31 luglio 2011

Perché Dante e Rabelais non sono superiori a Manzoni e Kafka

Risposta a Guglielmi sulle due linee nel campo della lingua. Anche Bachtin e Contini faticavano a trovare una continuità tra gli innovatori
di Cesare Segre
Caro Guglielmi, mi rallegro che sia intervenuto («Corriere» del 6 luglio) sul problema delle due linee (monolingue e plurilingue) della narrativa europea, perché di tratta di una questione cruciale nella nostra attività di critici. Mi permetto di risponderle per chiarire qualcosa anche a me stesso: infatti ho scritto interi saggi accettando la tesi delle «due linee», che ora tendo ad abbandonare. È proprio preparando l'articolo cui lei accenna, e la precedente relazione congressuale, che mi sono nati forti dubbi. Gl'interrogativi finali del mio articolo non erano interrogazioni retoriche, ma proprio inviti a un chiarimento. Dunque, riflettiamo un momento. Lei si rifà giustamente all'assioma secondo il quale tutti gli scrittori validi lavorano sulla lingua facendone un uso innovatore. Si sa che alcuni sottopongono la lingua a un trattamento vistosamente energico, altri operano in modo più sottile, toccando l'uso della lingua più che la lingua stessa, con un' efficacia di cui ci rendiamo conto solo con un esame attento. Spitzer, maestro di stilistica letteraria (perciò anche di Bachtin e di Contini), si occupò sia di autori linguisticamente rivoluzionari (come Rabelais), sia di autori apparentemente rispettosi della lingua (La Fontaine, Racine). Quanto a Rabelais, Spitzer ne individua i precursori, come Pulci, e trova le tracce del suo influsso in Balzac, in Flaubert epistolografo, in Victor Hugo, in Céline. Ma non mi pare accenni ad una linea di sviluppo. Dice anzi che un grande innovatore costituisce una costellazione (che certo non si può mettere in fila con altre) attraversata dalla corrente della storia delle idee. Quanto agli autori meno rivoluzionari, Spitzer cerca le loro impronte digitali nel modo di organizzare la successione dei discorsi (La Fontaine); nell' alternanza efficace di prosaicità e liricità, con tutto un gioco di «sordina», per esempio disindividualizzando il personaggio con l'uso dell'articolo indefinito o con la perifrasi (Racine); nell'ossessione delle relazioni causali (Charles-Louis Philippe). In tutti questi casi, la lingua non è mutata, ma è rinnovato il modo di impiegarla. È comprensibile la spinta a istituire due linee della narrazione, ma ci sono molte difficoltà. Per questo Bachtin continua a raggruppare diversamente gli autori in base a vari criteri (più volte parla di tre, e non due, linee di sviluppo; oppure storicizza in base alle manifestazioni del «carnevalesco», o alle realizzazioni del cronòtopo, il rapporto di spazio e di tempo); e Contini va all'indietro, partendo da Gadda ma evitando un elenco motivato degli scrittori di questa linea. E poi, una linea dovrebbe avere qualche elemento di continuità. Invece, gli scritti plurilingui spuntano isolatamente, e, a parte influssi e allusioni, ricorrono a procedimenti stilistici diversi, che hanno in comune solo il fatto di incidere sull' istituzione linguistica. Allora sarebbe forse più sensato fissarsi sulla dialettica tra scrittori monolingui e plurilingui, e vedere le apparizioni dei plurilingui nella linea monolingue come rivoluzioni che creano nuove prospettive e preludono ad altre novità. Mi spiace infine di non essere d'accordo con lei, Guglielmi, nella preferenza per la linea plurilingue, almeno nella modernità. Io credo che il critico debba essere, in partenza, neutrale sull'argomento. Se io guardo alle due linee nel loro sviluppo, non me la sento di preferire sempre Dante, Pulci, Folengo, Rabelais, Swift a Petrarca, Ariosto, Leopardi, Manzoni, Kafka. Sì, perché il massimo innovatore, Kafka, era rigorosamente monolingue.

Il dibattito sulle due linee del romanzo e la continuità tra Bachtin e Contini è cominciato sul «Corriere» il 4 luglio con un articolo di Cesare Segre. Il 6 luglio è uscito il contributo di Angelo Guglielmi.
«Corriere della Sera» del 10 luglio 2011

Da Rabelais a Cervantes a Gadda, fascino (e illusione) della continuità

Da un confronto tra Michail Bachtin e Gianfranco Contini l'ipotesi di una terza via creativa
di Cesare Segre
Nella storia del romanzo prevale la linea che privilegia gli scrittori inventivi

Due grandi critici, uno russo, Michail Bachtin (1895-1975), l'altro italiano, Gianfranco Contini (1912-1990), hanno abbozzato una storia del romanzo che, in base a elementi linguistici e formali, individua in questo genere letterario due correnti, parallele e antagoniste attraverso i secoli. Una corrente è quella della letteratura d'intrattenimento o d'avventura o d'intreccio, che, ricorrendo a un linguaggio medio (monolinguismo), si concentra sulla narrazione e sui personaggi; l'altra è quella di opere che puntano sulla pluralità di voci e di lingue dei personaggi (plurilinguismo), in rapporto con il confronto delle loro opinioni, e sull'accostamento di prospettive diverse. Per farsi un'idea della seconda corrente, si possono citare il Satyricon di Petronio, e poi Folengo, Rabelais, Cervantes, Swift, Sterne, Joyce, e così via. Le due linee correrebbero quasi sempre parallele nella storia del romanzo, talora incontrandosi talora allontanandosi; è comunque alla seconda che pertengono, a parere di Bachtin, e probabilmente anche di Contini, i romanzi che fanno storia. Diamo appena qualche riferimento cronologico. Per Bachtin, occorre tener conto della pubblicazione travagliata delle sue opere (sommata al ritardo delle traduzioni): i Problemi dell'opera di Dostoevskij, pubblicati nel 1929, vengono rimaneggiati e riproposti, con nuovo titolo, nel 1963. Bachtin scrive tra il 1934 e il 1935 il saggio La parola nel romanzo, pubblicandolo solo nel 1972. Il contributo su Le forme del tempo e del cronòtopo nel romanzo, scritto anch'esso fra 1934 e 1935, uscì nel 1974. Quanto a Contini, pubblica, a coronamento di vari lavori su Gadda, l'introduzione alla Cognizione del dolore nel 1963 (Einaudi), e il saggio Espressionismo letterario (per l'Enciclopedia del Novecento) nel 1977. Non risulta che Bachtin abbia avuto conoscenza del primo di questi contributi continiani, anche per motivi esterni che ben conosciamo (il secondo uscì invece dopo la sua morte, avvenuta nel 1975); in più non era interessato alla letteratura italiana. Contini, per contro, ha notizia di Bachtin, ma solo nel 1988, quando ristampa in volume il saggio del 1977. Scrive infatti, in una nota aggiunta nella ristampa: «Nella tanta bibliografia suscitata da Rabelais è ai fini immediatamente linguistici ancora più utile il libro di Spitzer, 1910, che quello, a buon diritto assai letto, di Michail Bachtin, 1975». Evidentemente Contini non ha colto, nella monografia su Rabelais, gli accenni alla storia del romanzo; e per di più vuole sottolineare la sua predilezione per la stilistica di Spitzer (del resto lodato anche da Bachtin), alla quale ha continuato a rifarsi. Dunque, qualunque rapporto è da escludere. Il fatto è, però, che, se i due critici in comune avevano poco, questo poco era essenziale: l'attenzione agli aspetti linguistici del testo, e in particolare un'impostazione stilistica (riferimento comune Leo Spitzer). Inoltre, entrambi erano stati investiti dalla ventata strutturalistica, pur reagendovi in modo personale. Infine, nessuno dei due intendeva occuparsi sistematicamente del romanzo; le loro osservazioni sullo sviluppo del genere sono ispirate dall' intenzione di «offrire una storia» agli autori su cui più intensamente meditarono: Dostoevskij e Rabelais per Bachtin, Carlo Emilio Gadda per Contini. Bachtin incomincia a parlare delle due linee del romanzo nel Dostoevskij, ma poi storicizza le sue osservazioni in La parola nel romanzo e nella seconda edizione del Dostoevskij, e vede il punto di partenza della linea plurilinguistica in testi greci e romani, con la guida (è una nostra supposizione) di un volume di Erwin Rohde sul romanzo alessandrino (1897 e 1900). Ma si capisce che non considera definitivo questo inquadramento: infatti, nell' articolo Le forme del tempo non parla più di due linee, e negli altri alterna lo schema binario (due linee) con uno schema ternario (per esempio linea epica, retorica e carnevalesca). Anche Contini parla di plurilinguismo, ma ricorre pure ad altri termini, soprattutto espressionismo. E poi, plurilinguismo è termine usato anche nel tradizionale confronto tra Dante e Petrarca illustrato da Contini in un articolo del 1951: monolingue è Petrarca, fedele a una media stilistica raffinata e costante, diventata poi il linguaggio poetico italiano; plurilingue è Dante, che oltre a immettere nel suo linguaggio parole latine, provenzali e francesi, spazia anche tra i registri, da quelli popolari e volgari ai più nobili. Quanto all'espressionismo, Contini ne aveva dapprima evidenziata la presenza in vari testi delle origini (Poeti del Duecento, 1960); arrivato però a illustrare quel Gadda che lui stesso aveva introdotto tra i maggiori del Novecento, si sentì obbligato ad approfondire il concetto di espressionismo, usato in Germania, a partire dagli anni Dieci del Novecento, per definire una corrente pittorica (Nolde, Marc, Macke, etc.), ma anche un gruppo di poeti (Benn, Heym, Trakl, etc.); dalla Germania il concetto si estese alla Francia e all'Italia. Quello che interessa a Contini è giustificare l'estensione del termine anche a testi anteriori o posteriori all'espressionismo tedesco; quello che a lui pare basilare è il valore esemplare e definitorio di Gadda, tanto che, per allineare le opere in una prospettiva storica, il critico invoca una «funzione Gadda» attiva in tutti i testi espressionistici non solo successivi, ma anche precedenti, risalendo sino al Duecento. Ma nonostante il fascino del parallelismo Bachtin-Contini, ci si domanda se la loro non sia stata un' illusione ottica. Non sarà che la prospettiva adottata da entrambi ha sdoppiato una stessa linea, attribuendo continuità agli scrittori anticonformisti e innovatori? Non sarà che l'attenzione verso i precursori ha creato a posteriori un'apparente consanguineità fra scrittori particolarmente inventivi e, in linea di massima, indipendenti l'uno dall'altro? E siamo sicuri che in testi monolingui non si riscontrino, forse anche spesso, qualità non minori di scrittura?

Pubblichiamo una sintesi della relazione che Cesare Segre terra mercoledì al XIV convegno internazionale su Michail Bachtin a cura di Federico Pellizzi, che si svolge da oggi all'8 luglio alla Rocca di Bertinoro (Forlì Cesena) presso il Centro universitario dell'ateneo di Bologna. Al convegno partecipano i maggiori studiosi internazionali di Bachtin e di teoria della letteratura. Del comitato scientifico fanno parte, oltre a Segre, anche Vittorio Strada, Ezio Raimondi, Gianpiero Piretto, Giuseppe Ghini, Giovanni Bottiroli, Augusto Ponzio.

