03 febbraio 2012

Al vaglio della scienza. E della storia

Tratto dal volume Qualche ragione per credere (a colloquio con M. Brambilla), Mondadori 1997
di Vittorio Messori
M. B.: Abbiamo accennato a questo gran darsi da fare per mostrare l’incompatibilità tra scienza e fede, tra ricerca naturale e culto religioso. Un tentativo che è risultato nullo, anche perché nato da un equivoco. Già lo notavamo, seppur di scorcio: la scienza si propone di rispondere alla domanda: «Che cos’è? com’è fatto? come funziona?».
La religione propone la sua risposta a tutt’altra domanda, che lo scienziato non può porsi senza uscire dai suoi limiti e, dunque, dalla scienza stessa: «Perché c’è? ha un senso? e quale?».
Lo scienziato non deve «pensare» né, meno che mai, «filosofare»: deve fare il suo mestiere, che è l’«indagare» secondo metodi oggettivi, «misurare», «constatare». Deve fornirci dei «risultati», non delle «conclusioni».

«E il di più, viene dal Maligno», per dirla con il vangelo... Ne sono così convinto che, sin dal primo capitolo del primo libro, paragonavo la condizione umana a quella di chi si svegli su un treno che corre nella notte. Da dove è partito quel convoglio sul quale siamo stati caricati senza volerlo, senza sapere da chi e perché? Dov’è diretto? Cosa c’è, se qualcosa c’è, al fondo di quel buio dentro il quale stiamo correndo?
Compito dell’uomo di scienza, qui, è esaminare lo scompartimento, descriverlo, verificare le dimensioni dei sedili, analizzare i materiali, misurare temperatura e pressione atmosferica. Ma da quella dimensione che è la sola sua, lo scienziato dovrà necessariamente uscire, se vorrà mettersi alla ricerca delle possibili ragioni di quel viaggio dall’Ignoto verso l’Ignoto. Dovrà porsi, cioè, le domande non del fisico o del chimico (che nulla di significativo hanno da dire sull’enigma della condizione umana), ma quelle del filosofo e del teologo.
Ma sì, ripetiamolo: constatare, misurare, descrivere è una cosa; interpretare, spiegare è un’altra. Non si intralciano né tanto meno si annullano tra loro, ma procedono in dimensioni e ordini diversi.

Mi sembra davvero sorprendente una confusione simile di piani. Di solito, è la Chiesa accusata di aver mischiato fede e scienza, tentando di sottomettere questa a quella. E, invece, sono proprio i sistemi post o anticristiani che hanno mescolato quei piani, aspettando dalla scienza ciò che non ha mai dato e mai potrà dare. Anche se, appena si accenna a questi temi, c’è sempre qualcuno pronto a ricordarci la vicenda di un signore di Pisa, tal Galileo Galilei ...
Ah, no! Per favore, non si venga ancora a scocciarci (scusa, ma quando ci vuole ci vuole) con questo stantio «caso Galileo», montato dall’illuminismo e via via perfezionato sino a noi come arma da guerra; e con tale abilità e insistenza da essere riusciti, almeno presso molti credenti, a instillare il senso di colpa, il rimorso, magari la vergogna per i fratelli che ci hanno preceduti nella fede e ai quali, malgrado tutto, dobbiamo che quella stessa fede sia giunta fino a noi. Il che è poi ciò che, nella nostra prospettiva, conta davvero.
Lo so, lo so, del caso «Galileo», e degli altri, dovremo parlare quando arriveremo a conversare sulla marcia della Chiesa nella storia. Ma mi sembra importante anticiparne qualcosa subito, perché molti sono convinti che la fede nel Dio cristiano (non parliamo di quello cattolico!) sia una gabbia che soffoca il pensiero e la ricerca dell’uomo.
Ma è importante accennarvi, anche per capire da quali pulpiti vengano certe prediche. Uno dei padri dell’illuminismo (e, dunque, uno degli autori della «leggenda nera» del Galilei) è il solito Voltaire: lui che trattò da «ciarlatani» gli iniziatori della geologia, che sostenevano, a ragione, l’origine marina dei fossili che si trovavano scavando. Il «filosofo dei Lumi» rifiutava quelle «favole degne di un prete», assicurando (e seriamente!) che si trattava di conchiglie perse dai pellegrini sulla strada di Santiago di Compostela... Quando i discepoli di Voltaire vanno al potere, ecco che 1’8 maggio del 1794 ghigliottinano (con migliaia di altri) un uomo di cinquantun anni: era Antoine-Laurent Lavoisier. Cioè, la maggior gloria scientifica di Francia, forse d’Europa, il fondatore della chimica moderna, lo scopritore della formula dell’acqua e dell’aria, il benemerito – tra l’altro – della Rivoluzione, come autore del nuovo sistema di pesi e misure. Al giudice che lo condannava a morte, Lavoisier chiese un rinvio di quindici giorni dell’esecuzione della sentenza per terminare un’importante ricerca in corso. «La Repubblica non ha bisogno di scienziati!» gli replicò (dice la tradizione) il giacobino «illuminato», indicandogli la carretta per il patibolo. Un caso isolato? E Condorcet, allora, condannato egli pure a morte durante lo stesso Terrore, quel Condorcet grande illuminista, grande scienziato, grandissimo matematico ma colpevole di essere «girondino», dunque non abbastanza radicale nel volere la lotta contro l’«oscurantismo»?
Ma come sai, il «caso Galileo» fu montato e impugnato contro la Chiesa prima dal liberalismo borghese e poi dal marxismo. Per decenni, generazioni di «progressisti» si sono commosse e indignate, assistendo alla Vita di Galileo, il dramma di Bertolt Brecht. Peccato, però, che nessuno ricordi mai come l’autore di quella denuncia fosse stato insignito del Premio Stalin dalle mani stesse del dittatore, a Mosca, e che la versione definitiva del dramma sia stata recitata, nel 1957, in quella capitale dei diritti umani e della libertà di pensiero che era Berlino Est. E messa in scena, per giunta, a spese di quello Stato «democratico» tedesco che pagava a Brecht tutte le spese del suo teatro, il Berliner Ensemble, con centinaia di dipendenti.
Pulpiti, come vedi, assai credibili, quelli da cui ci vengono sdegnate prediche e lezioni di «civile tolleranza»! Ma, per venire al Galileo secondo la storia e non la leggenda: fu convocato (e con ogni riguardo: non fece neanche un’ora di carcere) davanti al tribunale non per quello che diceva. La teoria «eliocentrica» di Copernico – che era un devotissimo canonico polacco, che aveva la sua specola sulla torre di una cattedrale, che dedicò la sua opera fondamentale a papa Paolo III come «collega» astronomo, che ottenne senza problemi l’imprimatur dei censori domenicani – quella teoria, dunque, era sostenuta anche da papi e cardinali, in quanto studiosi privati, ed era pacificamente discussa pure nelle università pontificie.
Galileo stesso, del resto – che morì a settantotto anni nel suo letto, nella sua bella villa, con la benedizione del pontefice e mormorando il nome di Gesù e di Maria come ultime parole – Galileo era membro dell’Accademia pontificia delle scienze. Era giunto sino a settant’anni senza problemi con le autorità religiose, tra le quali contava vescovi e cardinali come fedeli ammiratori e potenti protettori. Solo una volta l’invitarono (e nulla di più) alla prudenza: richiamo peraltro doveroso, in nome del rigore e della serietà scientifici.
La guerra gliel’avevano fatta, semmai, i laici colleghi della laica università di Padova. Soprattutto, lo seguiva la minacciosa ostilità del biblicismo protestante. A Roma, durante e dopo il processo, fu ospitato – con cameriere privato – nei palazzi pontifici e poi cardinalizi; nelle città della Riforma sarebbe finito sul rogo o, almeno, in qualche prigione. Lutero aveva avuto parole irate contro Copernico, quel «prete amico dei preti», che diceva cose ritenute in contrasto con la Scrittura. E Melantone, il maggior teologo del frate ribelle, aveva minacciato, considerando i cattolici troppo tolleranti: «Da noi, simili fantasie sacrileghe non rimarrebbero impunite». Quando la notizia della condanna del Galilei giunse a Tubinga, alla celebre università roccaforte e faro del pensiero protestante, i professori fecero una gran festa e (per una volta) si videro dei luterani congratularsi con dei cattolici... E questo ricordo anche per dare un altro tocco a quello che si diceva a proposito di certi «pulpiti», stando ai quali è il cattolicesimo – e quello solo – la «Grande Bestia» dell’Apocalisse che opprime la libertà dei Figli di Dio.
I guai del Pisano con Roma furono relativi: ritirarsi nella sua villa e recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali, potendo continuare il lavoro; in effetti, il suo capolavoro scientifico lo scrisse dopo la condanna. Ma quei guai gli vennero non per quello che diceva, bensì per come lo diceva, con una sorta di nuovo fideismo dogmatico, con toni da missionario del Verbo di una scienza peraltro ancora tutta ipotetica.
Pretendeva, cioè, di mescolare conoscenze naturali e teologia e di fare un dogma scientifico di ciò che allora non era che un’ipotesi, senza prove sperimentali. La sola prova «scientifica» che addusse al processo, in quattro giorni di discussione (le maree determinate dal moto della Terra), era sbagliata, mentre avevano ragione i suoi giudici che attribuivano all’attrazione lunare l’alzarsi e l’abbassarsi del mare. Non è casuale la diffidenza verso Galileo di un Karl Popper che proprio lì vede la nascita della nuova – e pericolosissima, come poi ben si vide – «religione della Scienza»: lo «Scientismo».
Del resto, Roberto Bellarmino, il dottissimo e santo cardinale che – alla pari dei papi stessi e di molti vescovi – protesse Galileo, cercando di difenderlo soprattutto da se stesso, dalla sua ostinazione (e anche dai suoi tentativi di imbrogliare le carte e che indispettirono i giudici) aveva già fatto sua una formula illuminante. Quella con cui un altro cardinale, un altro grandissimo studioso, Cesare Baronio, aveva sintetizzato la prospettiva cattolica davanti alla scienza moderna nascente: «La Bibbia non ci vuole insegnare come va il cielo, ma come si va in Cielo».
L’esistenza stessa delle monumentali Summae medievali (e non solo teologiche: erano spesso vere enciclopedie di tutto lo scibile) dimostra come la Chiesa non sia mai stata tentata di scorgere un’opposizione fra ricerca (in ogni campo) e devozione. Ha sempre insegnato che sia la fede che la ragione sono entrambe doni di Dio: dunque, non sono e mai potranno essere in contrasto fra loro.
La certezza cristiana è che il Dio Creatore è anche il Dio Rivelatore: dunque, le scienze naturali, in quanto investigazione delle meraviglie della Sapienza divina, sono in qualche modo atti di culto, motivi di meditazione religiosa. E anche per questo che le opere matematiche e geometriche degli antichi (primo fra tutti Euclide) giunsero a noi, devotamente ricopiate dai monaci e poi — appena fu possibile — subito stampate e diffuse da altri religiosi. E ci sarà pure una ragione se al tempo di Galileo le università, questa tipica creazione del Medio Evo cattolico, erano 108 in Europa, se ne contava qualcuna nelle Americhe spagnole e non ce n’era nessuna nelle terre non cristiane.

