20 gennaio 2012

Il Paese senza nome

L’etica della vita e i 44 milioni di aborti
di Francesco Ognibene
​Quanti sono 44 milioni di persone? O meglio: a cosa equivale un numero così ingente di donne e uomini? Atlanti alla mano, parliamo di un numero quasi pari agli abitanti di Paesi come l’Ucraina (45 milioni) o la Colombia (44,8), un po’ meno della Spagna (46,6) ma assai più della Polonia (38) o dell’Argentina (40). Ecco: ogni anno nel mondo un’ipotetica nazione composta da 44 milioni di individui viene cancellata, rimossa, semplicemente azzerata ancor prima che se ne possano enumerare i componenti. Vite, destini, intelligenze, scelte, geni, quotidianità che non saranno mai conteggiati da alcun registro anagrafico, privi persino di un nome, buoni solo a far statistica.
Questa rimozione a sei zeri accade oggi per effetto degli aborti – ufficiali e clandestini – praticati ogni anno e per ogni dove, sotto l’ombrello di leggi che lasciano fare o di altre più restrittive, ma anche là dove la pratica è tollerata o persino proibita. Aborti conteggiati con precisione dallo Stato, e altri semplicemente stimati, fino all’approssimazione assoluta di aree del mondo dove già contare chi viene al mondo è un’autentica impresa.
Di anno in anno il totale, anziché ridursi, si allarga progressivamente, espandendo questo popolo di non cittadini, di fantasmi che entrano nelle categorie di grandi istituzioni internazionali esclusivamente preoccupate di rendere l’aborto «sicuro», e non di circoscriverlo come si fa di un incendio che dietro di sé lascia solo nera cenere. Agevolare l’aborto, ecco l’obiettivo primo dei palazzi della sanità mondiale, cominciando dalla sua legalizzazione e facilitazione (anche tramite la forma solitaria e semiclandestina delle pillole) anche dove la porta per accedervi è sbarrata, o soltanto socchiusa.
Il Paese dei senza nome, i 44 milioni (per la precisione 43,8 secondo il rapporto annuale appena diffuso dall’Organizzazione mondiale della sanità), non sembrano preoccupare chi distribuisce lezioni e pagelle ai governi sull’amministrazione sanitaria, i burocrati della salute per i quali la vita concepita – personale e irripetibile – ha la stessa rilevanza di una malattia da estirpare in tutta sicurezza.
E se l’integrità della madre va certamente difesa da pratiche criminali, risalta al confronto la completa assenza nei report sanitari internazionali di qualsiasi interesse per quei milioni di progetti individuali spenti prima ancora che potessero mostrare al mondo il proprio irresistibile volto. Non contemplare l’ipotesi che ogni aborto sia una ferita che l’umanità infligge a se stessa vuol dire condannarsi a ignorare che il primo diritto umano è di poter rispondere a una chiamata alla vita. Quei 44 milioni non sono in primis un problema sanitario ma un’angosciante lacerazione etica di fronte alla quale non è ammessa la neutralità, e neppure ce la si può cavare con il rimando a convinzioni religiose o ideologiche "private". Proprio qui, sull’etica della vita, corre infatti una frontiera decisiva del nostro tempo, ammaliato da «letture riduzioniste e totalitarie della persona umana e della natura della società», come le ha definite ieri Papa Benedetto.
Parlava a un gruppo di vescovi americani, ma per loro tramite le sue parole echeggiano in tutto l’Occidente del quale gli Stati Uniti sono spesso l’avamposto culturale e antropologico, laboratorio di quelle correnti «che, sulla base di un individualismo estremo, cercano di promuovere nozioni di libertà separati dalla verità morale». La libertà più estrema e tragica – quella di spezzare una vita inerme, affidata e tradita – è una resa al pragmatismo indifferente che divora anche l’etica sociale, incapace di allarmarsi scorgendo in quei milioni di aborti un mare che bisogna impegnarsi a prosciugare goccia a goccia.
Per questo il Papa sprona a sostenere i «cattolici impegnati nella vita politica aiutandoli a capire la loro personale responsabilità» in particolare sui «grandi temi morali del nostro tempo: il rispetto per la vita dono di Dio, la protezione della dignità umana e la promozione degli autentici diritti umani». È l’ora di mettere in discussione alla radice il tetro libertarismo dei "nuovi diritti" asettici e indifferenti. Lo dobbiamo al Paese senza nome.
«Avvenire» del 20 gennaio 2012

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