06 novembre 2011

Il Credo, la verità e la ragionevolezza. Quell'araldo e l'annuncio dei primi cristiani

Versione integrale dell'intervento al convegno dei Nuovi Evangelizzatori
di Vittorio Messori
Il tempo assegnatoci è ristretto. Meglio così, siamo chiamati ad imitare la secchezza, la volontà di sintesi dei Vangeli. Dobbiamo tornare alla consapevolezza che ciò in cui crediamo, ciò da cui tutto il resto deriva, è racchiuso (così ci insegna san Paolo) in tre sole parole: << Gesù è risorto >>. Da qui la conseguenza: << Dunque, Gesù è il Cristo annunciato dai profeti e atteso da Israele>>. E’ ciò che i primi cristiani chiamavano il kérygma, cioè il grido dell’araldo che –per strade e piazze– annunciava al popolo le novità urgenti, quelle che tutti dovevano sapere.
Credo che la rievangelizzazione dell’Occidente, chiestaci con sacrosanta insistenza da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, non sia che questo: non, innanzitutto, complesse dottrine, bensì il ricominciare dal kérygma, dalla base su cui tutto si regge. Tornare a proclamare un semplice e al contempo scandaloso: Jesùs estì kyrios, Gesù è il Signore.
Non tutti, certo, si fermeranno ad ascoltarci. E chi lo farà, ci opporrà subito: << Sono venti secoli che ce lo ripetete. Ma quali ragioni ci portate? Siamo uomini moderni, abituati alla critica: perché dovremmo ancora credere che quell’oscuro ebreo finito in croce duemila anni fa sia il Signore, il Figlio di Dio, Dio egli stesso? Perché lui e non i tanti altri che annunciano un altro Dio? Ma, prima ancora, portateci prove credibili che un Dio, quale che sia, esiste davvero>>. Una replica legittima. In fondo, fu quella stessa in cui incappò Paolo, quando << si mise ad annunciare Gesù in mezzo all’Areòpago>> e gli chiesero ragione dello scandalo e della follia che annunciava.
Il rapporto tra la fede e la ragione. La fede che va, certo, al di là della ragione, ma che non la contraddice. Ecco il nostro problema, ecco il problema di sempre, ma di cui molti, nella Chiesa stessa, non sembrano consapevoli. Mi si permetta allora di rifarmi, per quanto vale, alla mia esperienza. Forse, nel suo piccolo, può essere esemplare. Famiglia di anticlericali emiliani, 18 anni di studi, a Torino, tutti in scuole laiche, dove regnava un rigoroso agnosticismo. Dio non lo si affermava ma neanche lo si negava: semplicemente, non era un problema di cui occuparsi in classe. All’università, alla facoltà di Scienze Politiche, divenni l’allievo prediletto dei grandi maestri del laicismo italiano, con i quali feci anche la tesi di laurea. Anche qui non vigeva l’ateismo -considerato volgare perché religione esso stesso, seppure al contrario- ma dominava una radicale indifferenza: poiché la ragione, il solo strumento di cui disponiamo, non è in grado di risolvere il problema, perché perdere tempo e fatica a discutere se Dio esista o no e se sia quello adorato in una o nell’altra religione?
Proprio mentre scrivevo la tesi di laurea, senza che lo cercassi o lo aspettassi incappai in un incontro, che fu anche uno scontro, con quel Mistero del Cristo che sino ad allora avevo respinto senza nemmeno esaminarlo, tanto mi sembrava inammissibile. Fu un’avventura spirituale imprevista e sconvolgente, delle cui conseguenze ancora vivo, ma che solo da poco mi sono deciso a tentare di descrivere in un libro. Io non volevo diventare cristiano, meno che mai cattolico, ma ne fui costretto da un’evidenza interiore alla quale non potei sfuggire. Ebbene, passati i primi tempi, quelli dello stordimento di chi ha visto spalancarsi una dimensione inimmaginabile, ecco subito i dubbi e i problemi. Ero stato allevato nel culto di una ragione che diventava razionalismo, dunque cominciai a domandarmi: <>.
