stati presi durante il periodo "coloniale", per impedire il "meticciamento", la mescolanza razziale e culturale. Mentre la Chiesa approvava e incoraggiava i matrimoni misti, i governi "liberali" li contrastarono e spesso li vietarono del tutto. Si cominciò, cioè, a seguire l'esempio così poco evangelico delle colonie anglosassoni al Nord: anche qui, non a caso, era stata la massoneria a guidare la lotta per l'indipendenza. Si crea allora un fronte comune tra Logge dell'America Settentrionale e di quella Meridionale, prima per battere la Corona di Spagna e poi la Chiesa cattolica. Nasce anche così la dipendenza - che contrassegnerà tutta la storia che continua sino ad ora - del Sud nei riguardi del Nord. E' curioso: quei "progressisti" che inveiscono contro le colpe della colonizzazione cattolica spagnola e denunciano al contempo la sudditanza dell'America latina verso quella yankee, non sono evidentemente consapevoli che questa loro duplice protesta è contraddittoria: re di Spagna e papi furono, finché poterono, i grandi difensori dell'identità religiosa, sociale, economica delle zone "cattoliche". Il "protettorato" nordamericano è stato determinato anche dai criollos, i creoli, «i ricchi coloni che vollero scrollarsi di dosso autorità spagnole e religiosi per poter far meglio i loro comodi e i loro affari». Così Franco Cardini, il quale, a proposito dei nordamericani chiamati a soccorso (spesso occulto) dei "fratelli" in lotta contro Corona e Chiesa, aggiunge: «Si pensi alle porcherie che hanno accompagnato l'egemonizzazione dell'area panamense e la guerra di Cuba alla fine del XIX secolo; si pensi al costante appoggio americano offerto al governo laicista messicano, che da decenni mantiene una Costituzione che, nel suo dettato più che anticlericale, anticattolico, umilia e offende i sentimenti della maggior parte del popolo del Messico: e gli Usa hanno appoggiato banditi come Venustiano Carranza quando si è profilata la possibilità che qualcosa potesse cambiare. E non hanno mosso un dito durante la sanguinosa persecuzione anticattolica degli anni Venti». Oggi, si sa, il governo americano favorisce e finanzia il proselitismo di sette protestanti che, sradicando il popolo dalle sue tradizioni di quasi mezzo millennio, costituisce una grave violenza anche culturale.

Fine del "barocco meticcio" l'architettura è "puramente" europea
Gli sforzi "razzisti" del dopo Spagna sono tragicamente simboleggiati dall'arte: mentre le due culture, prima, si erano meravigliosamente intrecciate, dando vita al capolavoro del barroco mestizo, il "barocco meticcio", si divisero di nuovo con l'arrivo al potere degli illuministi. Alla architettura straordinaria delle città coloniali e delle missioni si sostituì l'architettura solo di imitazione europea delle nuove città borghesi, dove per i poveri indios non c'era più alcun posto.
Postato il 12 ottobre 2011