Del resto, basta pensare che la storia delle scienze, anche fisiche, è piena di nomi di credenti, spesso preti e frati. Proprio nel secolo del positivismo ateo, del razionalismo agnostico, uno dei maggiori scienziati, fra i più grandi della storia (e fra i suoi più preziosi benefattori) è quell’uomo di profonda e conclamata fede cattolica che è Louis Pasteur. Nello stesso secolo, per fare un solo altro nome, il grande Johann Gregor Mendel, il biologo che formulò le leggi sulla ereditarietà, era un frate.
Ma sì, bisogna stare attenti a non cascare nel trappolone che vorrebbe convincerci di un divorzio irreparabile e unanime tra scienza e fede, non appena si entra nell’epoca moderna. Prendi, ad esempio, uno dei simboli e dei fattori più potenti della «modernità»: l’energia elettrica. Alessandro Volta era un uomo da messa e da rosario quotidiani; André-Marie Ampère scrisse addirittura delle Prove storiche della divinità del Cristianesimo; Michael Faraday alternava straordinarie invenzioni a predicazioni del vangelo sulle strade inglesi; Luigi Galvani era devoto terziario francescano; Galileo Ferraris un austero, esemplare cattolico praticante; Léon Foucault, il primo che calcolò la velocità della luce, un convertito... Come vedi, mi sono limitato al campo «elettrico», ma potrei tediarti dandoti liste analoghe per ogni altra disciplina scientifica.
Questo precisato, ti confesserò però che mi sconcerta che, almeno alcuni (e, talvolta, non tra i minori), si siano messi a pensare che la scienza ponga in crisi, se non addirittura sostituisca, la teologia, proprio quando quella scienza diventa moderna. Dunque, quando si munisce di strumenti tecnici e di metodi di ricerca che mostrano l’incredibile complessità dell’universo in cui siamo immersi.
Ad esempio, il cielo stellato in una notte serena d’estate è stato sempre per gli uomini un motivo potente per riconoscere un Mistero; per avere, almeno, l’intuizione di Dio. Dai pastori preistorici sino a Pascal («Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi sgomenta») o sino a Kant («Due cose riempiono la mia anima di un’ammirazione senza eguali: il cielo stellato sopra la mia testa e la legge morale dentro il mio cuore»), passando per il salmo biblico («I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani»).
Munito del suo telescopio e poi, via via, di strumenti sempre più sofisticati, l’astronomo moderno ha visto dilatarsi quel mistero, già inquietante e affascinante a «occhio nudo», in modo stupefacente: in «quantità» e, per così dire, in «qualità». Nel senso che è stato in grado di scoprire sempre più quali leggi perfette, quali costanti straordinarie regolino un universo la cui vastità è tale che non sappiamo neppure dove siano i suoi confini.
Dall’infinitamente grande, all’infinitamente piccolo: dal telescopio al microscopio, sotto il quale lo scienziato ha scoperto un mondo (anch’esso inimmaginato e inimmaginabile) dove brulica la vita, retta pure qui — come ovunque — da leggi sapientissime e immutabili, che gridano l’esistenza di un ordine che esige un Ordinatore; di un piano (enigmatico quanto evidente) che postula un Pianificatore.
Si potrebbe, ovviamente, continuare a piacimento, a conferma di ciò che mi chiedevo: che cosa può spingere non certo tutti, ma molti (nell’Ottocento, fra gli scienziati, pare fosse quasi la metà del totale) a negare un Creatore, proprio quando il creato letteralmente esplode, rivelando - e non ha ancora finito di farlo, né finirà mai - la sua complessità, la sua sapienza, così spesso la sua bellezza? quando gli strumenti mostrano che tutto non solo è ordinato in sé, ma che è ordinato al Tutto, in un rapporto di interdipendenza che unisce, tanto per dire, la formica alle fasi lunari?
Cos’è questo tirar fuori il «caso», «l’eternità della Materia», la «natura autoregolantesi» con leggi che - non si sa come - creerebbe da sé e poi - non si sa perché - rispetterebbe rigorosamente senza più mutarle? cosa sono quelle ipotesi negatrici di un Dio che stia dietro la natura, proprio quando si scopre fino a quali estremi si spinga il Mistero?
In realtà, credo che abbiano ragione coloro che affermano che non è la scienza che mette in crisi la fede, a partire dal Settecento e poi su su sino ad anni recenti, quando le cose sembrano finalmente cambiare, con, almeno, una maggiore prudenza o con un aumento delle domande. Non è la scienza, probabilmente: è la filosofia dello scienziato.
Come ha scritto un sorprendente convertito che oggi pare non sia di bon ton citare, lo scrittore Dino Segre, alias Pitigrilli: «La scienza è solo uno specchio che restituisce - fede o ateismo - ciò che riceve». E restituisce ciò che si vuole farle dire perché, come testimoniò quel Pitigrilli dopo la conversione, «radicato com’ero alle mie idee, alla mia convinzione di una incompatibilità tra scienza e fede, andavo alla ricerca continua di conferme che mi rassicurassero. L’uomo - anche quello con il camice dello scienziato che, per gli ingenui, è un sacerdote del sapere, un maestro di serena oggettività - l’uomo non esamina la realtà per costruirvi sopra un’opinione, ma la manipola, la sagoma, la riquadra per farla entrare nella sua idea preconcetta».
Ad esempio, il successo travolgente - e inspiegabile su un piano oggettivo - di una «fede» quasi improponibile come l’evoluzionismo radicale, ateo (dovremo riparlarne, è ovvio) si spiega forse così: era la giusta «offerta», in quel momento storico, a una «domanda» di teorie, dalle apparenze più o meno credibili, che espellessero Dio dal mondo. Che permettessero di scalzare ogni prospettiva religiosa trasferendo gli attributi divini sulla Materia.

Naturalmente, per certuni stiamo facendo domande e commenti intollerabilmente ingenui e sbrigativi, tra il grezzo e il banale. Sappiamo bene come certa cultura moderna sia divisa su tutto, tranne che nell’avversione e nel disprezzo per il buon senso, il realismo, le domande elementari e le risposte chiare.
È pure una questione di sopravvivenza e di ruolo: se si smettesse di complicare le cose, che ci starebbero a fare «professori» ed «esperti»? Battute a parte, bisogna però starci attenti: le cose sono sempre complesse, l’ascia non è mai uno strumento raccomandabile per capire. Più vado avanti, più mi rendo conto che uomo di vera «cultura» è colui che, proprio perché sa, si fa prudente, avendo il senso della complessità del reale. La semplicità non va confusa con il semplicismo, che è ciò che contrassegna il dilettante, l’autodidatta.
Qui, comunque, è forse vero: c’è qualcosa di più profondo, una sorta di misterioso «accecamento», per dirla con Pascal. Ai nostri interlocutori, comunque, potremmo regalare (anche per tentare di difenderci dal loro scuotere la testa davanti alla nostra naïveté) la citazione di uno che tutto fu tranne che un «innocente» e un apologeta. Niente meno che André Gide: «Non credere in Dio è molto più difficile di quanto si creda. Comunque, per continuare a farlo, bisogna vietarsi assolutamente di guardare la natura e di riflettere su quanto si vede».
Il fatto è che occorre «guardarla», questa «natura», senza schemi preordinati in testa, con la disponibilità ad accettare ogni sorpresa, pure quelle che eventualmente escano dalle nostre gabbie ideologiche.
Ricordi il discorso sui bambini, sui «piccoli» come privilegiati? Ciò che caratterizza l’infanzia – quale che sia l’età che si abbia – è la capacità di sorprendersi. Ma è proprio ciò che ci si vieta quanto più si sale in prestigio culturale e sociale. Ci vuole umiltà per «stupirsi». Il cosiddetto «uomo di mondo» ne avrebbe pudore. Non dimenticare che, nei collegi dove si allevano le élites del mondo anglosassone (punto di riferimento ideale per una certa cultura mondiale) l’educazione si basa su tre concetti fondamentali. Innanzitutto: «mai scusarsi»; poi, «mai spiegarsi»; infine, guarda caso, «mai stupirsi».
Ma occorre «guardarla», la natura attorno a noi, anche nella consapevolezza che, se fosse necessario aprirsi al Mistero, questo non sarebbe una sconfitta della ragione; ma, al contrario, l’impiego di tutte le sue possibilità.
Comunque, già che ci siamo, aggiungiamo un’altra citazione a quella dell’insospettabile Gide, il cui stile di vita faceva indignare il cattolicissimo Paul Claudel. Questa volta attingiamo da un Dottore della Chiesa, san Bernardo di Chiaravalle: «Se dubiti di Dio, lascia i libri e va’ nei boschi». E nota che Bernardo scriveva in quel Medio Evo in cui di libri ce n’erano pochi, e per pochissimi; di dubbiosi, di tentati dall’incredulità, ce n’erano forse ancor meno; e di «boschi» – intendendo con essi la natura ancora quasi intatta – talmente tanti che il problema era il contrario di oggi: non tanto proteggerla, quella natura, ma proteggersi da essa, arginandola, domandola, umanizzandola.