Angelo Guglielmi risponde a quest'articolo di Segre.
«Corriere della Sera» del 4 luglio 2011

La didattica «facile» che ha cancellato la capacità di studiare

Secondo Paola Mastrocola la situazione attuale è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari
di Cesare Segre
Del libro di Paola Mastrocola (Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda) si parlerà a lungo, perché coglie con intelligenza quei problemi dell'insegnamento che preoccupano docenti, discenti e innumerevoli famiglie. I punti salienti della sua analisi sono già stati illustrati da Marco Imarisio («Corriere», 21 febbraio), che ha raccolto anche opinioni di lettori competenti. Mi permetto d'interloquire per segnalare un punto dell'argomentazione della Mastrocola che mi pare illuminante, quello su «come si studia». Si continua a dire, e i sondaggi confermano, che alla fine delle scuole secondarie gran parte dei nostri studenti si esprimono in un italiano scadente e scorretto e, vittime di una specie di afasia, non sono in grado di esporre il contenuto di un libro o di un film. La menomazione intellettuale non è compensata dalla frequente disinvoltura nell' uso di apparecchi informatici, dal pc in su. Pure negli studi universitari si nota che la capacità di lavoro degli studenti sembra essersi ridotta. Se tempo fa, per un esame importante, si doveva dimostrare non solo di aver assimilato il contenuto dei corsi, ma di aver letto una serie piuttosto ampia di testi (libri e articoli), base necessaria per muoversi tra le conoscenze di una data area del sapere, oggi pare sia difficile andare al di là dell' insegnamento impartito, meglio se concentrato nelle cento o duecento pagine di un manuale. Si arriva a calcolare il tempo necessario per affrontare l' esame di una materia: sono i cosiddetti crediti. Pare si sia perduta la capacità di studiare. Qui interviene la Mastrocola, mostrando come e perché lo studio sia compromesso e svuotato. Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Gianni Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo, svalutando il concetto di nozione come conoscenza, e, in generale, il tipo di conoscenze che sono di solito oggetto di studio. Di qui l' avversione per il sapere letterario (guai al povero Virgilio!) e in particolare linguistico, considerati appannaggio dei ricchi. E anche la valorizzazione del territorio, la chiusura nella provincia e nei lavori contadini: non pensando che questo bloccava qualunque aspirazione al miglioramento mentale, ma anche economico degli scolari. Gianni Rodari (le cui proposte sono certo suggestive) promuoveva, ma prevalentemente per il primo ciclo scolastico, la trasformazione dell' insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L' aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività. Era inevitabile che in questa cultura «facile» fossero affossati gli studi considerati «noiosi», o quelli che sembrassero privi di utilità pratica immediata. Contenti gli studenti, contente le famiglie, non più angosciate dalle difficoltà scolastiche dei figli, contenti alla fine i docenti, non più in lotta per far ragionare e studiare gli studenti, e per difendersi dalle pretese dei genitori. Ma intervenivano, appoggiando quest' indirizzo, anche i ministri, che parlavano di «diritto al successo formativo» e, favorendo la prassi degli esami praticamente garantiti, caldeggiavano le lauree facili come il mezzo migliore per superare il gap tra il numero dei laureati nostri e di quelli stranieri. Purtroppo la tendenza al ribasso è ormai diffusa in tutti i paesi, e anzi chi studia meglio e di più, come facevano sino a qualche tempo fa i nostri studenti, è ormai costretto ad aderire all' internazionale dell' ignoranza. Qui la Mastrocola mostra bene, con opportuni riferimenti, che si è affermata una nuova pedagogia, che favorisce «la scuola del fare, del saper essere, del saper stare (insieme), dello smanettamento collettivo e dell' invasamento tecnologico, non certo la scuola del sapere, delle nozioni (intese come conoscenze), della letteratura e dello studio astratto, teoretico». Difficile indicare rimedi alla situazione messa in luce dall' autrice. Occorre un nuovo cambio di mentalità, che rimetta al centro dell' insegnamento lo studio, e che annulli l' insensato asservimento del sapere umanistico a quello tecnologico. Per ora, la Mastrocola dovrà rassegnarsi ad essere considerata una reazionaria. Ma questo è forse uno dei pochi casi in cui solo la reazione può difendere ideali e principi vitali prima che vengano definitivamente cancellati.
«Il Corriere della Sera» del 25 febbraio 2011

La pozzanghera del malaffare

I partiti, la corruzione, il paese
di Ernesto Galli della Loggia
Perché insistere a chiedere all'onorevole Bersani risposte sincere ed esaurienti sui gravissimi sospetti di corruzione che da settimane colpiscono il Pd? Perché correre il rischio di sembrare di avercela per partito preso con la sinistra, quasi che così si volesse fare un favore alla destra? Perché attirarsi l'accusa di essere al servizio niente di meno che di una «macchina del fango» rivolta contro l'opposizione?
Una prima risposta a chi si facesse queste domande (e temo che l'onorevole Bersani sia tra questi) la fornisce il Fatto di ieri: un giornale con il quale spesso si è costretti a non essere d'accordo ma al quale va riconosciuta una notevole indipendenza politica. Ebbene, sul Fatto di ieri Ferruccio Sansa - un giornalista che è a sinistra e ha lavorato al Messaggero , a Repubblica , al Secolo XIX - racconta con abbondanza di particolari come per esperienza personale «chi tocca il centrosinistra muore»: e cioè che «i fastidi che (gli) hanno procurato le inchieste sul centrosinistra non hanno eguali» rispetto a quelle sul centrodestra, dove per «fastidi» si devono intendere «le calunnie, gli insulti, le telefonate a direttori ed editori» che le suddette inchieste gli hanno attirato in un ambiente come quello di Genova, pesantemente e capillarmente dominato dalla macchina politico-burocratica del Pd.
Ecco, fuori dai diffusi opportunismi e dai riguardi malriposti questa è l'Italia vera, quella descritta da Sansa: come sa bene chiunque conosca il Paese, le sue città, i suoi ambienti e le pratiche abituali con cui viene governato. Non foss'altro che per questo, un minimo di decenza vuole che i giornali (proprio come ha fatto il Corriere con il ministro Tremonti per la penna di Sergio Romano) non facciano sconti a nessuno; né alla destra né alla sinistra, e che gli stessi giornali si muovano con la medesima incisività: spregiudicata e forse un po' sbrigativa, se si vuole, ma questo è un altro discorso; che se lo si fa, però, allora lo si deve fare innanzi tutto quando riguarda l'avversario, non già se stessi.
Ma c'è una ragione ancora più importante, d'importanza decisiva, per cui la grande stampa d'informazione non può fare alla sinistra gli sconti che abitualmente e da anni non fa alla destra, pur avendo naturalmente l'obbligo di sottolineare tutte le diversità, se eventualmente emergono, tra i due tipi di corruzione.
La ragione è presto detta. Tutto lascia credere che l'inquinamento della nostra vita pubblica abbia ormai raggiunto livelli spaventosi, quasi vicini al punto di non ritorno. L'esperienza dice altresì che anche a sinistra, cadute le antiche barriere protettive, il fenomeno non ha virtualmente più argini significativi. Di fatto, da anni, le inchieste giudiziarie sui legami tra politica e affari sono divenute l'elemento assolutamente centrale della lotta politica italiana, mentre strumento principe di tale lotta sono sempre più i dossier che ognuno cerca di fabbricare illegalmente sul conto di tutti gli altri. Principalmente per questo è cresciuto di pari passo il ruolo virtualmente politico della magistratura, in modi e misura con ogni evidenza abnormi, e magari, lo si può ammettere, contro la volontà degli stessi magistrati anche se certo non di tutti.
Ruolo di fatto politico, che è divenuto anch'esso elemento assolutamente centrale, e patologico, della lotta tra i partiti: oggetto di polemiche continue, di dispute e ritorsioni ossessive che hanno finito per assorbire quasi ogni altra questione sul tappeto. Corruzione politica da un lato, e prassi e regole dell'azione giudiziaria dall'altro: ecco due giganteschi nodi di problemi che se non vengono sciolti sono destinati a strangolare la democrazia italiana. Ma l'esperienza ormai di decenni mostra che da sole né la destra né la sinistra riescono a farlo. Vittime l'una e l'altra dei rispettivi pregiudizi, delle rispettive convenienze, dei rispettivi legami più o meno espliciti: la destra convinta di poter riuscire prima o poi a mettere il morso alla magistratura, la sinistra convinta che alla fine le inchieste giudiziarie l'avvantaggeranno in modo risolutivo.
S'illudono entrambe. Ma mentre nutrono le loro illusioni il Paese è paralizzato, e, se si muove, è per correre alla rovina. La sola possibile soluzione per sciogliere i due nodi di cui sopra è nella fine delle illusioni sia della destra che della sinistra, e nell'affermarsi dell'idea che è necessario uno sforzo comune per trovare un'intesa all'insegna delle reciproche concessioni: un'intesa, come ripete da tempo il presidente Napolitano, che su tali questioni è un obbligo di carità di patria, di solidarietà nazionale, oltre che una necessità per la salvezza della Repubblica. Su questi temi la grande stampa d'informazione non può né deve avere indulgenza per nessuno, oltre che per le ragioni dette sopra, anche per ciò: perché tanto la destra che la sinistra devono convincersi che i due problemi fin qui considerati riguardano entrambe, che anche in questo caso non ha senso chiedersi per chi suona la campana perché la campana suona per tutti. Se la sinistra si ostina a negarlo non fa che allontanare il bene del Paese per ritrovarsi alla fine in un vicolo cieco.
«Il Corriere della Sera» del 31 luglio 2011

Debiti con l’Islam?

di Rino Cammilleri
Dai manuali scolastici abbiamo appreso che, mentre l'Europa gemeva nell'oscura barbarie, la civiltà araba era nello splendore.
Dai numeri "arabi" ai logaritmi, tutto quel che comincia per al- (algebra, alchimia, alcool, albicocca...) lo dobbiamo all'islam. Non solo: dato il millenario contrasto tra Roma e Bisanzio, gli europei poterono conoscere l'antica sapienza greca solo ritraducendola dall'arabo. Ora, però, un libro di Sylvain Gouguenheim, docente di storia medievale all'Ecole Normale Supérieure di Lione (Aristote au mont Saint-Michel: les racines grecques de l'Europe chrétienne, ed. Seuil), ribalta tutto: fu la presa di Costantinopoli nel 1453 da parte dei turchi a far fuggire in Europa una valanga di intellettuali greci, che fecero conoscere i classici al mondo latino.
Il libro ha creato scalpore, perché fa passare dall'idea che si debba moltissimo all'islam all'idea che non gli si debba proprio niente.
Al di là dello scandalo mediatico (l'autore è stato sottoposto in Francia a una specie di linciaggio politicamente corretto), il filosofo francese Rémi Brague ha cercato di riequilibrare il giudizio (tradotto da A. M. Brogi per Vita e Pensiero, gennaio 2009). In effetti, c'è ancora chi pensa che la prima università al mondo sia stata quella di Fez, la Qarawiyin, fondata nell'859 (dunque, le università non sarebbero un'invenzione della Chiesa). In realtà era una moschea c.d. "generale" (jami'a: termine che designa, sì, le università nel mondo islamico, ma solo nell'evo contemporaneo) e vi si insegnava l'esegesi coranica, le tradizioni sul "Profeta", il diritto islamico (fiqh) e quel tanto di "scienza" che serviva a calcolare i nomi di Allah e la direzione della Mecca.
Una leggenda da sfatare riguarda la famosa «casa della sapienza» di Baghdad (IX secolo): i traduttori dei testi greci in arabo erano quasi tutti cristiani nestoriani ed essa era «innanzitutto per uso interno, per la precisione una sorta di fucina di propaganda a favore della dottrina politica e religiosa sostenuta dai califfi dell'epoca, in particolare il mu'tazilisma».
Un altro mito concerne l'iberico Al-andalus, mito nato più che altro per astio antispagnolo. «Si è cominciato con la "leggenda nera" sulla conquista del Nuovo Mondo. Diffusa dagli scrivani al soldo dei concorrenti commerciali di spagnoli e portoghesi, tra cui la Francia, consentiva loro di legittimare la pirateria di Stato (detta "guerra corsara")».
Per quanto riguarda la dominazione musulmana in terra iberica, il mitico Al-andalus, più che una coesistenza armoniosa, «era un sistema paragonabile all'apartheid sudafricano», a tutto danno di ebrei e cristiani.
La prima traduzione in latino del Corano la fece Pietro il Venerabile, abate di Cluny, nel XII secolo, ma si dovette attendere il XV e il cardinale Nicolò Cusano perché quel testo fosse studiato (e l'avvento della stampa, un secolo dopo, perché fosse conosciuto). Dunque, scarsa o nessuna "osmosi" tra le due culture.
Le arti visive (pittura e scultura) del mondo greco transitarono in Europa senza intermediazione araba, perché l'islam vietava le immagini (anzi, l'eresia iconoclasta nel mondo bizantino fu dovuta al "contagio" della fortissima pressione islamica). Dice Brague che «dell'eredità greca è passato attraverso l'arabo solo ciò che riguardava il sapere in matematica, medicina, farmacopea eccetera. In filosofia (...) solo Aristotele e i suoi commentatori».
Ma tutto il resto dovette attendere i «manoscritti importati dagli eruditi bizantini che fuggivano dalla conquista turca». E «tutto il resto è nientemeno che la letteratura greca»: Omero, Esiodo, Pindaro, Eschilo, Sofocle, Euripide, Erodoto, Tucidide, Poli bio, Epicuro, Platone, Plotino, Ermete Trismegisto, «arrivati da Costantinopoli alla Firenze dei Medici, dove Marsilio Ficino tradusse in latino tutte le loro opere». I passaggi precedenti non sono che «una goccia d'acqua in confronto all'inondazione rovesciatasi sull'Europa a partire dal XV secolo. Essa ha riguardato tutto ciò che era disponibile in greco. È sfociata in una vera ellenomania durata parecchi secoli, dal Rinascimento italiano agli umanesimi e classicismi di tutta Europa».
Ancora: «L'ellenismo in terra d'islam ha riguardato solo individui come i "filosofi" (falasifa), intellettualmente dei geni ma socialmente dei dilettanti privi di collegamenti istituzionali. Solamente in Europa ha assunto la forma di fenomeno». Di più: «Solo in Europa si è imparato il greco in maniera sistematica» e lo si è fatto diventare addirittura «materia obbligatoria nell'insegnamento secondario». Del resto, non ci si può appropriare del sapere senza prima esserne divenuti capaci, senza essersi resi ricettivi in tal senso, cosa che l'Europa fece (rinascita giuridica, sulla scia della Lotta per le Investiture; rinascita letteraria con S. Bernardo, filosofica con S. Anselmo, riscoperta del diritto romano grazie alla Chiesa): «lo dimostra la stessa ricezione di Averroè».
Infatti, «dopo la caduta degli Almohadi ai quali era stato legato, il suo ambiente d'origine lo dimenticò in fretta» ma «l'Occidente ha raccolto quel gioiello dalle "pattumiere" dell'islam».
Brague si chiede infine se, in ogni caso, sia davvero giusto parlare di "debito". L'Europa ha ricevuto dalla Cina la seta, il tè, la porcellana e la carta (quest'ultima attraverso il mondo arabo, come i numeri e lo zero, nati in India), e dalle Americhe il granturco, il tabacco, il cioccolato. Ma «nessuno si sognerebbe di dire che abbiamo un debito nei confronti degli aztechi, e tanto meno che dobbiamo parlare con infinito rispetto dei sacrifici umani che praticavano, per il solo fatto che mangiamo i pomodori».
Insomma, non è vero che la civiltà occidentale non deve nulla a quella islamica. È anche vero, tuttavia, che non le deve granché. Solo che, oggi come oggi, non è politicamente corretto dirlo.
«Il Timone» n. 82 dell'aprile 2009

