20 gennaio 2012

Fruttero, un maestro del disincanto

di Ernesto Ferrero
Ciò che rende la morte effettivamente misteriosa, diceva Carlo Fruttero, è che nessuno ne può parlare per esperienza diretta. «Staremo a vedere» è tutto quello che si può dire del «singolare fenomeno». Con l'amico Lucentini sorrideva dell’idea di un Dio-salvagente, chiamato all’ultimo momento, come fosse il 118, a correre in soccorso dell'Io individuale che altrimenti annegherebbe nel gran mare del non essere. Gli risultava incomprensibile tutto questo attaccamento al nostro Io: «Questo casuale e in fondo estraneo, eterogeneo miscuglio di mediocri virtù e poverissimi vizi». Possibile venerarlo al punto di sperarlo immortale?
È con questo atteggiamento di spettatore vigile e disincantato che Carlo ha vissuto i suoi ultimi mesi, seguendo la cronaca con la solita curiosità, giocando a limare con le amorevoli figlie l’annuncio funebre: «Circondato dall’affetto dei suoi cari…». Diceva che «dopo» gli sarebbe piaciuto un party in giardino. Magrissimo, estenuato, adagiato su molti cuscini, non aveva perso il suo humour settecentesco, pungente ma mai malevolo, una sigaretta sottile tenuta con eleganza tra le dita, con una sorta di ironica sprezzatura. L’ultima volta che l’avevo visto, in estate, gli teneva compagnia l’assordante concerto delle cicale della pineta di Roccamare; verso sera sarebbe toccato alle rane. Lui rievocava con un guizzo da gourmet la bontà di certi brodi di rana di tanti anni fa, nel vercellese. Adesso non se ne trovano più, quelle poche arrivano dalla Cina sotto vuoto.
Ricordando nell’estate 2002 Lucentini appena scomparso, Carlo raccontava di quando andava a trovarlo nella sua cabane in pietra tra Fontainebleau e Nemours, accanto a un canale su cui passavano lentamente chiatte pensose. La sera passeggiavano lungo l'argine o per villaggi deserti, discutendo fittamente di problemi costruttivi dei loro romanzi, fumando senza soste. Si sentivano come i fumeurs obscurs di cui parla Valéry rievocando le sue camminate notturne con Mallarmé: due puntini di brace nell'oscurità. Quei due punti rossi, così fermi e discreti, li abbiamo seguiti a lungo con divertito piacere, con grata adesione. Perché rappresentavano anche l'estrema linea di difesa contro la «prevalenza del cretino», ormai inarrestabile; e un raro esempio di manutenzione del sorriso in tempi poco allegri. Carlo diceva che qualcuno li aveva paragonati a Bouvard e Pécuchet, vedendoli sempre così indaffarati, fermi col mento in mano davanti alla macchina da scrivere, a falciare l'erba davanti alla casa di Franco, o piantar chiodi in una scala pericolante. Ma contrariamente ai due ex copisti, loro di fiducia nel progresso tecnologico non ve avevano proprio. Preferivano definirsi «meccanici trafelati» che cercavano di aggiustare l’aggiustabile, cacciavite e chiave inglese alla mano. Di certo erano dei grandissimi artigiani, veri pronipoti di Flaubert: una lunga gavetta alle spalle, una padronanza perfetta dei ferri dei mestieri acquisita sul campo, prima in Einaudi, poi in Mondadori come direttori di Urania in tempi in cui, Sergio Solmi a parte, la fantascienza era relegata nel ghetto poco elegante delle pratiche commerciali. Esemplarmente flaubertiana in Carlo l'immane capacità di lavoro, il tenersi in disparte, il non partecipare ai riti della socialità letteraria. Fare le cose con estrema serietà senza mai prendersi troppo sul serio. Il contrario del vate, del profeta, del grillo parlante, del monumento equestre. In una delle ultime interviste, ha rivendicato con sommesso orgoglio l’esser rimasto estraneo ai vacui dibattiti della galassia intellettuale, il non aver mai pagato pedaggi. Poco più che ragazzo, aveva lavorato in Francia come operaio, il proletariato lo conosceva per esperienza diretta e non lo idealizzava, il fumo delle ideologie non l'aveva mai incantato. Non aveva mai pensato che il comunismo fosse un nuovo illuminismo. Ha sempre guardato la realtà in faccia per quello che è, senza cercare consolazioni o scappatoie, ma anche senza disperare. Non si è mai sentito, perché lavorava nei libri, il depositario di un qualche sapere superiore. Ha sempre adottato una linea di empirismo stoico: affrontare un problema alla volta con un massimo di professionalità, correttezza, onestà intellettuale, schiena diritta. Diceva che con Franco sorvegliava la situazione, spalla a spalla, le pistole all'erta. Certo, hanno dovuto sparare molto, ma mai con cattiveria o per acre moralismo. Semplicemente per la decenza: loro e di tutti.
Diffidava delle persone sicure di quello che dicono, che parlano di politica, di economia, di letteratura come se avessero capito tutto e sapessero esattamente cosa dire o, peggio, fare. Osservava che c’è in giro una confusione permanente e generalizzata, molto chiacchiericcio, pettegolezzo, voyeurismo e poca verità umana, poca sostanza. Non gli sono mai piaciute le consorterie, le associazioni, i gruppi, i branchi, le cosche. Ha evitato accuratamente di diventare uno di quegli intellettuali carichi di onorificenze che tengono lezioni in prestigiose università, trafficano in premi importanti e imperversano nei talk show. Da Carlo e dal suo amico Franco abbiamo imparato cosa possano produrre l’ironia, l’allegra e micidiale esattezza della satira, le parole chiare, la limpidezza del tratto, l’amore maniacale per il dettaglio, la leggerezza conoscitiva del gioco, la capacità di vedere i caratteri degli uomini e il piacere di ritrarli, la qualità della scrittura. I puntini rossi delle loro sigarette nel buio della notte ci mancheranno molto.
La Stampa» del 16 gennaio 2012

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