Resta il fatto che la negazione o il dubbio sull’esistenza di un Dio creatore contrassegnano all’inizio qualche intellettuale che si chiude tra i libri, in biblioteca, sbarrando porte e finestre al mondo esterno. I don Ferrante del Manzoni si sono poi moltiplicati, sino a dare vita a un’intera classe: quella degli intellettuali.
Vi abbiamo, mi pare, già accennato: dunque, de hoc satis.
È, comunque, la loro grandezza e la loro miseria: nutrirsi di parole che si staccano sempre più dalla concretezza della vita.

Ma la perdita della consapevolezza di essere immersi in un Enigma sembra coinvolgere anche le masse, non «intellettuali» per definizione, quando la vita, da naturale, si fa artificiale. Gli abitanti delle città – a differenza di quelli delle campagne, per i quali la fede in un Dio era istintiva e tradizionalmente salda – non sono più in contatto con la misteriosa e straordinaria «macchina» della natura,ma solo con macchine create da altri uomini.
La «natura» per noi, animali urbani, è ridotta al mitico «verde», ossessione di sociologi e urbanisti, al «parco», cimitero della natura al pari di quel cimitero dell’arte che è il museo. Il «verde pubblico» è natura imbalsamata, rinchiusa tra cancelli e mura come, appunto, un camposanto: esempio della necrofilia spesso inconscia (e travestita da vitalismo) che caratterizza molti aspetti della modernità.
Per stare al famoso cielo stellato, che ispirava canti «metafisici» ancora ai tempi di Leopardi, noi stessi, forse, non lo abbiamo mai visto, annullato com’è dalle luci cittadine. Quel che vediamo sono, semmai, le imprese spaziali alla televisione: ciò che ne ricaviamo è la meraviglia non per il Creato ma per l’abilità di uomini come noi che, con scienza e tecnologia, lo dominano e al contempo lo «desacralizzano».

I bambini d’oggi credono sul serio (lo leggevo l’altro giorno) che il guscio delle uova o la buccia delle arance e delle banane siano imballaggi industriali, progettati da un designer e fatti con qualche tipo di plastica. Non dimentichiamo che proprio la gabbia con certi animali strani, mai visti prima e chiamati «galline» e «galli», è tra le più ammirate e tra quelle che più stupiscono i piccoli visitatori del grande giardino zoologico di New York ...
E indubbio che manca quel contatto diretto – che per i nostri antenati era una simbiosi, una immersione totale – con un ciclo naturale che non può non suscitare ammirazione, stupore e conseguenti domande sulla sua origine. L’ateismo marxista (se «ateismo» era) poteva trovare ascolto nel chiuso di capannoni industriali, non in quelle campagne che sono sempre state l’incubo dei rivoluzionari. È anche per punirle della loro fede, della loro fedeltà alla Chiesa, della loro «impermeabilità» alla propaganda irreligiosa, che Lenin prima e Stalin poi giunsero a programma-re carestie artificiali per sterminare i contadini.
Quella feroce e innaturale utopia avrebbe comunque avuto la fine che sappiamo: ma se i suoi settant’anni di vita sono stati una tribolazione così drammatica, lo si deve anche alla sua avversione per le campagne e i loro abitanti, naturaliter christiani (o, almeno, religiosi). Infatti, invece di assecondare la vocazione agricola di quelle immense pianure, i Soviet – calpestando storia, economia, interessi concreti – imposero con la violenza i loro disastrosi «piani quinquennali», tutti basati sull’industrializzazione pesante. Il contadino doveva farsi operaio siderurgico o metallurgico anche (forse, soprattutto) per favorire altri «piani»: quelli di educazione all’ateismo. Nota che la lotta alle campagne e a chi vi abita è fra le poche cose che uniscano Stalin al suo implacabile nemico, quel figlio di agiati agricoltori ebrei che fu Lev Davidovič Bronstein, nome di battaglia «Trotzkij». Per questo compagno principale di Lenin, prima ancora che contro i borghesi la lotta operaia doveva rivolgersi contro i contadini: sterminare gli «irrecuperabili» e trasformare quelli che restano – e che vanno sopportati, a malincuore: bisogna pur mangiare... – in operai, seppure agricoli.
Del resto, il primo genocidio della storia moderna, quello di Vandea (120 mila massacrati, 20 mila case di-strutte, le fonti avvelenate, tutto il bestiame ucciso e tutte le coltivazioni devastate per far morire di freddo, di fame, di sete i superstiti rifugiatisi nei boschi), quel genocidio di cui è ancora vietato parlare, avendo avuto come vittime degli «irrilevanti» cattolici, fu scatenato dai giacobini del-le città contro i contadini. Questi erano rei di non volere rinunciare alla loro pratica religiosa, malgrado a Parigi l’assemblea rivoluzionaria avesse deciso che il cristianesimo non era che superstizione.
Guardiamoci, però, dal prendere troppo sul serio quanto ha ripetuto per decenni la propaganda prima socialista e poi comunista. La quale ha sempre sorvolato imbarazzata sul fatto che la più numerosa, consapevole, moderna classe operaia – quella nordamericana – non ha mai voluto saperne di utopie più o meno marxiane ed è sempre stata conservatrice e patriottica in politica e religiosa sul piano spirituale. Così è avvenuto nella Germania cattolica, tra le masse operaie bavaresi e renane, e per un altro dei Paesi di più precoce e maggiore industrializzazione, il Belgio. Per stare all’Italia, la propaganda «rossa» ci ha convinti che qualche metalmeccanico torinese potesse rappresentare tutti gli operai: mentre quelli dei più antichi distretti industriali – il Biellese, la Brianza, il Canavese, il Bresciano, il Bergamasco, il Vicentino – restarono sino a tempi recentissimi legati al mondo cattolico, alle parrocchie, alla pari dei loro antenati. Ciò che, alla fine, li ha sradicati è stato il consumismo, non il comunismo; i colorati spot televisivi, non i grigi opuscoli della propaganda «classista». Non cadiamo nella miopia che tanti sensi di colpa e di inferiorità ha dato a tanti clericali, come se la «cultura» socialcomunista, costituzionalmente atea (malgrado le edificanti smentite), rappresentasse tout court quella dei «lavoratori».
È vero, peraltro, che ciò cui a lungo andare porta la vita artificiale che sempre più ci contrassegna (e non solo nelle fabbriche) è, nella maggior parte dei casi, la sparizione di Dio dall’orizzonte quotidiano. Perché dovrei ipotizzare l’esistenza di Qualcuno che mi sovrasta, quando a tutti i miei bisogni e desideri provvedono – a pagamento – esperti, specialisti, professionisti, venditori, funzionari, impiegati, assistenti sociali e così via? perché quando l’istintivo, naturale timore per il futuro è esorcizzato dalla rete di assicurazioni sociali, dalle garanzie sindacali, dai fondi di previdenza, dai risparmi in banca? che rapporto può mai esserci fra una prospettiva religiosa della vita e quella imposta a ogni ora del giorno e della notte dai palinsesti televisivi? e non sono anche politici, intellettuali, sindacalisti «cattolici» a predicare da ogni media che, se non siamo ancora (!) felici, la colpa è solo delle mancate riforme, della scuola che non funziona, della non perfetta organizzazione dei servizi pubblici?
Facci caso: nei film americani (e, ormai, sempre più siamo tutti americani) chiunque debba fronteggiare uno degli infiniti aspetti negativi della vita esce nella frase standard: «I have a problem». Ho un problema: naturalmente, per definizione, a ogni problema c’è una soluzione. Basta trovarla, e pagarla. E, se non c’è, si invoca «un intervento» dello Stato, visto come onnipresente e onnipotente Provvidenza. Il distacco «pratico», «quotidiano», dal pensiero di Dio nasce anche da qui: dall’illusione che - ormai - non ci sia «problema» senza «soluzione». E che ci sia «qualcuno» che provveda a tutto e a tutti.
Può andare avanti, naturalmente, fino al momento di quello choc di cui abbiamo già più volte parlato: la scoperta che ci sono «problemi» limite dove neppure l’iperorganizzazione della società tecnologica e mercantile, dove neppure le assicurazioni più avanzate e più costose né la rete assistenziale del Welfare State sono in grado di offrirci una qualche soluzione. Ed è soprattutto allora, insisto, che si riapre spazio per la proposta religiosa: torniamo, così, al famoso («famigerato», per alcuni) Dio-tappabuchi.

In effetti, anche in queste nostre società, Dio è tirato di nuovo in ballo nei «momenti forti»: e non soltanto nei funerali, dove quelli «laici» - lo dicevamo - continuano a essere una piccola minoranza. A percentuali minime di frequenza nelle chiese, a esistenze quotidiane dove Dio non sembra entrare neppure come ipotesi, fanno riscontro percentuali assai alte (e ormai stabilizzate) non solo di esequie, ma anche di matrimoni e di battesimi per i figli. La morte; l’amore fra l’uomo e la donna, questo «trucco» mirabile inventato da un Creatore, che è Amore Egli stesso, per indurre la sua creatura a perpetuarsi nella fecondità; e, poi, la nascita di una nuova vita, il frutto, appunto, di quella «trappola» divina ...
Ma sì, proprio così: la vita, la morte, l’amore. Anche il cittadino della megalopoli presunta «secolarizzata» sembra avvertire ancora, qui, lo spessore dell’enigma. E non mi sembra affatto che ciò che lo spinge sia l’adeguamento al conformismo, il rispetto delle tradizioni e cose del genere. Semmai, è vero il contrario: conformista, oggi, già l’abbiamo ricordato, non è chi va in chiesa, ma chi non ci va; e, quanto a «tradizioni», c’è da chiedersi quali possano essere, fra gli sradicati per definizione che popolano le metropoli. La verità è che, seppur confusamente, anche per la gente di oggi Dio e il ricorso a Lui fanno capolino e riprendono i loro diritti quando vita, morte, amore irrompono nella banalità dell’esistenza garantita e rassicurante. Così, nei momenti «fondamentali», in senso vero, l’uomo dei computer si ritrova fratello degli uomini delle greggi e degli aratri.