La vergognosa connivenza

Quando essere anticomunisti era considerato un reato. La viltà di chi ha voluto nascondere le vere dimensioni della persecuzione comunista. L’incomprensione della natura ideologica del marxismo-leninismo
di Roberto De Mattei

Nel novembre del 1997 il velo di silenzio che sembrava destinato ad avvolgere l'ottantesimo anniversario della Rivoluzione di Ottobre fu squarciato dalla pubblicazione in Francia del Libro nero del comunismo, un volume di oltre ottocento pagine in cui una équipe di storici coordinati da Stéphane Courtois, si proponeva di tracciare il tragico bilancio dei crimini commessi dal comunismo nel XX secolo. Il totale delle vittime registrate da Courtois e dai suoi collaboratori, oltre 85 milioni, costituisce una cifra impressionante ma certamente sottostimata.
Quando Solgenitsin, in un discorso alla Duma del 28 ottobre 1994, parlò di 60 milioni di vittime per la sola Russia, nessuno sollevò obiezioni. L'8 ottobre 1971 Mao Tse Dong dichiarò all'imperatore d'Etiopia Hailé Sellassié in visita ufficiale a Pechino che il costo in vite umane "delle vittorie del socialismo" dal 1949 (anno della proclamazione della Repubblica popolare cinese) era stato di "cinquanta milioni di morti". Eugenio Corti, ricordando l'episodio, aggiunge che una contabilità più precisa ci è offerta da un importante studio demografico di Paul Paillat e Alfred Sauvy pubblicato sulla rivista Population nel 1974, dopo che Pechino ebbe finalmente resi pubblici i dati riguardanti la popolazione: nelle statistiche cinesi, in poco più di vent'anni, risultavano mancanti 150 milioni di persone.
Al di là del costo quantitativo, verosimilmente ascrivibile ad oltre duecento milioni di vittime, esiste una dimensione qualitativa del Terrore comunista, ben nota in Occidente prima del crollo del Muro di Berlino e dell'apertura degli archivi dell'Est europeo. «Tutti - ricorda Vladimir Bukovskji - lo capivano, lo sapevano, lo intuivano, ma non ne volevano parlare, perché cercavano di sopravvivere non di combattere contro il comunismo» (Gli archivi segreti di Mosca, tr. it., Spirali, Milano 1999 p. 66).
Se è vero infatti che il filo rosso del terrore sostanzia tutta la storia del comunismo, dal 1917 ai nostri giorni, è anche vero che a questa storia si è sempre accompagnata, nello spazio di 80 anni, una letteratura di sistematica denuncia della portata criminale di questo sistema.
Sarebbe interessante tracciare, accanto all'inventario dei crimini del comunismo, il catalogo non meno significativo delle voci inascoltate che nello spazio di oltre settant'anni denunciarono tali crimini, prima che il Libro nero del comunismo li portasse alla ribalta mediatica.
Ma sarebbe altrettanto importante tracciare una storia dell'atteggiamento di complicità, di silenzio, di omissione, di coloro che comunisti non erano, ma che ritenevano che l'anticomunismo rappresentasse un pericolo maggiore del comunismo.
All'indomani della caduta del Muro di Berlino, in un suo importante studio dal titolo Comunismo e Anticomunismo alle soglie dell'ultima decade di questo millennio (sul Corriere della Sera del 7 marzo 1990 e su Il Tempo dell'8 marzo 1990), il pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira chiedeva un grande atto di giustizia nei confronti del comunismo, interpellando di fronte al tribunale della storia non solo i dirigenti supremi della Russia sovietica e delle nazioni satelliti, ma anche tutti coloro che avevano taciuto, collaborato, prolungato con le loro sovvenzioni l'azione dei carnefici, perseguitato e diffamato gli anticomunisti.
La storia della politica di distensione dei governi occidentali nei confronti del comunismo è ancora tutta da scrivere. Ma il giudizio morale è stato dato, ed è inappellabile. Vladimir Bukovskji lo riassume in questi termini: «quand'anche il più compiacente intelletto ci suggerisse giustificazioni logicamente irreprensibili e apparentemente nobili, la coscienza farebbe sentire la sua voce: la nostra perdizione èiniziata quando abbiamo accettato una "coesistenza pacifica" con il male" (p. 65).
«La verità - ha scritto a sua volta Barbara Spinelli - è che gli Stati liberali hanno dimenticato il prezzo morale che pagarono per ottenere la coesistenza pacifica. Non solo erano partiti dall'idea che l'unica strada possibile fosse la distensione, ma in più credevano che quest'ultima rappresentasse anche l'unica soluzione morale: una convinzione che pesa tuttora sulla vita interna dei Paesi dell'Unione. Il selvaggio matrimonio con le dittature seminò confusione nel loro senso morale, e semina confusione ancora oggi. Avevano vissuto in concubinato con un sistema la cui realtà non vollero apprendere allora e non intendono apprendere oggi. Quasi non si erano accorti, presi com'erano dalla pur legittima paura di una terza guerra mondiale, che dietro la cortina di ferro esisteva gente che aveva dovuto far proprie non solo le ragioni della coesistenza, ma anche quel che discendeva da tali ragioni: l'accettazione della necessità fatale della dittatura, e del suo permanere" (Il sonno della memoria. L'Europa dei totalitarismi, Oscar Mondadori, Milano 2004, pp. 105-106).
L:accettazione della "coesistenza pacifica" con il male ebbe la sua radice nella convinzione che il male non fosse tale, perché iscritto nella "irreversibilità" della storia. L:Occidente non rifiutò l'idea comunista, ma i tempi e i modi della sua affermazione storica, giudicata inevitabile.
Negli anni di maggior opposizione al comunismo, quelli della guerra fredda, il cosiddetto anticomunismo si limitò a combattere la potenza militare sovietica, il suo espansionismo, i suoi missili, i suoi carri armati, senza risalire a quella dottrina marx-Ieninista che ne costituiva l'anima e la ragione. Quando nel 1975 Enrico Berlinguer lanciò l'''eurocomunismo'', gli anticomunisti non lo accusarono di voler trasformare l'Europa in senso comunista, ma di non essere "sincero" nel suo proclamato distacco dall'Unione Sovietica: il mito di un socialismo de-sovietizzato, di un possibile socialismo "dal volto umano", nutriva l'Occidente.
È anche per questo che negli ambienti che controllano i "media" dell'immagine e della carta stampata, il comunismo, anche dopo la sua caduta, non è mai stato sentito come un "male", alla stessa maniera del nazionalsocialismo.
Eppure, fin dal 1937, Pio XI, nell'enciclica Divini Redemptoris, affermando che «assai pochi hanno potuto penetrare la vera natura del comunismo», offriva in maniera sintetica ma articolata la prima e per molti versi insuperata analisi della dottrina comunista, definendola come un sistema ideologico intrinsecamente perverso, con il quale nessun compromesso era possibile.È
questo un punto cruciale. Una delle principali, forse la principale ragione del successo del comunismo, è stata la mancanza di comprensione dell'ideologia comunista e, prima ancora, la mancanza di comprensione del ruolo delle idee nella storia.
Il grave errore della cultura liberale e di quella cattolica è stato, secondo Augusto Del Noce, quello di aver sottovalutato la forza ideologica del marxismo e nell'averlo ridotto a scienza della società o a teoria economica. In realtà il marxismo è una completa ed unitaria concezione del mondo per cui l'uomo, la società e lo stesso universo vanno intesi come realtà materiale in perenne evoluzione conflittuale; proprio in questo aspetto dialettico, più ancora che in quello sociologistico e materialistico, sta il suo aspetto radicalmente rivoluzionario.S
olo una riflessione sull'essenza ideologica del marxismo ci può aiutare a comprenderne la parabola, dal cosiddetto "socialismo reale", dalla Rivoluzione d'Ottobre fino alla perestrojka di Gorbaciov e la risorgenza attraverso le metamorfosi precedenti e successive all'attentato delle Twin Towers.
L’Unione Sovietica si è dissolta, ma gli errori fermentati in Russia si sono diffusi nel mondo. Non si tratta solo della permanenza di Stati ufficialmente comunisti, dalla "superpotenza" cinese alla micropotenza cubana. Il comunismo è sopravvissuto trasformandosi; ha perso le sue caratteristiche monolitiche ed è divenuto neo-trotzkismo, nazional-comunismo, anarco-comunismo, comunismo "cognitivo" o mentale. Gli errori ideologici del comunismo si sono liberati dall'involucro dello Stato sovietico e si sono diffusi nel mondo, contaminando realtà che fino allora erano rimaste immuni da questa influenza, a cominciare dal mondo islamico.U
no studioso italiano dell'lslam, Renzo Guolo, ha definito "Ieninismo religioso" la visione di Osama Bin Laden: il Jihad inteso come guerra di annientamento del nemico attraverso gli strumenti della guerra e del terrorismo. Ma accanto a questa linea dura, dall'alto, di leninismo religioso, ve ne è un'altra, "dolce" ma non meno insidiosa, che potremmo definire una linea di "gramscismo religioso": la conquista dell'Occidente attraverso la prevalenza demografica e l'islamizzazione delle istituzioni e degli spazi sociali.
In entrambi i casi assistiamo ad una "contaminazione" della "filosofia del Corano" con la prassi rivoluzionaria marxista importata dall'Occidente. Il marxismo è stato definito dal sociologo Jules Monnerot come l'islamismo del secolo XX. Oggi fa la sua apparizione un neo-islamismo che potrebbe essere definito il neo-comunismo del secolo ventesimo, o meglio un islamo-marxismo animato da quella medesima avversione alla civiltà occidentale e cristiana che costituì il nucleo del comunismo novecentesco.
Lo spirito di "coesistenza pacifica" con i nemici dell'Occidente non si è dissolto. Così come ieri vi era chi riteneva che l'anticomunismo fosse un male peggiore del comunismo, oggi non manca chi pensa che la lotta contro il terrorismo islamo-comunista sia un male peggiore del terrorismo, o addirittura costituisca la vera causa del terrorismo. Sarebbe da irresponsabili pensare di consegnare il nostro futuro nelle mani di coloro che la storia ha dimostrato essere "falsi profeti".

