01 novembre 2011

Il genio dei nuovi media? Un profetico conservatore

Il fatto di essere antimoderno e un po’ bigotto non impedì a McLuhan di intuire con 50 anni d’anticipo la rivoluzione di Internet. Ecco perché
di di Alessandro Gnocchi
Per Marshall McLuhan il mondo era spacciato. Troppa tecnologia trangugiata in pochi anni. Egli non sopportava la standardizzazione della società dovuta al progresso scientifico: la massa rischiava di schiacciare l’individuo. La televisione, secondo lui, era un modo per impacchettare e omogeneizzare la cultura. I media elettronici, all’epoca agli albori, avrebbero cambiato il nostro cervello, diventandone un’estensione; avrebbero capovolto millenni di evoluzione, ri-tribalizzando l’umanità; avrebbero posto fine al dominio della parola scritta, alla Galassia Gutenberg, riconducendoci all’oralità. Non ci vedeva niente di buono in tutto ciò. Eppure il nuovo «villaggio globale» interconnesso, così chiamò la nostra civiltà incipiente, era molto affascinante... McLuhan, nei momenti duri, trovava conforto nella religione cattolica. Da convertito in età adulta, faceva privatamente sfoggio di un integralismo da competizione, spesso accompagnato da una certa rabbia da fresco apologeta della Chiesa. Il fatto di essere un fiero antimoderno non gli impedì di occuparsi d’idee nuove, senza atti militanti che non fossero lo studio. Era suo dovere: l’universo, creato da Dio, non poteva essere una massa caotica d’informazioni contraddittorie. Doveva esserci un disegno, o almeno alcune tendenze universali. Qualcuno doveva prendersi la briga di capirle, interpretarle, divulgarle. Senza la presunzione di orientarle o cambiarle, ma almeno mettendo in guardia sui possibili rischi ai quali l’uomo sarebbe andato incontro. Quel qualcuno sarebbe stato lui: Marshall McLuhan.
Nato in Canada nel 1911, Marshall trova la sua America in Europa, a Cambridge. In Inghilterra, negli anni Trenta, gli atenei sono aperti all’innovazione. McLuhan è un letterato. La base della sua istruzione è la retorica rinascimentale. I suoi autori prediletti, a parte numerate eccezioni (Chesterton, Pound, Eliot, Yeats, Joyce) non vanno oltre il XIX secolo. In Gran Bretagna entra in contatto con la Nuova Critica di F.R. Leavis. Si convince che la biografia degli scrittori è un contorno poco importante, il testo è tutto ciò che conta. Inizia quindi a concentrarsi sui modi in cui l’autore influenza i suoi lettori: si occupa della forma e, appunto, della retorica. Leavis lo spinge ad applicare le stesse categorie alla modernità. La pubblicità e la tecnologia, ad esempio, non trasformano la mente? Non esercitano un’influenza sulla società? McLuhan è l’uomo giusto per trovare le risposte: la consapevolezza del divino lo rende immune da ogni forma di sentimentalismo.
Gli anni Sessanta, a Toronto, segnano il trionfo accademico di McLuhan. I fondi non mancano e in città l’ambiente è stimolante. Ci sono il critico letterario Northop Frye, con il quale ingaggia duelli intellettuali, e il pianista Glenn Gould, compagno di chiacchiere notturne. Nel 1962 esce il capolavoro di McLuhan, La galassia Gutenberg, seguito a ruota da Gli strumenti del comunicare (1964). Se La galassia Gutenberg suona la campana a morto per la parola scritta, Gli strumenti del comunicare contiene l’aforisma più celebre di McLuhan: «Il medium è il messaggio». Il contenuto apparente dei media elettronici è irrilevante: l’impatto sulla società è prodotto dal medium stesso. Emerge il concetto di villaggio globale, il mondo connesso dai media elettronici, pronto a essere ri-tribalizzato da uomini per i quali i concetti di spazio e tempo sono radicalmente diversi rispetto alle generazioni precedenti. Emerge il concetto di uomo disincarnato, asincrono e ubiquo: è un insieme di informazioni che abita nel cyberspazio. McLuhan sta descrivendo il mondo al tempo di Internet, decenni prima che il World Wide Web sia una realtà famigliare. Arriva anche il successo di massa. Eppure il declino è dietro l’angolo. A causa di una rara conformazione del sistema circolatorio, lo studioso soffre di continui mini-ictus. Nel 1979 un colpo più forte dei precedenti lo priva della parola. Muore nel 1980.
Vale la pena di ricordare un paio di cose. I suoi studi, oggi celebratissimi, furono stroncati con piacere sadico dai suoi colleghi che chiedevano prove: quarant’anni dopo possiamo dire che le hanno ottenute. L’aspetto anti-moderno del suo pensiero è stato rimosso. McLuhan stesso non l’ha mai messo in primo piano, ma le sue idee, oltre a investigare il futuro, contenevano anche l’antidoto per correggerne le storture. Ora è ricordato come un tecno-entusiasta. Sappiamo che non è così. Tra le numerose iniziative che quest’anno hanno restituito una immagine completa di McLuhan, si segnala in Italia, per completezza, il nuovo numero monografico della rivista Link. Idee per la televisione, in uscita il 9 novembre. Oltre alla ristampa della famosa intervista rilasciata nel 1969 da McLuhan a Playboy, vi sono interventi di Peppino Ortoleva, sugli angoli meno frequentati del McLuhan pensiero, e una intervista allo scrittore canadaese Douglas Coupland, autore di Generazione X e biografo di McLuhan stesso, che fa giustizia di molti luoghi comuni (splendido il suo Marshall McLuhan edito da Isbn).
«Il Giornale» del 1 novembre 2011

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