Si potrebbe obiettare che il desiderio di «religioso» che riappare in quei momenti rientra nella mentalità superstiziosa, nella tendenza idolatrica dell’uomo che pur appare - e che in buona fede si crede - secolarizzato.
Potrebbe agire anche questo, certo. Ma ciò non fa che confermare quanto cerchiamo di dire. Così come l’ipocrisia è «un omaggio che il vizio rende alla virtù», la superstizione è un omaggio reso alla religiosità autentica. È una deviazione, è un errore rispetto alla fede. Ma è pur sempre il riconoscimento di una Realtà «altra», di «Qualcosa» o «Qualcuno» che vanno propiziati e sotto la cui protezione conviene mettersi. Forse che il boom di magie, astrologie, occultismi non è segno preciso, per quanto deforme, di una credenza in un enigma, in una realtà «altra» rispetto a quella cui aveva voluto ridurci il razionalismo?

Proprio arrivati a questo punto, sarà bene ricordare quella sorta di «prova» addotta –e credo non a torto –dalla apologetica di sempre. La prova, cioè, detta del «consenso unanime»: per quanto si vada indietro, non si trova alcun popolo, alcuna etnia, alcuna cultura senza «religione». Senza, cioè, come la definiscono, «un complesso di credenze, di precetti, di riti che mirano a mettere l’uomo in rapporto con una Divinità, con un Soprannaturale, con un Sacro». L’uomo e la credenza in un qualche Dio, in una qualche dimensione «metafisica» (che vada, cioè, «al di là» del «fisico», di ciò che si vede, si tocca, si sente) appaiono insieme.
C’è da dire che questa è fra le «prove» più antiche (la usarono anche i filosofi greci o gli scrittori latini), e che il progresso degli studi non solo non ha dissolto, bensì ha sempre più confermato. Antropologia e archeologia sono ormai unanimi nel riconoscere che la «religione» (nel senso della definizione che citavi) non è una sovrastruttura che intervenga a un certo punto della vicenda umana, ma nasce con questa. La ricerca moderna ha dato base irrefutabile alla constatazione di Cicerone: ciò che contrassegna ogni uomo, al di là di ogni differenza, è di essere animal religiosum, «un animale religioso».
L’archeologia, soprattutto quella della preistoria, è spesso studio dei soli manufatti conservatisi: le tombe. Ebbene, già la loro presenza stessa – unita a ciò che quasi sempre contengono, alle decorazioni che le adornano – mostra come nessuna cultura, neanche la più primitiva, sia stata priva di una credenza in un «aldilà», in una continuazione della vita oltre la morte, in una realtà invisibile oltre il visibile. In un «Divino», insomma.
Dicevano che, a parte il caso enigmatico di Israele – dove il monoteismo sembra apparire di colpo, come fosse davvero frutto di quella «Rivelazione» in cui crediamo – ci sarebbe stata un’evoluzione, dai molti dèi a uno solo, il graduale organizzarsi e affinarsi di una «religione» come sistema di culti, pratiche, sacerdoti. E, invece, stando alla più recente scuola antropologica, pure qui lo schema «evoluzionistico» sarebbe fallace.
All’inizio della storia umana ci sarebbe infatti il monoteismo, la credenza in un Dio unico e personale; il politeismo e il panteismo non sarebbero dunque un prius ma un post, sarebbero degradazioni dell’istinto religioso primordiale rivolto a una Divinità unica, distinta dal mondo. In effetti, sembra una conferma di ciò il fatto che nessun politeismo è senza uno «Zeus», un Dio che in qualche modo sta al vertice della piramide dei molti dèi.
Quanto al Dio d’Israele, il caso appare davvero straordinario non tanto per la priorità o l’unicità, quanto per la conservazione pura e rigida del monoteismo, inquinato prima o poi ovunque altrove.
Resta, comunque, un dato di fatto: la credenza immediata, contemporanea all’apparire stesso dell’uomo, in un «divino», in un «sacro», in una «realtà altra>. Se non, ad-dirittura, in un Dio creatore, personale, provvidente.

Noi, credenti d’oggi, siamo insomma in buona compagnia: siamo, nientemeno, con tutta l’umanità che ci ha preceduti, sin dagli inizi.
Proprio per questo, nel processo alla religione, è sull’accusa, non sulla difesa che grava quello che i giuristi chiamano «l’onere della prova». Per ogni diritto degno di questo nome, presunta è sempre «l’innocenza», non «la colpevolezza». Nel nostro caso non è, dunque, il credente che deve «giustificarsi». E il non credente che deve trovare motivi per la sua negazione di una realtà che contrassegna tutti gli uomini di tutti i tempi.
Per dirla con Alexis de Tocqueville, questo storico acutissimo: «L’irreligione è un incidente; solo la religione è lo stato permanente dell’umanità». Tenere presente questo può contribuire a dissolvere certi complessi che oggi affliggono qualcuno anche nella Chiesa: mettere in conto un Dio è – come dire? – la «normalità». E agli «altri» – sostenitori di una tesi del tutto «anomala» com’è, storicamente, quella ateistica – che tocca cercare di smentire la verità della dimensione «religiosa».
Si è cercato di praticare quella smentita proponendo, per la nascita della religione, delle motivazioni «naturali». Nasce, la credenza in un «Dio», dalla paura delle folgori? dal desiderio di propiziarsi la natura per essere salvaguardati dalle carestie o guariti dalle malattie? Nasce dalla alienazione di poveracci, speranzosi in una vita più accettabile di quella cui sono costretti? dalla ignoranza delle leggi chimico-fisico-biologiche che governano il mondo?
Sono alcune delle spiegazioni «ideologiche» proposte per spiegare questo fatto innegabile del carattere origina-rio, «strutturale» (e non «sovrastrutturale», per parlare come vecchi marxisti ortodossi) del fenomeno religioso. Devono allora spiegarci perché quel «fenomeno» sia sopravvissuto all’apparizione del parafulmine, degli antibiotici, degli alimenti in scatola, dei surgelati, del comfort nelle case, delle discipline scientifiche...
Siamo sopravvissuti, noi credenti, anche a quella psicoanalisi che è stata golosamente fatta propria (con il consueto ritardo e con la consueta eccitazione dogmatica, sacrale) anche da tanti cristiani e, secondo la quale, la religione, ogni religione, non sarebbe che «nevrosi», perché «proiezione illusoria della psiche; rivelazione non di un Dio ma delle profondità dell’animo umano». Resta però da spiegare perché «siamo fatti così»; e se, per caso, proprio l’esistenza di quelle «profondità» dentro di noi non sia il marchio di un Dio reale, non illusorio. Viene in mente il vecchio e sempre giovane sant’Agostino, con le cui Confessioni nasce il solo possibile «uomo nuovo», grazie alla forza misteriosa dell’unica vera «novità» della storia, il farsi carne di Dio tra noi: «Fecisti nos ad Te, Domine ...», «ci hai fatti per Te, o Signore ...», con quel séguito altrettanto famoso: «e il nostro cuore è inquieto, sinché in Te non trovi riposo».
Nati con la storia, anzi con l’uomo stesso, siamo ancora qui, noi che crediamo che ci sia un invisibile dietro il visibile.
Ha scritto Etienne Gilson: «L’incredibile capacità di permanenza dell’idea di Dio nella coscienza umana: questo è il cuore del problema che non può essere spiegato con le categorie consuete». Quasi che quella «idea» sia in noi innata, faccia parte del corredo genetico «programmato» da Chi, anche così, volle lasciarci un’altra delle sue firme discrete.
Un caso serio, insomma, questa certezza del Divino. Che è poi la sola cosa che unisca ogni razza e cultura. La preghiera a un «Ente» che ci sovrasta e il sacrificio per onorarLo e impetrare grazia da Lui hanno infinite forme, ma esistenza costante nel tempo e universale nello spazio. Ci si è dovuti ricredere ogni volta che si è creduto di trovare qualche remota tribù «senza religione»: approfondendo meglio, si è scoperto che i culti si praticavano lì pure, ma tenuti segreti a estranei e stranieri.