Le vittime secondo il Libro nero del comunismo
URSS: 20 milioni di morti;
Cina: 65 milioni di morti;
Vietnam: 1 milione di morti:
Corea del nord: 2 milioni di morti;
Cambogia: 2 milioni di morti;
Europa dell’est: 1 milione di morti;
America Latina: 150.000 morti;
Africa: 1 milione e 700.000 morti;
Afghanistan: 1 milione e 500.000 morti;
Movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere: circa 10.000 morti.
Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti.
«Il Timone» n. 36 - Settembre/Ottobre 2004

A proposito di questione morale

Quell’arma impropria
di Alessandro Giuli
Riproponiamo un articolo di Alessandro Giuli pubblicato sul Foglio del 10 agosto 2005 su un tema tornato di grande attualità in questi giorni

La questione morale è una cosa serissima e a volte pericolosa da maneggiare. I francesi lo sanno bene, avendo loro una tradizione nobile e rispettata di pensatori moralisti (“les moralistes”); e perché hanno conosciuto per primi nell’età moderna la forza rivoluzionaria della morale che tracima nel moralismo della volontà generale (“très moralisante” e giacobina). Hanno avuto il Terrore con i suoi Robespierre e Marat e Saint Just che scriveva furibondo “provate la vostra virtù o entrate nelle prigioni”; Saint Just che intimava: “I prìncipi devono essere moderati, le leggi implacabili”, i princìpi senza appello”. “E’ lo stile ghigliottina”, commenterà Albert Camus nel suo “Uomo in rivolta”. E c’è sempre qualcosa di puro, aspro e ghigliottinante dietro la parola “morale” quando la s’intreccia alla parola “giustizia” per contrapporla al presunto nulla-morale di un nemico del momento. Quando insomma, come dice Geminello Alvi interpretando la frase evangelica “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati” (Matteo 5,6), si dimentica che la giustizia è tale se “evolve a un risanare nell’armonia. E cambia nome, diviene quel più di bontà e prudenza che è la misericordia”. Perché “chi giudica è sempre e solo il demonio” (“L’anima e l’economia”, Mondadori 2005).
In Italia la questione morale è storicamente come uno sciame di cattivi pensieri in una mente troppo piccola per trattenerli tutti e metterli in ordine. Ma è pure un palpabilissimo romanzo d’appendice in cui giocano a rincorrersi scandali innegabili, tecnocrazie giudiziarie, sovietismi inconsci, e non da ultimo certi familismi finanziari che si proteggono con piglio calvinista dall’aggressione di altre famiglie ricche più basse (che poi magari vincono e diventano calviniste e chiuse). Il meccanismo si affaccia a cadenza ciclica, crea scompiglio e svapora. Di volta in volta la questione morale viene evocata come un’urgenza imperativa e negletta. In tempi non lontani, è stato così all’alba degli anni Ottanta quando Enrico Berlinguer evocò, appunto, la questione morale in un’intervista a Eugenio Scalfari. Era il 28 luglio 1981 e il segretario del Partito comunista italiano disse al fondatore (e allora direttore) di Repubblica: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti”.
E poi: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni a partire dal governo, il risultato è drammatico”. “Essi hanno degenerato recando così danni gravissimi”. Di qui l’orgoglio della diversità comunista (“Il Pci non li ha seguiti in questa degenerazione, ecco la prima ragione della nostra diversità”), e la nuova bandiera da issare: “La questione morale è il centro del problema italiano”. E siccome si era allora in piena turbolenza da infiltrazioni massoniche piduiste, Berlinguer aggiunse: “Oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare o spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le operazioni che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela”. Lo sciame sarebbe tornato dopo il crollo del muro di Berlino, nei primi anni Novanta, con Mani pulite. Con la frana della così detta Prima repubblica, indebolita dalla corruzione e sgretolata dalle procure. Fu la stagione del dipietrismo tonante, quando perfino Achille Occhetto si convinceva che “per fortuna siamo alla fine del regime”.
Mentre l’anima giustizialista del Pci-Pds gonfiava il petto e, come ha scritto il senatore Giovanni Pellegrino nel suo “La guerra civile” (Bur-Rizzoli 2005), accadeva che le inchieste di mafia e corruzione aperte dalla magistratura venissero “doppiate” dalla nomenklatura post-comunista (“i pentiti prima venivano sentiti da Caselli, poi da Violante”, all’epoca presidente della commissione Antimafia). Adesso, nuovamente, l’eterno ritorno del sospetto si spande sulla quotidianità italiana. Sul groviglio politico-finanziario che avvolge, come fosse nato dalle radici di un unico rampicante, la scalata in Rcs e le offerte d’acquisto per la banca Antonveneta e la Bnl (con o senza l’aiuto del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio); le nomine dei vertici Rai e la sopraggiunta e presto decaduta collaborazione finanziaria tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi (isolato a sinistra, soltanto il senatore ds Franco Debenedetti ha disapprovato pubblicamente il contegno del fratello Carlo). Un patto inedito, conveniente e chiacchieratissimo. Un patto unilateralmente sciolto da CdB per ragioni, appunto, di opportunità morale e dopo ch’era insorta, sconfessandolo con dimissioni e brontolii, la crema militante (o anche solo simpatizzante) della sua associazione Libertà e Giustizia. Sylos Labini, Giovanni Sartori, Enzo Biagi.
Ma perfino il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha voluto sigillare la protesta con un fondo contro “il diavolo” Cav. Ricavandone nell’ordine: la palinodia di CdB; una risposta tra il vittimista e lo spazientito del Cav. e l’opportunità di replicargli, a brutto muso per una volta ancora. E’ stato invece, come tutti sanno, il prodiano Arturo Parisi a disseppellire la questione morale facendone il lamento dei giusti (per autoproclama) contro il risorgente malaffare che coinvolgerebbe anche i Ds, con quel loro presunto baratto per portare Claudio Petruccioli alla presidenza della Rai e con quel loro atteggiamento per lo meno tollerante verso Chicco Gnutti, Stefano Ricucci e altri “scalatori” (il prediletto è Giovanni Consorte di Unipol). Si sa come l’hanno presa i Ds, e fra loro sopra tutto quelli che non hanno mai aderito al “partito delle procure”. Tipo Emanuele Macaluso, figura storica del socialismo riformista. Macaluso ha scritto che Parisi avrebbe “vomitato” quanto Prodi teneva in pancia. Chissà se è vero. In ogni caso l’accusa dei prodiani ha trovato il suo vento e si è levata. Sostenuta dagli editoriali della domenica di Eugenio Scalfari su Repubblica (“La morale perduta”; svolgimento: “Quest’intenso discutere di morale mi allarma. Sono infatti convinto che quando la morale diventa argomento di vivace discussione, essa stia scomparendo dai comportamenti degli individui e dei gruppi sociali”. Segue predica morale con citazione berlingueriana, tocco antiberlusconiano, polemica su Bankitalia e sulla timidezza dell’opposizione. Coda d’insoddisfazione per il contegno dalemiano) e di Barbara Spinelli su La Stampa. Spinelli se possibile è quasi definitiva e le rincresce molto “la grande illusione che Mani pulite fosse servita a qualcosa” perché “il malaffare permane” e “ha ragione Arturo Parisi quando parla di questione morale”. Così, mentre l’Unità si fida poco finanche del passo indietro di De Benedetti, faccende di dimensione e consistenza vaga, imprecisa, vengono trattate con tetraggine d’altri tempi.
Emanuele Macaluso si è arrabbiato, dicevamo. Secondo lui “non è così semplice la cosa e la questione morale va inquadrata nella storia politica d’Italia”. Perché “c’è sempre stata la questione morale, in uno Stato come il nostro sostanzialmente immorale, mai di diritto perché ha convissuto con mafia e scandali. A cominciare dalla fine dell’Ottocento con quello della Banca Romana”. Di fondo “c’è una storia tipica fatta di moralismi e trasgressioni le più incredibili. In cui lo Stato italiano ha sempre oscillato tra le leggi eccezionali e le tolleranze. Ed emergenza e tolleranza non fanno uno Stato di diritto. Proprio il contrario. Eppoi basta pensare alle inchieste parlamentari sulla mafia condotte mentre lo Stato trattava con la mafia. Idem con il terrorismo: abbiamo questa doppiezza su cui bisogna riflettere preliminarmente”. Detto questo, è vero che dalla fine dei Settanta qualcosa cambia nel Pci che si propone come forza di rottura non solo ideologica ma adesso prevalentemente morale. L’intervista di Berlinguer – è sempre Macaluso – coincide con l’emergenza P2. L’impasto di una loggia massonica dove figuravano iscritti di tutti i tipi. Dai capi dei carabinieri a finanzieri, politici, poliziotti, servizi eccetera. Una specie di raduno di uomini che rappresentavano lo Stato ma in un recinto parallelo. Berlinguer aveva la preoccupazione fondamentale di una crisi dei partiti, del sistema politico. Partiti che decidevano su tutto. La sua idea era di fare un passo indietro. Eravamo dentro una crisi del sistema cominciata con la morte di Aldo Moro. Non c’era ricambio politico. Ma ci siamo ancora dentro, in questa crisi endemica”. Forse perché “Berlinguer commise l’errore di non capire che il problema non era solo di far fare un passo indietro ai partiti, ma di rendere agibile il sistema con le alternative di governo, cioè con un Pci che non si limitasse allo strappo con i partiti comunisti dell’Est. Berlinguer ebbe la remora di non dire chiaramente che il partito poteva essere forza di governo, con una piena adesione alla socialdemocrazia europea.
Ebbe l’idea di poter superare la crisi di sistema sollevando la questione morale e cercando l’acquisizione, nella coscienza storica, della diversità comunista”. Ma se ci fu inadeguatezza allora, esiste oggi ed è esistita fino a ieri l’altro una coazione a ripetere secondo la quale Mani pulite è stata la prosecuzione (incompiuta) con mezzi giudiziari della battaglia morale che ancora agita i girotondi e i Sylos Labini. “Mani pulite è dentro quella logica. Arriva quando il sistema è già in coma e nel pieno della crisi totale dei partiti. Non è vero che la crisi arriva da Mani Pulite, già nel 1992 il fenomeno era visibile nella Lega che portava a Roma 80 parlamentari. Tangentopoli arriva veramente nel 1993, ed è l’epilogo di quella crisi. Una rinuncia della politica che fu evidente in occasione del famoso discorso di Bettino Craxi, quando il leader socialista pose alla Camera la questione su quanti sapevano del sistema di finanziamenti illeciti. Craxi disse quello che disse e nessuno si alzò, allora fu chiaro cos’era la rinuncia della politica. Qualcuno ha pensato che il braccio della magistratura potesse aiutare la riconversione del sistema politico. Io non ho mai creduto all’asse Pds-Ds-Magistratura. C’è stato qualcosa, vabbè, con Violante. Ma era il convincimento che, siccome la magistratura in assenza della politica aveva preso il suo ruolo, tutto sommato quel ruolo avrebbe favorito il ricambio. Neanche per sogno, invece”.
Oggi è diverso ma in fondo, dice Macaluso, “siamo ancora lì. Non c’è stata la ricostruzione di un sistema di partiti, che si sono frantumati come si è frantumato il progetto berlusconiano del 1994. Come la società civile che doveva surrogare quella politica in crisi. Tutte balle. Oggi ancora una volta si è rinunciato a una battaglia per ricostruire le grandi forze politiche e collegarle al mondo. La questione di cui più si parla, il comportamento di Bankitalia, suggerisce che è inutile pigliarsela con i giudici quando è la politica a mancare. In America quando hanno dovuto colpire certi fenomeni hanno colpito approntando una legge adeguata. Una risposta della politica. Da noi la politica non è stata in grado di concludere nulla dopo lo scandalo Parmalat”. Pure il sottofondo moralistico è rimasto uguale? Il caso di De Benedetti fa scuotere la testa a Macaluso. “La sinistra pensa che De Benedetti possa essere il proprio oracolo. Invece lui, nella pratica di intrecciare affari e politica, è come Berlusconi. Lo ha sempre fatto, ha sempre avuto le mani in pasta nella costruzione di governi attraverso associazioni e giornali. Sempre con l’obiettivo di influenzare la politica, sempre tenendo fermi i suoi affari. Questa la logica. Oggi la cosa è venuta un po’ più allo scoperto per il legame tra i due. Ecco cosa rimprovero alla sinistra: di avere pensato che l’Ingegnere potesse essere un patriarca della sinistra”. Quanto alle insinuazioni sui Ds, “non sono iniziative d’occasione. Coloro che attaccano sono gli epigoni di una storia. Usano metodi che in passato furono usati da esponenti del Pci contro i loro stessi compagni. Cosa è l’intervista al Corriere di Parisi? Il tentativo di solleticare il girotondismo, da una parte, e dall’altra certe forze della borghesia per dire loro: badate non vi fidate di questi ex comunisti. Il discorso è indirizzato alle fasce plebee (anche se in mezzo c’è qualche professore universitario), perché di plebeismo si tratta nel caso dei girotondi. Ma anche però alla Confindustria e ad altri poteri per dire: state attenti che questi qui, i Ds, poi si mettono d’accordo con gli uomini che sono arrivati all’ultimo momento. I Ricucci i Fiorani i Consorte. E siccome Parisi sapeva certamente che i vari Della Valle avevano fatto le loro polemiche contro i lanzichenecchi, ha pensato bene di dire: noi siamo un’altra cosa. Il professore vi può garantire anche questo.
