20 novembre 2011

Adesso Frau Merkel avrà un suddito in più

Il governo Monti ha già rinunciato a gover­nare. La rinuncia è in una dichiarazione di sudditanza alla dottrina monetaria te­desca che è all’origine dell’attuale disa­stro finanziario...
di di Giuliano Ferrara
Il governo Monti ha già rinunciato a gover­nare. La rinuncia è in una dichiarazione di sudditanza alla dottrina monetaria te­desca che è all’origine dell’attuale disa­stro finanziario capace di scuotere fatalmente il futuro della moneta comune e dell’Unione: non c’è ragione, ha detto il professore,di intro­durre cambiamenti nel ruolo della Banca cen­trale europea. Fatto, anzi disfatto. Governare vuol dire prendere un problema e risolverlo, af­frontare le questioni strategiche e non limitar­si al minimalismo. Il problema d’emergenza in nome del quale è stato tolto di mezzo Berlusco­ni, capo di un esecutivo eletto, e rimpiazzato con un ministero parlamentare vecchia scuo­la, per di più tecnico e connotato fin dall’origi­ne da uno sfregio alla sovranità nazionale trave­stito da cortesia e incoraggiamento europei, il governo del Preside con il suo Consiglio di fa­coltà, si chiama «titoli pubblici di debito dello stato italiano espressi in euro». Gli eccessivi rendimenti richiesti dal mercato finanziario, la ormai famosa Lady Spread, sono un attenta­to progressivo al lavoro, alle imprese, alle fami­glie, e minacciano una crisi di liquidità capace di inchiodare all’immobilismo il sistema del credito e portarci dritti in recessione, con una tendenza deflazionistica di lungo periodo che confermerebbe, invece di invertirla, la cronica in­capacità di crescere a tassi di svi­luppo accettabili dell’economia reale italiana.
Questa la vulgata universalmente accettata. Que­sto il «FATE PRESTO» gridato in prima pagina dal giornale della Confindustria, poveretta. A scon­to dei catastrofismi demenziali e politicamente, anzi faziosamen­te, motivati, questa vulgata è an­che la verità.
Non è una verità piccola. Richie­de riflessione e coraggio rimette­re in discussione l’ortodossia ger­manica della moneta comune, che non è comune perché alla sua prima vera prova diventa un fatto­r­e di affossamento di mezza Euro­pa, Francia compresa, e di tutela della sola economia tedesca con la sua virtuosa possanza. Le cro­nache riferiscono che Berlino è di­visa: gli industriali sono tentati di cambiare le cose, perché sanno che le conseguenze della crisi da debito si faranno sentire anche per le loro esportazioni, ma la Cancelleria e le euroburocrazie modellate sulla Bundesbank so­no succubi della paura dell’infla­zione, che negli anni Venti pro­dusse la grande catastrofe tede­sca. Non solo, lo stato tedesco esprime una concezione del mer­cato, la famosa «economia socia­le di mercato» di cui Monti è testi­mone accademico per l’Italia, che è in flagrante contraddizione con la mondializzazione della re­te finanziaria e con la scelta di da­re una moneta cosiddetta comu­ne a economie che non hanno molto in comune e che non di­spongono di un potere politico fe­derale in grado di armonizzarle nei loro pilastri: il welfare, le tas­se, la previdenza e la libertà dei commerci e della produzione dai lacci corporativi.
Lo scontro, sot­tolineato in questi giorni in modo clamoroso dall’invito pressante degli anglosassoni a cambiamen­ti radicali nella gestione della cri­si da debito dell’euro, è tra un mo­dello capitalistico di crescita e un modello socialistoide di stagna­zione, fondato su tasse e prelievi punitivi socialmente e concepiti nell’insana idea che il debito non è un problema, è una colpa. Ha scritto il Wall Street Journal, ed è solo l’ultimo caso tra mille, che «il fardello del debito italiano non ha le sue radici nei recenti eccessi del governo- specie se confronta­ti con altri paesi del mondo- ben­sì deriva in gran parte da politiche introdotte più di trent’anni fa, che posero le fondamenta per l’euro». Abbiamo al governo un campio­nario della classe dirigente che ha assecondato e messo in opera quelle politiche, che crede in quel modello, e che si appresta a fare del motto «tasse & equità» il nuo­vo mantra controriformista e illi­berale della nazione.
E invece gli italiani per tre volte avevano vota­to la libertà economica, che non ha saputo realizzarsi per i bestiali difetti e le anomalie della classe di­rigente berlusconiana. Con il pa­radosso che un governo inchioda­to al dottrinarismo rigorista cieco di Tremonti ora è sostituito, e di­cono senza ridere che sia per ga­rantire la cura della crescita, da un governo che di quel dottrinari­smo è il portavoce storico. Le vo­glio proprio vedere le riforme libe­rali di Monti. Voglio vedere come si trasformerà in sviluppo il ripri­stino di buoni rapporti protocolla­ri con la Merkel a Berlino.
Voglio vedere se andremo oltre la ricapi­talizzazione del debito pubblico, con una finta soluzione della cri­si, fatta tutta a spese del ceto me­dio e della povera gente. Comin­ciamo male, e se la destra non riu­scirà a definire una linea seria di uscita dalla crisi dopo la fase equi­voca del governo di tregua e di so­spensione della democrazia, fini­remo peggio.
«Il Giornale» del 20 novembre 2011

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