Bisogna riconoscere che non poteva andare diversamente. Ci sarebbe da strabiliare del contrario: se, cioè, gli uomini - e da subito - non avessero riconosciuto una «Mente» e una «Mano» dietro il mondo. Non occorreva di certo - e non occorre - una particolare capacità di ragionamento per constatare, traendone la logica conseguenza, che «dove c’è ordine c’è intelligenza», che «dove c’è un manufatto deve esserci stato un progettista e un artefice». Il mondo non è un cumulo casuale e caotico di materiali informi, è un edificio dove tutte le pietre hanno il posto esatto, straordinariamente complesso, mirabilmente funzionante e adattato al suo scopo: che è poi, in fondo, uno solo, quello della preservazione e della propagazione della vita. Tutto, qui, anche la morte, è programmato perché l’esistenza non si estingua.
Fin qui è d’accordo persino il prototipo, per tanti credenti, del moderno «miscredente»; uno che non solo non credeva in Cristo, ma che voleva addirittura schiacciare quella «infamia» che era per lui la Chiesa cattolica. Frangois-Marie Arouet, in arte Voltaire, insomma, che ha scritto i quattro versi famosi (peraltro bruttini, ma significativi, venendo da lui): «L’univers m emharasse / Et je ne puis songer / Que cette horloge existe / Et n’ait point d’horloger». E, cioè, «l’universo mi turba / e non posso pensare / che questo orologio esista / e non esista l’orologiaio».
Da parte nostra, però, aggiungiamo subito qualcosa che fa una differenza infinita: Dio non è la dilatazione a scala dell’universo di che so?, un Bernini o un Le Corbusier (e questo ricordo a chi lo considera «il Grande Architetto»). E neppure è un orologiaio svizzero infinitamente grande e abile. Dio non è solo l’autore del progetto e il direttore dei lavori. E anche il fabbricante dei materiali.
Scorrevo di recente l’opera di un fisico americano, uno dei tanti che – meglio tardi che mai – ha scoperto che più si allargano le conoscenze sue e dei suoi colleghi, più ci si rende conto che non si fa che ampliare di un poco una radura al centro di una foresta dai confini infiniti.
Per respingere, come vuole il semplice buon senso, l’ipotesi «casuale» della formazione del mondo, quello scienziato faceva un esempio: «Se le sonde e le navicelle inviate verso la luna ci avessero rivelato che sulla sua faccia nascosta era in funzione una fabbrica automatica per produrre un qualsivoglia prodotto, la conclusione non poteva essere che una: viste le condizioni ambientali della luna, ostili a ogni vita, qualche spedizione di "alieni", di "marziani", di "extraterrestri" aveva montato quell’impianto, lo aveva messo in funzione e se ne era andata. Nessuno (a meno di essere pazzo) avrebbe ipotizzato il sorgere "casuale" di quella fabbrica. Ed è proprio quello che fa, salvaguardando per giunta la sua reputazione, certa scienza davanti alla "fabbrica" straordinaria del mondo».
Sir John Eccles, il premio Nobel per i suoi studi sul più potente e inspiegabile dei computer – il cervello umano – amava ripetere un esempio: «Un magazzino lungo un chilometro pieno sino al soffitto di pezzi aeronautici; un ciclone che per centomila anni o per cento milioni di anni faccia roteare e scontrare fra loro quei pezzi; quando il vento si placa, dove etera il deposito c’è una serie di quadrimotori, già con le eliche che girano. Ecco: le probabilità che io, scienziato, do al "caso" sono queste...». Un gruppo di biologi ha quantificato al computer la possibilità di ottenere per «evoluzione non guidata dall’esterno» anche solo gli oltre duemila enzimi necessari al funzionamento del nostro corpo: una probabilità pari a quella di ottenere sempre dodici, per 50 mila volte di fila (senza mancare un sol colpo), gettando sul tavolo due dadi.
Ma, al di sotto dell’enigma irrisolvibile (se non ipotizzando il Grande Progettista) della organizzazione delle cose, sta il problema delle cose stesse. Insomma, la famosa – ma altrettanto spesso rimossa – domanda ai colleghi atei o agnostici di uno che mi pare un poco se ne intendesse, tal Albert Einstein (che, da fisico, si rifaceva qui a un filosofo-scienziato, Leibniz): «Perché c’è qualcosa e non il nulla?».
Prima dell’ordine dell’universo sta il problema dell’universo stesso. Perché c’è? da dove viene? Quest’universo è fatto di «materia»: dove ha la sua origine? Il pensiero dell’antichità classica, anche quello «teistico», rimuove il problema: per Platone, ad esempio (ma pure per Aristotele e per altri maestri, non solo di filosofia, ma pure di «spiritualità») la materia è increata, c’è da sempre; e il «Dio» – o gli «Dèi» – si limitano a darle forma, come lo scultore fa con la cera.
Non è una risposta; come non lo è quella del materialismo moderno che anche Marx ed Engels hanno fatto propria, aggiungendovi – nel tentativo di renderla più suggestiva e, dunque, credibile – l’elegante aggettivo hegeliano di «dialettico». La Materia, per Marx (cito testualmente), «esiste per se stessa», «si auto-crea e si auto-evolve», «non dipende da nulla»: è essa che ha inventato e organizzato la vita e che inventa senza posa gli strumenti necessari perché gli organismi non solo sopravvivano, ma sempre più si perfezionino.

Insomma, la Materia – infinita, eterna, onnisciente, onnipotente – è Dio. Non è una grati soluzione spostare semplicemente su di essa gli attributi che i credenti riconoscono al Creatore.
È il solito rifiuto del Mistero per accettare, in sua vece, l’Assurdo. Proclamando, per giunta, che in questo modo si utilizza in pieno la ragione: mica come quei poveri ingenui, quei prelogici dei credenti in un Dio... Basterebbe un minimo di buon senso per capire, tra l’altro, che «materia eterna») è una contraddizione in termini. Tutto ciò che esiste nel mondo, che è accessibile ai nostri sensi, esiste nella dimensione spaziale ma anche in quella temporale: dunque, ha (deve avere: è una legge fisica) un inizio e una fine; viene «da qualche parte» e «da qualche parte» va.
Questa, comunque, è un’ennesima conferma di quanto si diceva: c’è poco o nulla da imparare da questo ateismo comunista, «postulatorio», aprioristico, basato non su constatazioni oggettive, ma su presupposti da ideologia cervellotica. Il paradosso è che, per decenni, la vulgata marxista (alla pari, del resto, di quella di certo scientismo liberale: sedicenti «proletari» e borghesi erano, almeno in questo, spesso uniti) ha praticato con successo il terrorismo culturale, per cui era vietato fare domande. E se qualcuno voleva farne anche a proposito di questa assurda Materia eterna e onnipotente, era ridicolizzato come chi ponesse interrogativi insensati, alienanti, se non provocatori e magari «fascisti» (il che andava sempre bene per squalificare l’interlocutore e tappargli la bocca).
D’altro canto non è finita con la fine del marxismo: la fede nella Materia-Dio è trasmigrata nella Natura-Dio dell’ecologismo fondamentalista. E anche questa superstizione pseudoscientifica che spiega le trasmigrazioni di massa degli inguaribili appassionati di miti e fiabe dal rosso al verde. Secondo il panteismo di quell’ambientalismo radicale, la Natura (da scrivere, ovviamente, con la maiuscola, avendo gli attributi di Dio), è una realtà auto-sufficiente, che ha in se stessa la sua spiegazione e le sue leggi; escludendo (per principio, anche qui) un Creatore che le sia esterno.
E questo spiega pure il ritorno «verde» di oggi all’idolatria pagana unita all’ateismo lucreziano, all’adorazione delle realtà e delle forze naturali, ai culti delle selve e delle acque, alla sacralizzazione del Tutto. Tutto, ad eccezione dell’uomo, visto anzi come il solo «elemento nocivo». Il solo corpo estraneo, l’unico che si possa eliminare senza rimorso: meno gente, meno attentati sacrileghi a «Gaia», come chiamano la Terra, non a caso riesumando il nome dell’antichissima dea pagana, alla quale si offrivano anche sacrifici umani. Infatti, Filippo, duca di Edimburgo, consorte della regina d’Inghilterra, fondatore della più potente e ricca organizzazione ambientalista del mondo, ha coerentemente dichiarato e in modo testuale (1’8 agosto 1988, alla agenzia nazionale tedesca, la DPA: ho tenuto il ritaglio, sennò neppure tu ci credi...): «Se rinascessi, vorrei essere un virus letale per contribuire a risolvere il problema dell’eccesso di popolazione. Il maggior dramma del mondo è che ci sono più culle che casse da morto».
Mentre, in ogni cultura, una prole numerosa era una benedizione, un motivo di vanto, oggi la coppia che superi i due figli (l’ideale proposto dagli spot televisivi per i detersivi e i prodotti alimentari) è guardata con ostilità, come si meritano gli irresponsabili inquinatori.
Il rifiuto di Colui che la Scrittura chiama «il Dio vivente» porta, lo si voglia o no, al rifiuto della vita.

Nel problema posto da Einstein (anche se, qui, basta un bambino: magari quello che, nella favola, grida che «il re è nudo») sul «perché c’è qualcosa e non il nulla», sbattono tutte le altre teorie. A cominciare dalla più nota, diffusa e con maggiori pretese scientifiche e alla quale dovremo pur deciderci ad accennare: l’evoluzionismo.
In effetti anche se tutto davvero si sviluppasse per via evolutiva, a forza di «caso e di necessità», da un «brodo primordiale», sarebbe ovvia la domanda: «E ‘sto famoso brodo, da dove viene?». L’evoluzionismo (come indica l’inquietante suffisso in «ismo») è diventato una ideologia; comunque, al suo meglio, è una ipotesi su un procedimento della natura, non una causa.

Ha fatto scalpore, di recente, un messaggio del Papa per una ricorrenza della Pontificia Accademia delle Scienze (quella stessa di cui fece parte Galileo Galilei). I colleghi giornalisti si sono scatenati con titoli tipo: «Il Papa benedice Darwin», «Autocritica della Chiesa sull’evoluzionismo» o, addirittura: «L’uomo discende dalla scimmia: il Vaticano conferma» ...
È il solito, noioso meccanismo che ben conosciamo. Un’agenzia estrapola (quando non manipola) una frase dal contesto, i giornali «bevono» – senza alcun controllo – e gli «opinionisti» si esibiscono in pensosi commenti. Ovviamente, sul nulla, su una dottrina cattolica «virtuale», visto che ciò che si comunica e si commenta non ha nulla a che fare con ciò che è stato detto e si voleva dire.
Certo: se si parlasse meno, a ogni livello della Chiesa, ribadendo solo l’essenziale, si darebbero meno pretesti a queste deformazioni. Inutile lamentarsi, se non si tiene conto dei meccanismi che regolano (e non possono non regolare, malgrado gli auspici delle «anime belle», quelle che invocano chimeriche «deontologie») il meccanismo della cosiddetta «informazione». E le virgolette, come sai, sono necessarie.
Della perdita della memoria di tanti uomini di Chiesa fa parte anche questa: aver dimenticato che la stampa nasce in funzione anticattolica (la campagna di fogli volanti, di opuscoli, di incisioni, grazie alla quale il protestantesimo nascente coinvolse le masse in ciò che all’inizio non era che la solita lite tra frati) e diventa poi «adulta» in funzione tout court anticristiana (i primi quotidiani ideologici, di propaganda, di massa, sono quelli della Rivoluzione francese).
Comunque, mentre il proprium del giornalismo è il rincorrere l’effimero, quello della Chiesa è riannunciare a ogni generazione l’Eterno. Dunque, ci si lagni meno e si agisca di conseguenza, riscoprendo magari la sapiente laconicità del Sant’Uffizio, che non aveva che due espressioni per risolvere le questioni postegli: licet; non licet; e ricordando che l’aumento delle parole porta all’aumento dell’insignificanza.
Ma lasciamo stare, sennò facciamo noi pure la parte di quei patetici «illuministi», convinti che i «consigli degli esperti» possano risolvere le situazioni, organizzando magari dei magici «corsi» ...