E’ stato tutto un gioco per fottere i Ds. I quali Ds sono un po’ coglioni, non si accorgono delle cose, anche se ora reagiscono”.
Altro ex Pci disincantato, Duccio Trombadori, altro uomo di sinistra estraneo alle prefetture di polizia morale. Esplicito. Secondo Trombadori “Berlinguer tentò di far uscire il Pci dalla osservanza ad Est e dalle sue proprie contraddizioni, invece che per la strada maestra della socialdemocrazia, accentuando una linea tradizionale di stampo radical-azionista: dunque virtuista, ideologicamente antifascista e tendenzialmente forcaiola. Il rinnovamento socialista-democratico dell’Italia, e la vocazione nazionale popolare del Pci, veniva subordinata al pregiudizio della bonifica dei partiti come se questi ultimi fossero i veri e i soli responsabili della nota corruttela istituzionale. Il singolare connubio di azionismo laicista e massonico e radicalismo comunisteggiante segnò anche la politica “europea” di Berlinguer per svincolare il suo partito dal confronto con la alternativa socialista e liberale che in Italia gli indicava Craxi”. Questo “grande peccato d’origine” ha fatto da battistrada ai successivi sviluppi storico-politici “di cui il Pci è stato oggetto e soggetto per varie circostanze fino ad oggi facendo dell’Italia quel ‘paese anormale’ che è, con buona pace di Massimo D’Alema che, sia pure con qualche variante, è stato seguace diretto della linea berlingueriana. O almeno lo fu senza mai rompere”. Anche per Trombadori “nei primi anni Ottanta, le accuse di Berlinguer avevano una consistenza. Ma tutto fu estremizzato al punto tale da far precipitare gli equilibri politici fino allo sfascio della Prima repubblica”.
Quel messaggio antipolitico “non poteva poi non piacere a certi esponenti del managerialismo di Stato, vissuti all’ombra ma non del tutto compromessi con le logiche di partito. Come per esempio quei tecnocrati democristiani per lo più ‘di sinistra’ che ritrovavano nella linea berlingueriana una specie di verginità per un capitalismo di Stato che intendeva mantenere il suo potere attraverso l’appoggio del partito comunista”. Antonio Socci, giornalista Rai, editorialista del Giornale, ha toccato questo capitolo in un’inchiesta scritta nel 1987, insieme con Roberto Fontolan, per il settimanale “Il Sabato”. Titolo, “Tredici anni della nostra storia”. Un lavoro che ha procurato a Socci notorietà e un sacco di antipatie. Nella puntata numero 14 Socci incrocia la questione morale. Ci arriva un poco di striscio ma ci arriva, e lo fa partendo dai “grandi potentati contro le formazioni politiche”. Siamo alla metà dei Settanta e nel mondo della finanza azionista (“tecnocrazia e grande industria”, all’epoca nome e cognome della Fiat) prende forma il progetto di laico-illuminista (così nella definizione di Giorgio Galli che Socci riporta) di “colonizzare il Pci portandolo su posizioni liberal (per questo nasce nel ’76 la Repubblica di Scalfari e Caracciolo, cognato di Agnelli). E comprarsi la Dc (come fosse in svendita) per farne un partito repubblicano di massa: i due poli. Così matura la candidatura di Umberto Agnelli nella Dc. I risultati del 20 giugno 1976 portano il Pci al 33,8 per cento (la Dc è al 38,9). Ci sono dunque le condizioni per realizzare quel patto fra produttori che assesterebbe un brutto colpo al sistema dei partiti. E la sua forma non può essere che quella di un accordo tra una Dc ‘agnelliana’ e un Pci scalfarizzato. I giochi sembrano ormai fatti. A far saltare il piano saranno Moro e Andreotti”.
Da qui muove una ricognizione su “Andreotti il guastafeste” scelto da Aldo Moro per reggere il governo che, con l’astensione del Pci, procederà al risanamento di conti pubblici voraginosi e all’abbattimento di una spaventosa inflazione. Eppure, scrive Socci che fino al 1980 le varie “aree tecnocratiche” si trovano “coalizzate” contro la segreteria Dc. Nel 1980, dopo la sconfitta di Andreotti, l’Italia è in mano ai potentati economici e finanziari (i partiti sono impotenti e sconfitti): si prepara il grande scontro interno al Palazzo”. Molto in breve: l’inchiesta ripercorre l’incredibile vicenda di Moro (anno 1978), rapito nel giorno in cui il governo Andreotti (il Pci nella maggioranza) doveva presentarsi alle Camere. Poi, tra un’allusione e l’altra, tra una deduzione e la successiva sul ruolo della P2 contro la Dc di Moro e Zaccagnini: “Fatto sta che, scomparso Moro, l’istigazione di Scalfari verso il Pci ebbe finalmente successo. ‘Dal ’79 in poi’ racconta Scalfari ‘la questione morale’ ha preso il posto del compromesso storico nell’agenda berlingueriana. Quella è stata secondo me la svolta di fondo, nella evoluzione del Pci… In questi dieci anni’, conclude, ‘il nostro gruppo di opinione e soprattutto le testate giornalistiche che lo rappresentano, la Repubblica, l’Espresso e Panorama, ha adempiuto egregiamente, per la sua parte, al ruolo di laicizzare la chiesa comunista’. E’ un brano rivelatore – ora è di nuovo Socci – il grande cavallo di battaglia è proprio lo spauracchio dello scandalismo: la questione morale viene da loro contrabbandata come la degenerazione del sistema dei partiti, che va dunque ‘riformata’. (Ma lungi da loro per esempio l’idea di ‘moralizzare la finanza o la Grande industria). Il tam tam si farà assordante verso il 1980 grazie anche ai giornali del gruppo Rizzoli (controllato da Licio Gelli): la via d’uscita che questi indicavano doveva essere una sorta di golpe istituzionale che portasse al governo dei tecnici […]”.
Cronologicamente:
1) Alla fine del 1979 il Pci abbandona Andreotti; nell’agosto dell’80 scoppia la bomba alla stazione ferroviaria di Bologna, culmine di una “spettacolare e sospetta escalation del terrorismo”;
2) Collassa la credibilità dei partiti, “causa di sfacelo e corruzione. Con il novembre 1980 la parola d’ordine assordante è: questione morale”.
3) Flaminio Piccoli diventa segretario della Dc, il suo vice e futuro successore è Ciriaco De Mita, “la prospettiva per quelle lobbies che vollero questa svolta nella Dc”. Sarà De Mita a nominare Romano Prodi al vertice dell’Iri.
4) Il Corriere della Sera fa da grancassa alla richiesta di un “governo dei tecnici” guidato da Bruno Visentini.
“Con i partiti ridotti a fantasmi di se stessi (o burattini di molti burattinai)” – concludono Socci e Fontolan – “tre grandi lobbies sono ormai padrone assolute della piazza”. Queste lobbies, ora convergenti ora no, nell’inchiesta risultano essere la P2 di Gelli “che controlla i giornali del gruppo Rizzoli”, il gruppo Agnelli (“giornali, Confindustria, Mediobanca eccetera) e il gruppo “De Benedetti, Caracciolo, Scalfari”. Oggi Antonio Socci conferma che in quegli anni “Berlinguer, invece di parlare di quello politico, all’improvviso prese a parlare un linguaggio moralistico-metafisico”.
E’ in quegli anni, negli anni Settanta, che “si affacciò l’idea tecnocratica di ascendenza azionista, secondo la definizione di Augusto Del Noce, che ha sempre contestato i grandi partiti popolari usciti vincitori o sconfitti dalle elezioni del 1948: Dc, Pci e Psi. Questa casta d’illuminati ha sempre creduto che per destino dovesse rappresentare il governo vero dell’Italia. Fino ad allora s’erano dovuti accontentare della Banca d’Italia, di ministeri economici e giornali. Poi, finalmente, si sono sentiti pronti a prendere le redini dell’Italia”. La realtà che ha oggi davanti a sé Antonio Socci è completamente diversa. Persino da Tangentopoli. “Oggi gli schieramenti non sono così netti”. Secondo lui “l’unica risonanza di tipo moralistico è in effetti percepibile intorno alla vicenda De Benedetti-Berlusconi. Lì sì, è come ci fosse un problema di sangue. Ciò che in una splendida inchiesta di Luca Ricolfi, ricercatore all’Università di Torino, viene chiamato ‘razzismo etico’: una posizione ideologica tipica del centrosinistra, che consiste nel ritenere moralmente inferiore gli avversari”. Quanto al resto, “mancano gli ingredienti, gli elementi materiali per costruire il teatrino. Le plebi non si lasciano infiammare dai nomi di Ricucci e degli altri. Non è neppure chiaro chi siano. In più non c’è l’alto grado di impatto emotivo rappresentato dai risparmiatori penalizzati da Parmalat”. Il presupposto, dice Socci è che “il meccanismo giustizialista, dal punto di vista filosofico, ha un’essenza giacobina, manichea e gnostica. Ha bisogno di una chiara, nettissima delimitazione delle parti in causa. Bianco e nero.
La regola fondamentale del gioco è questa: deve essere abbastanza chiaro per il pubblico quali sono i due fronti. Da una parte deve esserci il male assoluto (a suo tempo Craxi), dall’altra il bene assoluto (a suo tempo Di Pietro). Oggi non li vedo questi giocatori. La cosa funziona ancora per Berlusconi, il brutto sporco e cattivo. Ma adesso non si capisce granché da che parte stia Berlusconi. Certo, se riusciranno a tirarcelo, allora sì, allora il giochetto potrebbe funzionare”. Fermo restando però che “neanche i bambini crederebbero a Prodi nel ruolo di bene assoluto mentre solleva una ‘questione morale’. Al massimo può avvalersi di un piccolo spunto propagandistico per una campagna elettorale che parte alla lontana. Una furbatella. Ma onestamente, Prodi nelle vesti del giacobino giustizialista non è credibile, è dal 1978 che fa il ministro. Non è che sia precisamente una vestale”. C’è infine un elemento che Socci vuole illuminare: “Rispetto a quanto scrivevo dieci anni fa, contro il moralismo usato come arma ideologica, riconosco che c’è comunque un problema oggettivo di moralità. L’alternativa non può essere tra il giustizialismo e la totale mancanza di regole e d’un minimo di correttezza. Nel caso attuale non riuscirei a scrivere dove come e perché le regole non hanno funzionato”. Qualcuno si avvantaggerà della situazione? Lo farà in senso “antipolitico” come sembrò durante Tangentopoli? “Sia nella vicenda di Berlinguer sia in Tangentopoli il vero monstrum era l’Italia dei partiti. Quella vissuta in un sistema bloccato in cui non c’era ricambio né controllo. Fondamentalmente era un’Italia politica con grande cultura d’appartenenza, con realtà popolari. Oggi non è così. Anzi paradossalmente se dovessimo dire cosa c’è rimasto dell’Italia dei partiti, diremmo Ds e An. Tangentopoli ebbe successo anche perché cadde in concomitanza con una finanziaria da novantamila miliardi di vecchie lire, il prelievo forzoso dei conti correnti e così via. La gente si sentiva fisicamente, personalmente derubata. Ma ormai la questione morale è uno slogan, potrebbe anche essere impugnata dal centrodestra, come in effetti avvenne nel caso Telekom Serbia (al di là della mazzetta presa o meno, la questione investì la liceità di finanziare il dittatore Milosevic). Di più: da un punto di vista culturale sarebbe proprio la destra la legittima proprietaria della questione morale-politica. I “partiti forchettoni” era una formula adottata dal vecchio Msi. In fondo quale è stato l’effetto più grande, oltre alla distruzione della Dc, di Tangentopoli? La fine dell’arco costituzionale e la ‘legalizzazione’ del Msi”.
«Il Foglio» del 26 luglio 2011