Il fatto è che la fede è una realtà soprannaturale che si incarna in un uomo concreto, dunque ha bisogno di conferme della ragione; è il credere che, per essere umano, deve apparirci ragionevole; è la scommessa su Gesù che deve apparire fondata. Quanto a me, per arrendermi alla dimensione inedita che mi pervadeva, avevo bisogno di un sostegno: quello, per dirlo chiaro, di una apologetica adeguata. Cominciai a chiedere aiuto a quei miei nuovi compagni, a quei cattolici che fino ad allora mi erano estranei. Ma erano gli anni in cui il Concilio finiva, nella Chiesa era un ribollire di risse ed alterchi; eppure, come scopersi con rammarico, erano dispute tutte interne, clericali. Ci si affrontava sull’organizzazione della istituzione ecclesiale, sul ruolo del papa, dei vescovi, dei preti, dei laici, delle donne, della liturgia. Nessuno parlava di fede né meno che mai delle sue ragioni, la si dava come un dato, scontato, acquisito, mentre si battagliava per quale dovessero essere, per il cattolico, l’etica, l’impegno politico, sociale, economico, culturale. Ma queste non erano che conseguenze di una causa prima, il sì alla verità del Credo, che nessuno si occupava di esaminare e verificare. Anzi, chi avesse voluto farlo sarebbe stato squalificato con termini come “apologeta“, “apologetico“ che erano divenuti come un insulto, un marchio di anacronismo e di integralismo.
Ebbene, non trovando gli strumenti che cercavo, decisi (con l’imprudenza e l’impazienza del neofita) di farmeli da solo. Questi clericali –preti e laici– avevano nascosto l’apologetica? Ebbene, avrei cercato di disseppellirla: per me innanzitutto, per poi offrirla ad altri. Fu così che, dopo una lunga ricerca, osai pubblicare trecento pagine dal titolo Ipotesi su Gesù, dove cercavo di applicare la ricerca storica e archeologica, nonché il buon senso estraneo alle ideologie del momento, alle origini stesse di una Fede che non è una dottrina ma una Persona. Alla diffidenza con cui quel libretto fu accolto da certa intellighenzia clericale fece contrasto lo straordinario successo popolare, nel mondo intero. Successo che, del resto, ha accolto molti degli altri libri che mi fu dato di pubblicare: tutti scritti per cercare di rispondere alle domande di credibilità, di ragionevolezza della fede.
Questo interesse è stata la conferma di ciò di cui sono stato sempre consapevole : non può esserci -oggi meno che mai- un riannuncio della fede se, al contempo, non se ne mostra la ragionevolezza. Non si incide sulla società o sulla cultura riproponendo la prospettiva evangelica, se non si affronta prima il problema di Cristo e della verità del suo vangelo. I problemi con cui oggi i cattolici devono confrontarsi hanno una radice spesso inconfessata eppure drammatica : la caduta della fede, la riduzione di Gesù a un maestro di morale, del Nuovo Testamento a oscuro pastiche di giudaismo e di paganesimo, del miracolo a mito, della speranza escatologica a impegno secolare. Ben prima di ogni riforma istituzionale e di ogni predica morale o sociale, dobbiamo ritrovare il Credo, quello che recitiamo nella Messa, nel senso pieno. Ma come ritrovare questo Credo se ben pochi ci mostrano le ragioni per farlo? Quanti, nella Chiesa, ci aiutano a rassicurarci che il cristiano non è, come è stato detto di recente, “semplicemente un cretino“? Anche per questo potrà essere davvero prezioso questo Pontificio Consiglio che il Santo Padre ha voluto creare ed affidare a mons .Rino Fisichella, non a caso specialista di teologia fondamentale, il nome alternativo dell’apologetica. Il primo passo per una nuova evangelizzazione, comunque, è semplice e al contempo impegnativo. Prendere, cioè, sul serio l’esortazione di Pietro ad essere «sempre pronti a dare le ragioni della speranza che è in noi». Con chiarezza e decisione e al contempo, come ci ammonisce lo stesso Pietro, «con dolcezza e rispetto».

Pubblicato con molti tagli su «Il Corriere della Sera» del 17 ottobre 2011

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