In realtà, malgrado il polverone mediatico, in quel messaggio Giovanni Paolo II si rifaceva, confermandolo, al suo predecessore Pio XII, che certo non è sospettabile di «modernismo» o di «revisionisrno dottrinale».
In effetti: si ribadiva quanto è ovvio. E, cioè, che la validità delle ipotesi e delle teorie evoluzionistiche (si usava il plurale perché sono parecchie e spesso in rissa tra loro) è problema che non concerne la Chiesa, ma la scienza. La Chiesa è pronta ad accettare il verdetto degli scienziati, se mai vi si giungerà (e molti ne dubitano, oggi più che mai, checché ne pensino gli sprovveduti). In ogni caso, il credente non potrà mai accettare una lettura «materialista», per la quale tutto sarebbe avvenuto e avverrebbe per casuali e ciechi fenomeni chimici e fisici. Mentre non si vede difficoltà alcuna in una lettura che dietro il meccanismo evolutivo scorga il progetto di quel Pianificatore che è il Dio creatore.
Tutto qui: nessuna novità; anzi, la riconferma di una prospettiva di buon senso, che non scandalizza neppure il cattolico più timorato. Certo: oggi riesce difficile capire la lunga lotta di certi ambienti cristiani contro ogni prospettiva evoluzionistica. Come sai, però, per virulenza intransigente si distinsero i membri di quella Chiesa anglicana di cui è capo, «papa», Sua Maestà Britannica e alla quale apparteneva Darwin; Chiesa oggi così spesso pronta a ricordare con sdegno ai «papisti» il presunto «oscurantismo dogmatico». Del resto, l’intransigente condanna protestante di ogni ipotesi evoluzionista continua anche ora. Molte delle «denominazioni» evangeliche degli Stati Uniti rifiutano che ai loro giovani sia insegnato qualunque «darwinismo» nelle scuole pubbliche. C’è stata battaglia, per questo, anche alla Corte Suprema. Anzi: il termine «fondamentalismo» nasce negli USA proprio per indicare questi protestanti (spesso maggioritari) che, prendendo alla lettera la Bibbia, scambiano il racconto della creazione, nel Genesi, per un resoconto «scientifico».
In realtà, è chiaro da tempo che fede biblica nel Dio creatore ed ipotesi evoluzionistica correttamente intesa non sono affatto in contrasto. La fede non dovrebbe avere difficoltà a ipotizzare che Dio abbia scelto di creare l’Universo dando alla materia leggi interne che la conducessero a sempre maggior perfezione. Quasi il software, il «programma» che Dio stesso avrebbe inserito nell’immenso computer da Lui creato e da Lui, dunque, così previsto nelle sue fasi successive. D’altro canto, la scoperta del DNA sembra davvero andare nella direzione di un «programma» di evoluzione e sviluppo previsto da un Gran Programmatore.
Lascia che ti legga questo brano di un articolo non di chissà quale teologo spericolato, ma di un cardinale di Santa Romana Chiesa, l’arcivescovo di Bologna cardinal Giacomo Buffi: «È del tutto irrilevante appurare se l’uomo derivi o non derivi dalla scimmia; se la vita organica sorga o no dalla materia inorganica, o altre cose del genere. Questi sono problemi di natura scientifica e sono di grande interesse per biologi, paleontologi, astrofisici e per chissà quanti altri cultori di bellissime discipline. Ma sono problemi che non interessano l’uomo in quanto tale. Quali che siano i processi intervenuti nella mia preistoria, ciò che conta, per me, è sapere se sono stati casuali o voluti, frutti di cieche coincidenze o di un progetto. Questa è la sola questione che investe la mia vita in quanto persona umana, perché la scelta fra le due ipotesi ha conseguenze determinanti per me». Chiaro?

Ma anche chiaro che molti son pronti a replicare: dite così adesso, voi cattolici (molti protestanti, lo ricordavamo, non lo dicono ancora) perché vi siete stati costretti, dopo una lunga resistenza.
Come vedi, ho qui nei miei scaffali la raccolta completa della Revue pratique d’apologétique, una pubblicazione ancor oggi preziosa (non a caso la tengo a portata di mano) che uscì in Francia dagli inizi del secolo sino agli anni Quaranta e che difendeva, dati alla mano, la prospettiva cattolica più ortodossa. L’altro giorno, riflettendo proprio su questo tema, càpito sul numero 81, del 7 febbraio 1909 (dico 1909, nella Belle-Epoque dove scientismo positivista e fede nel Dio cristiano duellavano ai ferri corti). Bene: vi trovo un corsivo indignato dal titolo Une déloyauté. Cos’è questa «slealtà»? Era successo che il rettore della facoltà di scienze dell’università di Parigi, un notissimo libre penseur, aveva scritto: «Per un cattolico, che c’è di più empio, di più contrario alle Sacre Scritture della dottrina dell’evoluzione?». Da qui, lo sdegno della Revue apologetica, dove un abbé, altrettanto famoso come teologo «papista» che come scienziato, replicava alla «slealtà» scrivendo, leggo testualmente: «Si può permettere – se non ammettendo la malafede – che un rettore universitario ignori come, secondo la teologia cattolica, l’evoluzione è perfettamente conciliabile con la Bibbia?».

È davvero curioso che non solo i consueti, sprovveduti redattori di giornale, ma anche fior di professori, nei loro editoriali, abbiamo preso per tardiva autocritica ecclesiale ciò che già novant’anni fa era pacificamente accettato. Nel secondo quotidiano italiano per diffusione, dopo le parole del papa alla sua Accademia delle Scienze, uno dei seriosi pezzi di quei commentatori aveva per titolo uno squillante «Era ora!».
Sono convinto che Dio – quel Dio cristiano che è il solo che ci interessi – ama la storia. Ama la storia degli uomini al punto di entrare a farne parte. E non per finta, ma facendosi uomo nell’utero di una donna, appartenendo a un popolo in un periodo preciso, essendo imperatore Cesare Augusto, e finendo giustiziato secondo la legge vigente nella provincia romana di Giudea, essendo imperatore Tiberio. Ma, forse, quel Dio ama pure la storia del creato, la storia naturale, se davvero ha stabilito che anche i minerali, la flora, la fauna in qualche modo evolvessero nel tempo seguendo un programma, avessero una vicenda.
C’è un’eco che sembra rinviare a una realtà enigmatica, non lontana da questa, nelle parole mai interamente chiarite di Paolo: «Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto ...» (Rom. 8, 22).
Non dimentichiamo, poi, che tra le leggi che, per decreto divino, sembrano governare non solo la comunità umana ma anche il mondo della natura, c’è quella detta di «sussidiarietà»: ogni livello della realtà ha la sua autonomia, il livello superiore non deve fare ciò che può fare l’inferiore, il mondo è una sorta di piramide dove il vertice crea, coordina, sorveglia, senza soffocare ciò che è sotto di lui, sino alla base.
Non solo non disturba, ma appare coerente che questo «principio di sussidiarietà» sia applicato alla natura: Chi le ha dato le leggi si impone di rispettarle; ciò che la «materia» può fare – seguendo, s’intende, il software fornitole – lo faccia. L’universo intero, dunque, sembra andare avanti «da solo», utilizzando le energie dategli all’inizio e procedendo secondo le coordinate fissate esse pure una volta per tutte: così, all’osservatore superficiale e irriflessivo (o deformato da un’ideologia previa) Dio sembra assente, sino al punto di crederLo inesistente. In realtà, è il Dio «discreto», il Dio «liberale» che sta dietro le quinte; è la «Causa Prima» riconoscibile solo dalle «cause seconde», le leggi della fisica, della chimica; ma anche, se vuoi, le leggi delle scienze umane, dalla psicologia alla sociologia.
Per questo, tra l’altro, il miracolo «fisico», il prodigio è raro: e, quando si verifica, non è per una negazione ma per un superamento (o una temporanea sospensione) delle leggi date alla natura perché si autoregoli. Vi sono religioni (tra le quali l’Olimpo classico) dove gli dei, e «il Sommo Giove» stesso, sono impotenti davanti alla Natura, le cui leggi li trascendono. Per altre fedi, Dio interviene di continuo, a suo capriccio, modificando a piacimento quelle leggi. Il Dio giudeo-cristiano, invece, ama il Suo creato anche imponendosi di rispettarne la libertà, di astenersi dal violentare il «Programma» stabilito una volta per sempre. Il miracolo può verificarsi, certo: ma ogni volta, a ben guardare, è un andare oltre, non contro quel «Programma». La cui esistenza e il cui funzionamento «normale» sono (lo dimentichiamo spesso) il vero prodigio.

Non dovremmo, comunque, essere troppo ingiusti verso quegli ambienti cristiani che resistettero alle ipotesi evoluzioniste. Si opposero non alla possibilità dell’evoluzione come «elemento logico» (software) posto dal Creatore nel suo «elemento fisico» (hardware), ma all’evoluzionismo. Cioè (come tu stesso ricordavi) a un «ismo», a un’ideologia che metteva delle ipotesi scientifiche al servizio di una prospettiva filosofico-politica antireligiosa.
Al di là, pare, delle stesse intenzioni di Darwin (che scrisse: «Le mie vedute non sono necessariamente atee» e restò sempre, da quel che si sa, un vago «deista»), il «darwinismo» fu impiegato come strumento per espellere Dio dal mondo. L’uomo disceso dalla scimmia; e, questa, da altre «specie inferiori», con un’evoluzione senza «programma», senza discontinuità, senza un punto che segni un salto «qualitativo» fra il bestiale e l’umano (senza, cioè, l’infusione «dall’Alto» di quella che la tradizione cristiana chiama «l’anima» immortale): beh, questo e altro non poteva essere accettato.
Naturalmente, è una precisazione necessaria. Non dimentichiamo, tra l’altro, che la fede nella forza del tempo che spingerebbe il mondo verso forme «superiori», portava a uno schema «evolutivo» secondo il quale si era passati dalla superstizione alla religione e da li si saliva alla scienza e alla filosofia. Solo queste sarebbero degne dell’uomo detto, non a caso, «evoluto» (aggettivo entrato nell’uso corrente solo dopo Darwin). Dunque, la religione apparteneva al passato, era propria di razze e di individui «inferiori»: bastava pazientare per vederla dissolversi, così come si era passati alla posizione eretta dopo aver camminato a quattro zampe...
Comunque, attento: le certezze evoluzionistiche di un tempo (dal «brodo primordiale» sino a Leonardo da Vinci) sono oggi duramente contestate; e non certo da teologi, ma da scienziati. Non addentriamoci, per carità, nell’analisi della contestazione di una teoria che era stata spacciata per sicura e definitiva ed è invece - parola di esperti insospettabili - piena di crepe e di buchi.