La questione morale: come tutto ebbe inizio

I fascisti inconsapevoli
s. i. a.

In un libro "il monolitico conservatorismo dello stato" e l'inizio della marcia verso l’orgoglio antropologico
Pubblichiamo il capitolo conclusivo del libro Anni ’70. I peggiori della nostra vita (I Grilli Marsilio, pp. 204, €15.00) di Giuliano Cazzola, Simonetta Matone, Filippo Mazzotti, Domenico Sugamiele, con un’introduzione di Maurizio Sacconi.

Non esistono istituzioni che possano bastare a se stesse. Osservare il quarantennale paradosso italiano di un contesto istituzionale formalmente immobile come una stalagmite, e nel frattempo percorso da tensioni interne tali da averlo sfigurato, non deve far dimenticare come simili sviluppi ed esiti così infausti non sarebbero mai stati possibili se a mancare fosse stato il carburante indispensabile: il consenso. Non il consenso della maggioranza, che, per quel poco che conta, probabilmente non c’è mai stato. Il consenso della componente politicamente attiva, e perciò apparentemente maggioritaria, e dell’apparato culturale che ne è insieme il fomentatore e il ritratto.
Ancora una volta si finisce per dover cercare dalle stesse parti di sempre. Se si solleva il velo di un’opinione pubblica improvvisamente attratta da un moralismo che non l’aveva in precedenza mai sedotta, che scopre che ciò che le interessa nella conduzione dei pubblici uffici e delle cariche elettive non sono il riscatto degli oppressi, il progresso sociale e l’equità, ma la semplice, banale onestà, ci si imbatte di nuovo in loro: gli aedi mediatici della moralizzazione, e le loro truppe, la borghesia urbana impiegatizia che grida al ladro per dire quanto sia morale lei stessa, condividono lo stesso passato che affligge noi tutti. Sono le stesse persone che ce l’hanno inflitto. E’ la stessa generazione che ha mantenuto il suo tratto distintivo, l’unico probabilmente vero e costante nel mutare delle circostanze e delle rappresentazioni: la convinzione di essere “la meglio gioventù”. E si è limitata a cambiarne la declinazione, il richiamo per anatre di cui ha bisogno per riconoscersi: non più la solerzia per le cause operaie o terzomondiste, ma la dirittura morale, l’incorruttibilità, con un piglio che ai tempi belli quella stessa generazione avrebbe qualificato con una parola semplice semplice, pronunciata tante volte a sproposito ma in questo caso no: fascista.
E c’è poco da strabuzzare gli occhi, perché, del fascismo, il popolo di Mani pulite e i suoi tardi epigoni odierni condividono tutto: dall’estrazione piccoloborghese, con relative frustrazioni, all’odio verso regole e procedure istituzionali, alla fascinazione per quelli che vanno per le spicce. Non sarebbe del resto una novità. Quanti di quegli studenti, così simili ai nostri eroi, che assediarono Montecitorio nelle radiose giornate del maggio 1915 per invocare l’ingresso dell’Italia in guerra, si ritrovarono di lì a qualche anno di nuovo a Roma a fare un’altra, altrettanto grottesca, marcia?
Com’è potuto accadere che gente tanto profondamente ideologizzata, e tanto indifferente a una legalità tacciata infinite volte di essere borghese, e tanto indulgente verso fenomeni d’illegalità ben più violenti e gravi, abbia trovato il proprio ultimo segno di identità di gruppo in qualcosa di così lontano dai suoi presupposti ideologici?
Anche in questo caso ci sono una data, un luogo e dei protagonisti: la data è il 28 luglio 1981; il luogo sono le pagine di Repubblica, il quotidiano che si è incaricato di accompagnarli dalla rivoluzione sognata alla parodia d’insurrezione del 1992-1993; i protagonisti sono due, l’intervistatore è Eugenio Scalfari, l’intervistato, il più colpevole dei due, Enrico Berlinguer.
“Penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?”, domanda il primo. E il secondo, portando a compimento, per usare parole sue, una mutazione genetica della cultura a cui apparteneva, che egli andava imputando ad altri, risponde: “Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?”.
Diversità. Ci mise qualche anno in più del suo intervistatore, ma alla fine anche il segretario trovò la parolina magica che gli avrebbe permesso di mettersi in comunicazione con le schiere degli anni settanta, “untorelli” li chiamava fino a qualche anno prima, e di spalancare loro le porte della chiesa rossa che avevano fino ad allora guardato in cagnesco.
Rimesse nell’apposito sacco le pive di un compromesso storico abortito, Berlinguer è in quel momento pronto per partire verso nuovi, ancora più entusiasmanti, sbagli. Intona, perciò, il proprio canto alla melodia che gli ex untorelli vogliono ascoltare e spiega loro che il comunismo è roba per borghesi, non deve far paura. Il Pci non è il partito della classe operaia, quella semmai è la truppa. E' il partito di quelli che non rubano, che non occupano lo stato, che non spartiscono poltrone. E' il partito della parte migliore del paese. E' il loro partito.
E così, quella conversione dalla questione sociale a quella morale, quella marcia verso l’orgoglio antropologico iniziata dal suo intervistatore, trovò il suo portabandiera. Se il cugino socialista era uscito dagli anni settanta con un anno di anticipo, nel ’79, guardando in avanti, sotto le bandiere della grande riforma, il dirimpettaio comunista ne usciva con un anno di ritardo e con lo sguardo rivolto, tanto per cambiare, nella direzione sbagliata. Nasce allora quel timbro di classe dirigente alternativa, che si legittima da sé con un’onestà e una competenza autoattribuite, una classe dirigente che merita il potere in quanto tale, a prescindere dai contenuti, che gli eredi di Berlinguer non sono ancora riusciti a staccarsi di dosso. Una classe dirigente che trae le proprie radici da una Costituzione immaginaria, che anch’essa sbiadisce. Dalla missione della democrazia progressiva di Togliatti, quella di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, al banalissimo compito di interpretare le grandi correnti d’opinione e controllare l’operato delle istituzioni.
Non è un caso che il tratto distintivo che la fame d’identità generazionale, l’ansia di diversità antropologica, ha assunto ai giorni nostri è quello di una sorta di idolatria della Costituzione, elevata al rango metafisico di misura di tutte le cose, eden perduto in cui ognuno poteva trovare il proprio ubi consistam e niente era in grado di turbare i sonni di chi, da una politica finalmente restituita al suo rango e capace di scegliere, ha tutto da perdere e nulla da guadagnare.
Una Costituzione che non esiste nella realtà storica, nella quale c’è semmai un saggio compromesso tra forze diverse e nemiche ma capaci di unirsi, in virtù delle necessità storiche, contro un altro nemico più forte e feroce di ciascuna di loro. A patto, come fu, di rinunciare, anche grazie al compromesso costituzionale, all’eventualità di una sopraffazione reciproca nel futuro.
Ma questo non conta per chi, quando parla della Costituzione o della legalità, sta soltanto parlando di se stesso e a se stesso per raccontarsi, ancora una volta, della propria superiorità morale. E ha bisogno di ripeterselo così spesso, magari, perché di essere tanto diverso e migliore non è poi così sicuro.
Una Costituzione che appare in due forme che, come spesso accade per ciò che rinvia a quell’epoca, non possono essere entrambe vere e sono, invece, entrambe false: la Costituzione, in una sua accezione totalizzante, come programma politico che relega i partiti al ruolo subalterno di esecutori di un percorso scritto una volta per tutte oltre sessant’anni fa e che ha conosciuto negli anni settanta il suo apice. Un’impostazione che oggi serve soltanto a distinguere strumentalmente fra le culture politiche legittime e quelle che non lo sono, quasi che la legittimità non derivi dal consenso popolare ma da radici che affondano in un mondo che non c’è più.
E poi la Costituzione come pura forma, regole del gioco che surrogano una politica il cui solo ruolo residuo è quello di rispettare forme che tengono il luogo di contenuti che si decidono altrove. Anche in questa seconda accezione la politica vede svanire il suo primato, costretta in un limbo in cui tutto ciò che può fare è non decidere. E, perciò, astenersi dal mutare i rapporti di forza sociali che ci sono, accettando la sorte minimale di arbitro formale della contesa fra nomenclature e brandelli di establishment, il cui arbitro sostanziale deve restare il conformismo dei valori, perpetuato da un’industria culturale che non ha mai fermato i propri motori e mai annacquato il proprio pessimo vino.
Ed è in nome di una Costituzione che non c’è, che li vediamo ancora oggi, i ragazzi di Valle Giulia, scendere in piazza e tenersi per mano, per lo più intorno a qualche tribunale. E dirsi l’un l’altro di quanto alti fossero i loro ideali e quanto siano ancora migliori della società che li circonda, e gridare come forsennati mentre fanno, e raccontano di fare, la loro ennesima finta rivoluzione.
«Il Foglio» del 27 luglio 2011

