23 novembre 2011

Il fiore nero della violenza e il suo inquieto antidoto

La cronaca che ci turba e ci riguarda
di Davide Rondoni
Cosa ti succede Italia? Cosa sta sfigurando il tuo volto? La crisi? Le segrete e manifeste cupidigie di coloro che ammucchiano soldi affossando popoli e nazioni? No, non si tratta innanzitutto di questo. Ti sta sfigurando la violenza. Un Paese più povero non è necessariamente un Paese peggiore.
Ma un Paese più violento è un posto invivibile. Manca l’aria a veder in giorni come questi fatti di cronaca violentissimi.
Violenza banale. Efferata e micidiale. Violenza di furti miseri. Di assalti senza nessun rispetto, nemmeno per l’età. E violenza esplosa nella grande futilità di liti da parcheggio. Donne uccise da quasi ex amanti. Persone uccise per rapine scarse. Gente investita da auto usate come arma. In molti casi ce la caviamo pensando: si tratta di raptus. Hanno perso la testa. Come se la testa si perdesse tutta d’un colpo. E non progressivamente, millimetricamente tutti i giorni, tutti i minuti un poco. Il fiore amaro e inguardabile della violenza non spunta improvvisamente nei cervelli e nel petto. La pianta velenosa della violenza cresce in mezzo alla malora che smangia piano piano il cuore e la mente. Non si dica: è impazzito. Non si dica: sono diventati delle bestie. Non accade all’improvviso. Il gesto violento è l’ultimo gesto di una serie di pensieri, di mezzi pensieri, di omissioni, di immaginazioni.
La violenza è nutrita da linfe quotidiane. Non è un affare semplice. Gli antropologi ce lo spiegano. La violenza non viene dal nulla. È una presenza latente in ognuno di noi. Una possibilità. Qualcosa che giace in noi come un cane che dorme. O meglio un seme di inarrestabile forza. Se lo innaffi tutti i giorni un poco, poi non devi stupirti se questo mostro un giorno, per una sciocchezza, ti domina. Quella circostanza si aggiunge a montagne di sciocchezze vissute innaffiando il seme buio. Così 'd’improvviso' la pianta velenosa ti domina ed esce dalla bocca e dalle braccia, esplode il suo frutto nel cuore. E tu non sei più un uomo, ma una macchina da guerra. Per pochi istanti, un’ora, un minuto. Ma a volte basta questo per compiere – lo abbiamo visto – gesti irreparabili. Dalle lunghissime, inguaribili conseguenze.
La violenza viene dal cuore delle persone e quindi dal cuore delle società. Non sboccia fiore nero e orrendo nel vuoto, ma è rampicante silenzioso e inarrestabile. Arriva a coprire gesti che dovrebbero essere normali, come cedere un parcheggio, a inghiotte circostanze che dovrebbero essere occasione di pazienza, come la fine di un amore.
Stiamo nutrendo questo rampicantissimo fiore nero, e quel che è peggio senza accorgercene. Lo stiamo coltivando giustificandoci tutti i giorni, fino al giorno dove accade l’ingiustificabile. I colpevoli di questi recenti atti di violenza non sono quasi mai mostri usciti da circhi dell’orrore. Non erano quasi mai riconoscibili, 'prima'. Segni particolari nessuno. Finchè non è uscita dalla mente e dalle braccia la malapianta nutrita tutti i giorni. Coltivata addirittura con qualche velo della innocenza presunta, garantita da abitudini, dal 'così fan tutti', da tante piccole irresponsabilità. Facendo finta di esserne immuni. Come se la violenza fosse una malattia solo di certe fasce, di certe figure, di certi quartieri. Di certa gente che non siamo noi. E invece no, l’Italia sta diventando violenta. E il contrario della violenza non è la quiete degli imbelli. Né l’utopia di chi immagina un mondo privo di violenza, e nemmeno la forza della polizia. Il contrario della violenza è un’altra forza, più energica: quella della costruzione.
In un’epoca in cui sentiamo quasi solo intellettuali, pubblicitari, cronisti, programmi bravi a corrodere, a spaccare, ad avvilire, distruttivi non ci si può stupire se langue la forza della costruzione e alligna maggiore forza di violenza. Quando si costruisce c’è meno spazio per le erbacce, per i rovi, per le piante velenose. Avvertiva un grande poeta: «Uomini siate non distruttori». E i poeti sono profeti realisti.
«Avvenire» del 23 novembre 2011

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