Oltre che di cantonate e di veri e propri imbrogli.
Naturalmente. E, altrettanto naturalmente, mentre non passa giorno in cui non si ricordi il «caso Galileo», si è provveduto a stendere un pudico silenzio sul «caso Piltdown», forse la più grottesca truffa del secolo. Uno dei molti casi in cui lo scienziato - questo «sacerdote del Vero» - Si fa imbroglione (o si lascia volentieri imbrogliare) per servire un’ideologia.

Piltdown? II mitico «anello mancante» tra l’uomo e la scimmia? Il «passaggio intermedio» presupposto da Darwin e darwinisti e che, essendo introvabile, fu costruito con lima e vernici?
Proprio quello. Malgrado oltre mezzo secolo di ricerca frenetica, tra le montagne di fossili disseppelliti non se ne era trovato alcuno di qualche «specie intermedia», un mezzo pesce e mezzo anfibio, o un mezzo rettile e un mezzo uccello. Soprattutto, mancava assolutamente il top: qualche bel fossile a metà tra l’orango e l’homo sapiens-sapiens. Finalmente, nel 1912, il grande annuncio: la «prova delle prove» era stata rinvenuta in una cava di ghiaia nel-la contea inglese del Sussex, accanto al villaggio di Piltdown. Qui, si raccolse una calotta cranica con una capacità cerebrale superiore a quella di una scimmia, ma inferiore a quella di un uomo «moderno». Accanto, c’era una mandibola senza alcun dubbio scimmiesca e un tempo certamente attaccata (si disse) a quel cranio. Per completare il quadro, qualche dente di ippopotamo, ossa di animali estinti, pietre rozzamente lavorate.
Il mondo scientifico - a cominciare dai paleontologi del British Museum - esultò: ecco trovato, finalmente, the missing link, l’anello mancante! I tre scienziati autori della scoperta (gente, fra l’altro, già famosa e prestigiosa) furono insigniti del titolo di «baronetto» dalla Corona inglese; a Piltdown fu eretto addirittura un monumento sul luogo del mirabile ritrovamento; la Reale Società Geologica di Londra fece dipingere un grande quadro commemorativo, dove l’ombra di Charles Robert Darwin benediceva paterna, mentre i colleghi spalavano tra la ghiaia ...

E alla fine, si scoperse che era una truffa.
Infatti: la mandibola non aveva nulla a che fare col cranio, questo era recente, non aveva affatto i 500 mila anni dichiarati, sui reperti attorno si era lavorato di lima e di vernici «invecchianti», le selci venivano dalla Tunisia... Qualcosa, insomma, come le sculture di Modigliani fatte da ragazzi e che, per qualche settimana, fecero gridare d’emozione i più illustri storici dell’arte.
Ma a Livorno fu uno scherzo, una beffa; a Piltdown fu invece una messinscena per avvalorare una teoria con reperti fasulli, visto che non se ne trovavano (né mai se ne trovarono in seguito) di autentici. Ci fu persino un dibattito, al Parlamento inglese, per tagliare i fondi al British Museum, i cui esperti erano caduti nella trappola. Il fatto ancor più sconcertante, però, è che la scoperta dell’imbroglio avvenne solo nel 1953: per oltre quarant’anni, la falsa «scimmia-uomo» (battezzata solennemente con il nome «scientifico» di Eoanthropus, «uomo dell’alba») fu riprodotta negli «alberi genealogici» della specie umana, costituì l’anello principale nei tabelloni esposti nelle aule scolastiche, fu oggetto di miriadi di pubblicazioni scientifiche.

Davvero «strano» che non se ne parli più: dopo essere stata imposta come una verità acquisita, nessuno sembra volere ritornare sul caso. Ci si è limitati a togliere l’Eoanthropus dalle illustrazioni dei libri di scuola.
«Strano», vero? Ma non è «strano» che, proprio di recente, ci si sia limitati a poche righe di un’agenzia di stampa, senza commento, per dare notizia di un’altra storica cantonata? Se l’uomo di Piltdown si è rivelato una truffa, ecco che, come unico esempio restante di «anello mancante», di «passaggio intermedio» tra scimmia e uomo, si esibiva il celebre «uomo di Neandertal». Purtroppo, uno specialista scandinavo proprio adesso è riuscito ad isolare e ad analizzare il DNA del mitico «ominide», giungendo al risultato — considerato, leggo, sicuro da tutti, pur se con comprensibile rammarico — che è «completamente estraneo alla nostra ascendenza». Non è, insomma, il nostro antenato, come ci avevano detto per quasi un secolo e mezzo: è solo un esemplare di una specie estinta di scimmia «antropomorfa».
In realtà, pare proprio che la paleontologia non abbia trovato alcun fossile che testimoni quelle «forme evoluti-ve di transizione tra specie» – tutte le specie, non soltanto quella umana – che pure, stando alla logica (e allo stesso Darwin) avrebbero dovuto essere numerosissime, essersi susseguite durante milioni di anni e, dunque, avere la-sciato moltissimi resti. Di ossa se ne sono trovate tante: ma tutte – ignorante come sono, anche qui sto agli specialisti più aggiornati – tutte, dunque, di specie indipendenti, tutte belle formate e per niente «in transizione». Qualcuno parla persino di un «segreto professionale» della paleontologia: quella ufficiale, cioè, non oserebbe rivelare che non c’è traccia di «anelli» tra le specie, che appaiono «fisse». Il contrario, cioè, di quel «processo continuo», presupposto fondamentale della teoria.

Mi sembra bene, comunque, ribadire che non siamo per niente preoccupati. Dunque, non abbiamo bisogno di andare ansiosamente alla ricerca dei «buchi» (che pur esistono e resistono) che smentirebbero l’ipotesi evolutiva. A noi va benissimo, anche se in futuro fosse confermato un qualche «movimento» evolutivo, soprattutto fra gli esseri viventi.
Sarebbe, appunto, il Dio «che ama la storia»: che ama il movimento, non la fissità.
Ma assurda era – e appare sempre più – anche solo per il calcolo delle probabilità, la prospettiva di spiegare il mondo senza un Dio, senza un Programmatore, come risultato di una serie caotica e cieca di casi, di necessità, di mutazioni, di selezioni, di adattamenti all’ambiente.
Non dimenticando, naturalmente, che resterebbe pur sempre il problema fondamentale dell’origine della «materia prima» su cui avrebbe operato questa «forza» o «istinto» evolutivo. Che è poi, ancora una volta, un sostituto di Dio: ma per credere al quale occorre una fede infinitamente più ardua della nostra in un Creatore.

Chi crede davvero ai miracoli — e in modo cieco, senza riscontro nei fatti e appoggio nella ragione– ha finito con l’essere proprio il «razionalista» che crede che l’occhio umano, ad esempio, sia il risultato di una evoluzione, senza che Qualcuno abbia predisposto il progetto. E dico l’occhio perché mi pare che, per la sua complessità e il suo finalismo, fosse tra le cose che mettevano a disagio lo stesso Darwin e che gli ponevano domande cui non sapeva rispondere. Anche per l’inspiegabile accordo tra ciò che c’è nella realtà fuori di noi e lo strumento sofisticatissimo previsto, appunto, per «vederla».
Ma sì, è famosa la frase del Nostro: «Quando penso alla complessità dell’occhio umano e alla somma di condizioni indispensabili per arrivarci, mi vengono i brividi». E nota che, con i mezzi dell’Ottocento, si era solo sfiorata quella complessità: noi, oggi, sappiamo che è infinitamente superiore a quella che già dava «i brividi» a Darwin. Tieni comunque presente che nessun occhio vedrebbe nulla se non ci fosse la luce: ancora adesso non siamo in grado di «spiegarla» del tutto, né sappiamo perché ci sia, sappiamo solo che senza di essa non solo niente vista, ma niente vita.
Così - tra mille altre cose - nessuno sa accordare la struttura del cervello umano con il postulato centrale della teoria. In effetti se sono «il bisogno e la funzione che creano l’organo», come mai quello straordinario «organo» che è il nostro cervello ha enormi potenzialità che ancora non siamo stati in grado di usare? Dieci miliardi di cellule nervose, ciascuna con tra 10 mila e 100 mila fibre di collegamento con le altre cellule, con un totale di connessioni pari a 10 elevato alla 15a potenza: un milione di miliardi. Per averne un’idea, un neurofisiologo ricorreva a un’immagine: l’intero Canada (10 milioni di chilometri quadrati) coperto di alberi, uno accanto all’altro, ciascuno con 100 mila foglie. Il totale di quelle foglie sarebbe equivalente al numero di connessioni presenti in ciascuno dei 5 miliardi di cervelli in funzione oggi sulla Terra. Se davvero è il cervello la sede della «ragione», sragiona chi creda che non abbia un Autore. Quel che abbiamo nella testa è molto (anzi, moltissimo) «di più» delle funzioni per le quali lo impieghiamo e che sono modestissime rispetto a quelle incredibili potenzialità. Quel che abbiamo nella calotta cranica lo utilizziamo come una calcolatrice a mano, men-tre avrebbe la potenza del supercomputer della NASA. L’«evoluzione» del cervello, insomma, sarebbe andata ben oltre se stessa, senza la spinta di »necessità» e di «selezioni naturali»: la Materia, la Natura che, invece di «creare», «scoprono» il già creato ...
Guarda, ho qui un volume appena arrivatomi di un biologo americano e dal titolo significativo: Evolution: a Theory in Crisis. Non è una voce isolata, è una goccia nell’onda levatasi da tempo e che minaccia di travolgere questo appoggio - «scientifico» - all’ateismo e all’agnosticismo moderni; questa possibilità - che noi non neghiamo di certo a priori, ma che è stata impugnata da troppi come una clava ideologica - per cacciare finalmente nel limbo del pensiero mitico, prescientifico, le prime nove parole della Bibbia, la solenne ouverture su cui tutto si basa: «In principio, Dio creò il cielo e la terra». Parole che la Chiesa trasformerà nella prima asserzione del Credo, la chiave di volta su cui tutto si regge: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili...».
Per tornare a questo libro dello scienziato americano (che ci tiene a dire, bada, di essere agnostico), la conclusione è poi questa: «Alla luce della scienza oggettiva, non ideologica, la teoria darwiniana dell’evoluzione è il grande mito della cosmogonia del XX secolo. Al di là di tutti gli sforzi per imprigionare i sistemi viventi nello schema evoluzionistico, la verità è che la natura non ha accettato di essere imprigionata. Il "mistero dei misteri" - l’origine delle specie sulla Terra - è enigmatico oggi come in quel 1831 in cui il giovane Darwin si imbarcava sul brigantino Beagle per il suo giro del mondo».