30 luglio 2011

Il giornalismo? Vivrà se «filtra»

di Daniele Zappalà
«I cittadini provano oggi sempre più l’impressione sgradevole di essere sommersi da un’abbondanza, un’"info-obesità", quasi un caos d’informazione, ma c’è una soluzione a questo disorientamento ed è il giornalismo». Ad esserne profondamente convinto è Eric Scherer, oggi direttore della strategia digitale della televisione pubblica francese ed autore di un Manifesto del giornalismo espanso (Editions Puf) che sta facendo molto discutere in Francia.
Lei sottolinea innanzitutto che si accede oggi all’attualità non più necessariamente attraverso i menù offerti dai media tradizionali. Chi "consuma" l’informazione è davvero più attivo?
«Credo di sì, perché oggi chiunque ha la possibilità di scegliere ed il menù è meno imposto che mai dai media tradizionali. Anche per questo, ad esempio, l’editoriale di un quotidiano di riferimento come "Le Monde" ha oggi un’influenza minore rispetto al passato. Attraverso internet, il cittadino può cercare in modo più autonomo l’informazione. Dipende poi dai casi, naturalmente, se ciò sia un bene o un male, ma in ogni caso si tratta di un dato di fatto».
Come definirebbe i cambiamenti in corso?
«Assomigliano un po’ a quanto avvenne nel XV secolo, con un controllo sempre più allargato e diffuso degli strumenti di produzione e diffusione dell’informazione. Ciò può essere visto pure come una democratizzazione della scrittura e produce un’esplosione esponenziale di contenuti digitali, interessanti o meno».
Per il giornalismo, questo contesto coincide con nuove sfide?
«Sì e direi davvero cruciali. In questo nuovo scenario, i giornalisti dovranno esercitare in modo più ampio ed articolato i loro tradizionali compiti di selezione, verifica, gerarchizzazione, valorizzazione dell’informazione, restituendo ad essa anche quel senso che la sovrabbondanza di internet tende a dissolvere. Occorre ridurre in tal modo l’effetto di frastuono legato ad internet, facendo così pure guadagnare del tempo ai cittadini».
Si può dire che il problema principale dell’informazione su internet è proprio un fallimento dei filtri?
«Sì, ed il giornalismo può divenire, anche su internet, il filtro della vita digitale del XXI secolo, oltre a conservare il suo tradizionale ruolo di cane da guardia della democrazia».
Può farci un esempio concreto?
«Le rivoluzioni nel mondo arabo hanno dato vita a un’autentica esplosione di blog ed altre testimonianze digitali di prima mano provenienti dai popoli arabi. Grazie alla sua professionalità e all’utilizzo di Twitter, il giornalista della radio pubblica americana Andy Carvin è riuscito ad assicurare un filtro selettivo delle migliori fonti divenuto poi pure un eccellente strumento di lavoro per la comunità giornalistica».
Il giornalismo deve attualmente pure difendere la propria funzione di pilastro della democrazia?
«Questa funzione resta fondamentale, ma in effetti deve essere più che mai sormontato il problema economico del finanziamento del giornalismo d’inchiesta e in generale di qualità. Non a caso, in molti Paesi anglosassoni sono spesso oggi delle fondazioni o altri organismi no profit a finanziare questo tipo di lavoro giornalistico, con tutti i rischi che ciò comporta in termini d’indipendenza. Le fondazioni hanno infatti spesso un preciso orientamento».
Lei difende la causa di un "giornalismo espanso". Cosa intende?
«Non ci sono mai state così tante opportunità come oggi di far meglio il mestiere di giornalista. Ma occorre che i giornalisti accettino di allargare i propri recinti d’azione e di competenza per entrare in interazione con tutte le capacità e risorse esterne oggi esistenti. Ad esempio, quelle provenienti dalla partecipazione attiva del pubblico. La missione di diffusione dovrà trasformarsi in parte anche in una missione di conversazione. Molte altre risorse esterne provengono dalle nuove tecnologie, le quali permettono fra l’altro forme arricchite di presentazione narrativa dell’informazione».
Lei sottolinea la rinnovata necessità di rafforzare il rapporto di fiducia del pubblico verso l’attività giornalistica. Lo scandalo appena rivelato in Gran Bretagna rappresenta una sorta di avvertimento?
«È uno scandalo che giunge in un pessimo momento e che getta fango sul giornalismo in generale. Negli Stati Uniti e in Europa, cresce da tempo una forma nuova di diffidenza popolare verso tutte le istituzioni tradizionali, dunque anche verso il corpo professionale dei giornalisti. In questo contesto difficile, occorre almeno augurarsi che lo scandalo britannico possa accelerare la fine di certe pratiche di connivenza fra i giornalisti e gli ambienti politici e di polizia».

«Avvenire» del 26 luglio 2011

Dai libricini futuristi al bluff TQ, il lungo flop delle avanguardie

Mentre nelle arti figurative le «scuole» hanno sempre prodotto capolavori, in letteratura non hanno mai lasciato nulla. Come il Gruppo 63, i «cannibali», i Trenta-Quarantenni

di Massimiliano Parente

Monet e Cézanne, incontrandosi, avrebbero parlato di pittura, perché una mela dipinta dall’uno o dall’altro si trasformavano in due universi tra loro inconciliabili. Picasso e Braque avrebbero parlato di cubismo. Worringer e Kandinskij di astrattismo. Tristan Tzara e Hugo Ball di quale happening dadaista organizzare al Cabarat Voltaire. Erano le avanguardie, chiamate storiche perché furono le prime, e storicamente anche le ultime.
Ciascuna con il suo manifesto poetico e spesso con finalità didattico-pratiche da fai-da-te tipo impara l’arte e mettila in cucina vicino alla minestrina. Dal Manifesto tecnico della pittura futurista al come trovare un objet trouvé al come comporre un cadavre exquis. Dove il più megalomane era il Surrealismo di André Breton, il quale reclutava retroattivamente anche i morti, secondo il principio: non era Breton a essere baudelairano ma Baudelaire a essere un pre-surrealista.
Se tuttavia nelle arti figurative le avanguardie hanno dato il meglio di se stesse, in letteratura non hanno mai prodotto granché, cioè tanto fumo, tra una barricata e l’altra del 1914-18, tra interventisti e pacifisti pantofolai, e poco arrosto, zero capolavori, zero opere. Marinetti produceva librini gadget come Uccidiamo il Chiaro di Luna!, Mafarka il futurista, paroliberi come Zang Tung Tung per finire in futuro nella biblioteca futurista di Mughini, e questo mentre Joyce, Proust, Musil e Kafka scrivevano in silenzio capolavori assoluti.
Sarà perché la letteratura si fa da soli e non esistono colleghi, come diceva Gombrowicz «sono limitati da se stessi, dalla loro stessa folla», e perfino l’incontro tra Joyce e Proust fu raggelante, e il succo della conversazione fu questo: «L’ha letto il mio Ulisse?». Proust: «Non ho avuto tempo».
Così dopo un altro mezzo secolo mentre nelle arti figurative italiane dal Neo-Dada veniva fuori quel genio di Piero Manzoni e a New York dalla Pop-Art quell’altro genio di Andy Warhol, qui aprivano baracca e burattini il Gruppo 63 e i Novissimi, che sembravano già vecchissimi. Almeno in Francia all’«OuLiPo» passavano Queneau, Cortázar e Borges, da noi peggio del Gruppo 63 non c’era nulla, solo Nanni Balestrini e il suo «Vogliamo tutto», ossia una carriera.
In America, negli anni Sessanta, si sa, c’erano i beat, e anche lì poche opere, al massimo il lungo rotolo di carta igienica su cui fu dattilografato On the road di Jack Kerouac tra canne e ruttini di birra e fogli unti e bisunti di Charles Bukowski e compagnia scorreggiona, e da noi a chiedersi per decenni quale femme fatale dovesse essere Fernanda Pivano per farseli tutti: gente che finiva a letto con chiunque, non distingueva il lavandino dal water e aveva avuto il culo di nascere nell’era dello svacco e della poesia sulla gara a chi pisciava più lontano.
Al giorno d’oggi poi l’avanguardia è una commedia all’italiana, perfino i pochi grandi non organizzati sono umanamente finiti troppo bene o troppo male per poter essere presi come esempi. Per esempio Aldo Busi, fondatore dell’avanguardia dei busiani, cioè o siete me o non siete niente, non scrive più libri ma ha inaugurato una tecnica di guerriglia al contrario: concedere interviste per farsele rifiutare. Funziona così: un giornalista gli chiede un’intervista, Busi gli dice «Sì ma non devi tagliare nulla», l’ingenuo acconsente e gli manda cinque domande alle quali Busi risponde con due pagine a domanda. Il povero giornalista non può pubblicarla e l’intervista «censurata» va su Dagospia o su altriabusi.it dove finiscono anche suoi scambi di mail privati a insaputa del destinatario. Lo ha fatto anche con me, credendo di farmi dispetto nel raccontare i cazzi miei, non sapendo che non ho una vita privata, e quindi come si dice a Roma: stikazzi.
Tra giovani scrittori ci si raggruppa alla meno peggio, per tentare un colpo di Stato o almeno un colpo di culo, una P2 o P3 o P4 letteraria di borghesi piccoli piccoli e tristi tristi, avessero preso almeno lo spirito di Amici miei, neppure quello. Già negli anni Novanta ci avevano provato con la Gioventù Cannibale, erano cattivi, erano pulp, mangiavano bambini, finiti presto a pulire pannolini: Tiziano Scarpa con un romanzino per dire quanto è bello essere diventato papà, Silvia Ballestra per celebrare la sua maternità, Aldo Nove ha scritto perfino un poemetto alla Madonna. L'unico vero trasgressivo che conosco è il poeta Sandrino De Fazi, in arte Sisso, insegna latino a Caserta e la sua pagina di Facebook è un evento irrinunciabile, fosse per me gli darei il Nobel.
Intanto i vecchi residuati bellici della critica militante come Angelo Guglielmi si aggirano ogni anno a Villa Giulia e attaccano sbiascicanti nenie autocelebrative appena vedono una lucina di telecamera o almeno il telefonino di Fulvio Abbate per parlare a Teledurruti («Quando c’ero io a Rai Tre si faceva avanguardia...»), e comunque si sa, a causa di Pier Vittorio Tondelli non ci sono più vecchi, tutti sono sempre under qualcosa: under 20, under 25, under 30, under 40, e chi più ne under più ne metta.
Si finisce nel 2011 che non hanno niente in comune se non l’età e il bisogno di un posto fisso, un finanziamento statale, un’Officina Italia, uno straccio di programmino tv per venire via con loro e loro non se ne vanno mai. Essendo nel frattempo cresciuti, avendo superato i quarant’anni e non sapendo come fare a definirsi ancora under qualcosa, a maggio scorso si sono chiamati TQ, ossia Trentenni-Quarantenni, in nome della lotta al precariato. Letterariamente, non avendo prodotto niente di importante, sono già morti, a Roma domenica scorsa organizzano a San Lorenzo un convegnetto estivo a cui non si presenta nessuno, la prossima volta meglio organizzarlo direttamente al cimitero del Verano. Biologicamente moriranno comunque giovani, sia i T che i Q, anche se dovessero campare molto e diventare CS e SO, tumulati under novanta e meritatamente underground per sempre.

«A» del luglio 2011

26 luglio 2011

Aiuto, siamo nelle mani dei marxisti rococò

Nelle tavole dello scrittore, una graffiante storia degli intellettuali sempre più lontani dalla realtà

di di Alessandro Gnocchi

Quando è moda, è moda. Anche in campo culturale. Alla fine degli anni Cinquanta erano rockers confinanti con la delinquenza giovanile. All’inizio degli anni Sessanta erano già diventati hippies tutti pace e amore. Nel 1968 abbandonarono le buone vibrazioni e contestarono «il sistema». Poco dopo, quando il movimento si era rivelato una bufala, sposarono la New Age. E, alla fine della corsa, eccoli nei loro eleganti attici, Martini in una mano, sigaretta nell’altra. Magari ancora radicali e attratti dall’irresistibile fascino del rivoluzionario da salotto. Senz’altro molto chic.
Sono i conformisti, ritratti dallo scrittore americano Tom Wolfe. Un osservatore implacabile. Anche quando usava la penna per disegnare e non per raccontare. Infatti l’autore è solito illustrare i suoi reportage con schizzi autografi. I lettori italiani hanno una doppia sfortuna. Una grave, a cui sta ponendo rimedio soprattutto l’editore Mondadori: sul nostro mercato mancano titoli importanti, inediti o editi ma fuori catalogo da decenni; i disegni dell’autore sono pressoché sconosciuti.
Gli americani, al contrario, li apprezzano. Al punto di accogliere Tom Wolfe al National Museum of American Illustration di Newport, per la prima volta in mostra, e accanto a Norman Rockwell, fino al 5 settembre. L’esposizione si intitola In Our Time, come una antologia di disegni pubblicata nel 1980 (i primi risalgono al 1961, la maggior parte ai pieni anni Settanta). Era già l’autore di Radical Chic (1970) ma non ancora il romanziere del Falò delle vanità (successo mondiale nel 1987). Al suo attivo aveva articoli entrati nella storia e ospitati, prima di apparire in volume, da riviste quali Rolling Stone, Esquire, Harper’s Bazaar.
Nelle caricature ci sono tutti i temi che Wolfe poi svolgerà magistralmente nei suoi articoli e nei suoi libri. La satira sul mondo della cultura è sferzante ma la sua caratteristica principale è la lungimiranza. Ci sono le consuete bordate sull’inconsistenza delle avanguardie, con un occhio di riguardo all’architettura e alla pittura. C’è la satira pura sugli intellettuali «rivoluzionari» ma non al punto di rinunciare a qualche vezzo come l’indispensabile loft e l’invito all’inaugurazione del MOMA. C’è la divertente «evoluzione della specie» che conduce il progressista dalla delinquenza giovanile alla coppa di champagne, protagonista e insieme vittima di tutte le mode imposte dal suo milieu.
Spiccano però alcune tavole, con relative didascalie, in cui Wolfe prevede l’evoluzione «rococò» del marxismo. Quella forma residuale di comunismo secondo la quale portare al potere il proletariato, per altro scomparso dai radar, sarebbe cosa volgare. Mentre consegnare il potere alle élite «davvero» democratiche (cioè post comuniste) sarebbe auspicabile anche in virtù della loro raffinatezza che presuppone una indubbia superiorità morale.
Il marxista rococò non si è arreso. E continua a fustigare la stupida borghesia facendo leva sulle «dottrine astruse» che le università degli States hanno importato dall’Europa per poi rispedirle nel Vecchio Continente. Strutturalismo, post-strutturalismo, post-modernismo, decostruzionismo, teoria dell’arte come oggetto d’uso: ecco il fumoso armamentario del marxista rococò prodigo di citazioni dai filosofi di riferimento quali Jacques Derrida o Michel Foucault.
Questa moda culturale, che considera il linguaggio una forma di oppressione borghese, e in quanto tale da smascherare, purtroppo è arrivata anche sulle nostre sponde, con quasi tre decenni di ritardo. I frutti sono davanti agli occhi di tutti: ci ha regalato il politicamente corretto, i discorsi di «genere» sull’oppressione delle donne (e di qualsiasi minoranza vi venga in mente), le polemiche sulle veline, il proliferare di parole usate fuori contesto e fatte rotolare fuori dalle labbra come rivelassero chissà cosa («narrazione» del mondo, del presente, di qualsiasi cosa, anche delle istruzioni della lavatrice, è espressione irrinunciabile, la usa perfino Nichi Vendola, deve essere roba seria).
Oltre a questo, c’è anche l’altro feticcio culturale che sarebbe esploso nel decennio successivo rispetto a In Our Time (1980): la passione per le neuroscienze come possibile chiave di comprensione di qualsiasi aspetto dell’uomo. Nel libro si riferisce sull’ironia pesante riservata dai giovani neurologi a Freud, considerato alla stregua di un poveretto privo di senso dell’umorismo. Temperamento, preferenze, emozioni sono determinati dalla genetica. Idem il libero arbitrio.
Questi temi di profondità abissale, colti con grandissimo anticipo, sono qui risolti in una battuta, o in una didascalia di accompagnamento. Ma in queste tavole c’è la satira che vorremmo sempre vedere: quella che, con una risata, ci fa capire il mondo in cui viviamo lasciando da parte la propaganda politica.

«Il Giornale» del 26 luglio 2011

E un bel giorno 150 anni fa fu inventato il pedale

di Franco Gàbici

Se è vero che una rondine non fa primavera, è anche vero che non bastano due ruote per fare una bicicletta, almeno come la intendiamo oggi. Nel 1790, infatti, un certo Mede De Sivrac aveva costruito una macchina che poteva assomigliare alla bici, ma si trattava di un marchingegno molto semplice costituito da una trave di legno sulla quale erano state fissate due ruote. Chi usava questa macchina, che fu chiamata «celerifero», doveva mettersi in arcione alla trave e se voleva muoversi doveva usare le gambe. Questo nuovo strumento, dunque, non era altro che un modo tutto nuovo di camminare pur restando seduti! Il «celerifero», dunque, non aveva pedali e non aveva nemmeno il manubrio, per cui se si voleva cambiar direzione si doveva scendere, puntare la macchina nella direzione desiderata e rimontare sulla trave, dove era stato sistemato un cuscino per la comodità del pilota.
Sembra che De Sivrac non abbia avuto l’idea di brevettare la sua idea e così per molto tempo artigiani di ogni specie si impossessarono del modello facendogli assumere le forme più svariate e stravaganti. La nuova macchina, infatti, non era ancora considerata un vero e proprio mezzo di trasporto ma uno stravagante passatempo dettato dalla moda del momento.
Una ventina d’anni dopo il tedesco Karl von Drais perfezionò il «celerifero» dotandolo del manubrio girevole ed è proprio il caso di dire che si trattò di una vera "svolta" nella storia della bicicletta perché finalmente con il «celerifero» si poteva sterzare. E Drais, soddisfatto della sua invenzione, chiamò «draisina» il nuovo veicolo che in Francia fu brevettato con il nome di «velocipede».
Ma la bicicletta vera e propria, come noi oggi la intendiamo, secondo alcuni sarebbe nata centocinquant’anni fa, nel 1861, e il condizionale è d’obbligo perché non tutti concordano sulle date e questa imprecisione nel datare le tappe storiche della bicicletta è ribadita dal fatto che nel 1990 si è costituita la International Cycling History Conference (Ichc), un sodalizio internazionale che si raduna ogni anno per fare il punto sugli argomenti intorno alla bicicletta e per mettere un po’ di ordine nella cronologia delle invenzioni dei suoi accessori. Ogni paese, infatti, vorrebbe aver dato i natali alla bicicletta e Curzio Malaparte pianse di umiliazione e di tristezza quando venne a sapere che la bicicletta non era stata inventata da un italiano!
Nel 1861, dunque, un geniale fabbro francese di nome Ernest Michaux si trovò fra le mani una «draisina» da riparare e il giovanissimo fabbro (aveva solamente quattordici anni!) non si limitò a rimetterla in sesto ma apportò alcune modifiche sostanziali. Dopo averla notevolmente ingrandita, applicò alla ruota anteriore due pedivelle per azionarla e sostituì il rudimentale cuscino sul quale sedeva il guidatore con una vera e propria sella dalla caratteristica forma allungata.
Questa nuova macchina, che si diffuse moltissimo specialmente in Francia, venne chiamata «michaudine» ed Ernest, insieme al padre Pierre, fondò una azienda per la produzione. Ma purtroppo padre e figlio non ebbero fortuna. Ernest, infatti, morì in un ospedale parigino in assoluta povertà e la stessa sorte toccò a suo padre.
La fisionomia della bicicletta avrebbe cambiato radicalmente aspetto pochi anni dopo quando Meyer inventò le ruote con i raggi e quando cominciarono ad essere montate ruote dello stesso diametro. Un’altra importante innovazione fu l’introduzione di ingranaggi con trasmissione a catena e la ruota libera, che permetteva al ciclista di sospendere la pedalata, un esercizio che non doveva essere molto agevole. Mancavano, infatti, i cuscinetti a sfera e i pneumatici e soprattutto l’assenza di questi ultimi trasformava l’andare in bicicletta in un vero supplizio. Chi pedalava, infatti, doveva mettere in conto le fastidiose vibrazioni indotte da un mezzo che a ragione si era guadagnato l’epiteto di «boneshaker» (scuoti-ossa). I pneumatici furono inventati da John Dunlop, un geniale veterinario scozzese che nel 1888 aveva applicato il primo esemplare di pneumatico al triciclo di suo figlio.
Un strumento del genere, votato alla velocità, poteva però trasformarsi in un gioco pericoloso e così, a completare la carta d’identità della bicicletta, arrivarono anche i freni, che resero molto più sicuro questo mezzo regalato dalla moderna tecnologia.
In Italia il primo costruttore di biciclette fu il meccanico milanese Edoardo Bianchi. Le biciclette di Bianchi attirarono l’attenzione della regina Margherita che invitò il meccanico nella Villa reale di Monza perché voleva imparare a usarle. E Bianchi, in quell’occasione, costruì per la regina la prima bicicletta da donna, di colore celeste e con lo stemma in oro dei Savoia sul telaio. La bici aveva le manopole d’avorio e fu presentata alla regina dentro a uno speciale astuccio in legno foderato di velluto rosso. La notizia fece il giro del mondo e Bianchi, che nel frattempo era stato nominato «Fornitore ufficiale della real casa», fu costretto a impiantare una vera e propria catena di montaggio per soddisfare le richieste che gli venivano da tutta Europa.

«Avvenire» del 24 luglio 2011

Quelle comunità così moderne e così vulnerabili

di Pierluigi Battista
La tragedia norvegese sta facendo esplodere, anche, una grottesca e mediocre guerra delle attribuzioni contrapposte. Alla smania frettolosa, compiaciuta e spaventosamente disinformata con cui i cantori dello scontro di civiltà hanno subito gridato al terrore di marca islamista si replica con altrettanta sicumera sulla pista della cospirazione nazista: con obbligatoria venatura di fondamentalismo bianco-razzial-cristiano, perfetta antitesi di un'immaginaria pista musulmana. Prima ancora di accertare i fatti, scoppia la febbre dell'identificazione del Nemico, della ricerca di spiegazioni rassicuranti, di semplificazioni che diano ordine a ciò che appare privo di senso, una logica all'orgia di sangue e di morte che ha sconvolto in poche ore una nazione passabilmente tranquilla come la Norvegia. Ma l'inferno norvegese rischia di diventare il paradiso di ogni dietrologia e di ogni più dozzinale complottismo. Il Nemico identificato con aprioristica certezza regala una trama alla follia pura e all'insensatezza. È un meccanismo di autodifesa, è la segnalazione di un pericolo che, con un volto ben riconoscibile, si può arginare. Chiude la società in una fortezza rassicurante: indica e isola i colpevoli, e contemporaneamente spinge chi è assediato alla massima coesione. Identificare all'Islam, senza il beneficio del dubbio, la colpa della strage favorisce infatti la messa sotto accusa della società delle frontiere aperte. Richiama all'ordine una società accusata di aver abbassato la guardia. Militarizza gli animi e le menti contro il pericolo musulmano sempre in agguato. Gridare invece al complotto neonazista alimenta la guerra contro il nuovo mostro interno che inquieta l'Europa. Alimenta un meccanismo ideologico di segno contrario, ma formalmente identico: dirotta l'allarme sociale su un bersaglio preciso, su un'organizzazione segreta che nella parte più buia e ottusa della nostra società cospirerebbe contro la democrazia con una diabolica strategia stragista. E non occorre nemmeno menzionare gli studi con cui etnologi e antropologi hanno studiato il meccanismo del «capro espiatorio» per capire come il bisogno di un Nemico chiaro e identificabile serva alle società per elaborare il lutto e distribuire la colpa. Nella guerra delle interpretazioni, a venir scartata subito finisce così per essere l'ipotesi più perturbante e sconvolgente, e cioè che il delirio dei singoli, la follia delle menti bruciate dalle ossessioni da un morbo paranoico resti pur sempre la chiave per comprendere un gesto catastrofico, segno di una psicopatologia che si ammanta di una veste mistico-ideologica apparentemente coerente. Le indagini appureranno la dinamica della strage, l'identità dell'assassino, i comportamenti di chi avrebbe dovuto tutelare la vita di giovani orrendamente massacrati in un'isola dove erano riuniti per un convegno politico. Se l'autore della strage ha avuto dei complici, ciò naturalmente corroborerebbe l'ipotesi di un criminale disegno stragista. Ma se invece, come parrebbe, il killer avesse fatto tutto da solo, meditando e compiendo un' ecatombe senza appoggi e complicità, sia i dietrologi antislamici, sia quelli che già nel web fantasticano di un'internazionale nera pronta a mettere a ferro e fuoco l'Europa, avrebbero perduto un'occasione preziosa per tacere. In poche ore e con informazioni ancora sommarie hanno già messo i fatti al servizio dei loro pregiudizi e un terribile massacro a disposizione dei loro schemi ideologici, delle loro paure e soprattutto del loro modo di alimentarla e dilatarla, la paura collettiva. Senza considerare però che la paura più vera è quella dell'inspiegabile, della nostra vulnerabilità nei confronti del gesto di un folle. Nemmeno nobilitato dalla grandezza di un complotto.


«Corriere della sera» del 24 luglio 2011