È certo comunque che le resistenze, anche solo all’accettazione del dubbio, sono fortissime: la mentalità evoluzionistica è uscita quasi subito dal campo delle scienze naturali per entrare anche nelle scienze umane.
In effetti, se l’ultimo secolo e mezzo è stato il periodo più sanguinoso della storia, la responsabilità è anche del cosiddetto «darwinismo sociale». E con esso che nasce (assieme alla parola, databile alla fine dell’Ottocento) il razzismo: quello vero, biologico, basato sulla gerarchia delle «razze», tra le quali le più forti hanno il diritto e il dovere di imporsi sulle altre.
L’antisemitismo, ad esempio, è fenomeno tutto moderno, post-darwiniano persino nel nome, sconosciuto alla tradizione precedente; a cominciare da quella cristiana, per la quale l’ebreo è un fratello in umanità da convertire (e, almeno nelle intenzioni, malgrado le deformazioni del-la storia, solo per amore: non dimentichiamo che, nella prospettiva evangelica, la più alta delle carità è annuncia-re la verità del Dio fattosi uomo e morto per guadagnarci la vita eterna). Non è di certo, comunque, una sottospecie degenere da eliminare. L’israelita che, liberamente, chiede il battesimo diviene, nella Chiesa, un fratello prediletto; per il razzista, semel judaeus, semper judaeus. Avevano un bel «convertirsi» gli ebrei, dove comandava quel segno pagano e al contempo figlio legittimo della modernità post-cristiana che è la croce sì, ma uncinata: battezzati o no, la sorte era comune, perché il marchio della «razza inferiore» è indelebile. Darwinisti docent.
Non solo il nazionalsocialismo, ma pure il marxismo risente di quelle teorie: la storia come guerra tra «classi» (l’equivalente sociopolitico delle «razze»), come necessaria «evoluzione» verso forme «superiori» di organizzazione, di cui la massima, al culmine dell’ascesa, è il «comunismo realizzato».
Anche il volto spietato del colonialismo (gestito dalle leadership europee del liberalismo agnostico o ateo del secondo Ottocento e del primo Novecento) è «darwinista»: la specie bianca è a un livello superiore di evoluzione, quindi è giusto, è «naturale» che si imponga sui «colorati», ancora in una tappa «bassa» dell’ascesa verso la perfezione psicobiologica, destinati a essere sconfitti nella struggle for life, la lotta per la vita.

In questa prospettiva, del resto, la guerra non è solo giustificata come «naturale», ma in qualche modo auspicata, come fattore di eliminazione del debole e motivo di conseguente «salute» dell’umanità nella sua marcia ascendente.
Senti allora questo appunto che presi da una pubblicazione cattolica stampata nel 1913, dunque l’anno prima dell’inizio della più terribile e sterminatrice delle guerre umane (quella che seguì nel ‘39 e poi quella «fredda», cominciata nel ‘45, non sono che suoi prolungamenti).
Leggo, visto che è più comodo che fare una sintesi: «Conosciamo sin troppo lo sforzo della cultura nazionali-sta e anticristiana per la giustificazione "razionale" della guerra, agganciandola a una legge biologica. La legge
dell’evoluzione, si dice, rappresenta la legge fondamentale che regge il mondo vivente. E questa evoluzione ha trovato la sua formula più esatta nella concezione darwiniana della lotta per l’esistenza. Così, la guerra è - deve essere - ovunque, tra gli individui di una stessa specie e tra le specie differenti: guerra senza tregua, per la vita e la morte, per nutrirsi, riprodursi, fortificarsi, evolversi. Ma la guerra è benefica nella sua stessa violenza, perché porta all’estinzione dei più deboli e alla conservazione dei più forti e adatti. Così, è la guerra il fattore essenziale del progresso. La legge darwiniana della natura, secondo queste nuove culture anticristiane, deve essere la regola di ogni civiltà umana: la lotta a morte, non è solo un principio distruttore ma anche il principio della vita dei popoli».
Il vecchio, oscuro scrittore cattolico da cui cito (l’articolo, ti dicevo, è del 1913) prevedeva disastri da una simile prospettiva: è stato ancor più profeta di quanto temesse.

Da qui si vede, tra l’altro, come la fede in un Dio creatore metta pure al riparo dalle catastrofi storiche cui abbiamo assistito e a cui portano teorie che pur presentano se stesse come «liberatrici» dalle vecchie, dannose superstizioni. Come dicevo, però, ormai una mentalità «evoluzionista» fa parte della vulgata corrente, quella dell’uomo della strada.
Anche perché l’ipotesi di Darwin incontrava il bisogno di magico dell’uomo, appunto, «evoluto». Non so se già ricordavamo (ma va ripetuto ad abundantiam) che l’abbandono della fede non porta alla ragione ma alla superstizione: non dimenticare che lo spiritismo nasce negli stessi ambienti del positivismo, tutto evoluzionista «radicale». Un Cesare Lombroso, per dire, finì i suoi anni facendo ballare i tavolini.
Sta di fatto che l’evoluzionismo ateo (quello che tutto attribuisce a «caso e necessità») non appartiene - come ingenuamente si crede - alla storia della scienza, ma a quella delle religioni. E infatti un culto di cronolatria, ben noto agli antropologi: l’adorazione del Tempo, inteso come Divinità o Demiurgo dalla forza magica e onnipotente. In effetti, a chi obietta l’impossibilità, innanzitutto statistica, di una evoluzione «casuale», il devoto (anche se con look da scienziato) rinvia alle possibilità prodigiose del Tempo: «In miliardi di anni, tutto è possibile!..». Per dirla con Isaac Singer, il grande scrittore ebreo in jiddish, il premio Nobel del 1978: «Sono molti i pensatori che hanno attribuito al cieco meccanismo evolutivo molti più miracoli di quanti non ne abbiano attribuiti a Dio tutti i teologi del mondo». Un culto religioso, appunto, con una fede tra le più esigenti.
Si, certo. La mentalità evoluzionista è entrata nel profondo, anche nell’immaginario dell’uomo comune. Non però (mi pare) sino al punto da distruggere del tutto il realismo pragmatico della gente. La quale ha continuato a «sentire» come impossibile la versione atea: che, cioè, il «caso», che forze cieche spieghino il mondo, la sua complessità, la sua perfezione, la sua bellezza. La gente vive, magari, come se Dio non ci fosse, perché non capisce più (e, spesso, nessuno più le spiega) che c’entri Dio con la sua vita, con il mondo. Ma che questo mondo l’abbia creato un «Dio», che non è – che non può essere – la materia e il caso, questo non può non crederlo, malgrado tutto.

Mi viene in mente il seguito di Alice nel paese delle meraviglie, quando Alice, appunto, dice alla Regina Rossa: «Inutile insistere, non si può credere all’impossibile». E la Regina: «È perché non ti sei allenata abbastanza. Quando avevo la tua età, mi ci applicavo regolarmente, una mezz’ora al giorno. Ebbene, alla fine mi è riuscito di arrivare a credere, prima ancora di colazione, sino a sei cose impossibili».
Già. La gente, almeno per ora, non si è abbastanza «allenata». Credo che non ci sia bisogno di accumulare argo-menti sapienti o impressionanti, che pure non mancherebbero. Basta, appunto, il common sense per capire che il «caso» non spiega nulla e che non c’è risultato coerente di computer senza chi programmi; e che, prima ancora, crei non solo la macchina, ma il materiale stesso di cui è composta.
Dunque, qui, non insisteremo più di tanto (bastandoci i cenni già fatti) sugli «1» seguiti da non so quante decine se non centinaia o migliaia di zeri che rappresentano le possibilità negative contro la formazione «casuale» anche di una sola molecola; né parleremo di formiche, di api, di tele di ragno, di circolazione sanguigna, di funzione clorofilliana, di catena alimentare, di composizione dell’atmosfera, di funzionamento dei reni, e delle infinite altre meraviglie che non possono essere affatto «casuali». Parola, lo ricordavamo, di buon senso. Quello stesso praticato pure autorevolmente da Albert Einstein, per riparlare di lui, con l’osservazione famosa: l’incredibile complessità dell’universo rinvia direttamente a un Dio, non a un infinito gioco di dadi che, prima o poi, porti infallibilmente alla soluzione giusta.

Ma, proprio in nome del buon senso, non ce la faccio a non tirar fuori almeno alcune cose, tanto per attirarci ancora più compassione perla nostra ingenuità. Domande «infantili», appunto.
Per esempio: uno dei risultati della ricerca moderna è la scoperta che, in natura, tutto è legato a tutto e che tutto dipende da tutto. Vi è una interdipendenza totale. Ora: senza un programma e relativo programmatore, come hanno fatto (per dirne una) il maschio e la femmina di ciascuna specie a «evolvere» l’uno in funzione dell’altra, sviluppando apparati sessuali nei quali è raggiunto il meglio per garantire la fecondità? E nei milioni di anni ipotizzati perché si compisse questa «evoluzione» cieca e al contempo mirata (il maschio e la femmina «sapevano» di che cosa avevano bisogno perse stessi e per l’altro o l’altra, in modo da integrarsi perfettamente nell’atto sessuale...) come si riproduceva quella specie? In generale: nei lunghissimi stadi di transizione (i pesci, ad esempio, che in milioni di anni si sarebbero fatti prima rettili e poi uccelli) come si riproducevano tutti gli esseri viventi? Ancora: ammesso – e non, ovviamente, concesso – che a forza di «caso», di «necessità», di «selezione», a una coppia sia riuscito finalmente il colpaccio di sviluppare questa compenetrazione feconda fra i due sessi, come ci arrivano tutte le altre infinite coppie? Com’è che tutte «evolvono» nello stesso, identico modo?
Evidentemente, i primi che ci arrivano (e chissà come fanno a stabilire che l’evoluzione è completata, che ormai è perfetta e che bisogna, dunque, fermarsi lì), i primi, dunque, fanno correre subito la notizia per tutto il mondo e danno le informazioni dettagliate perché quelli della loro specie ancora in progress sappiano in che direzione bisogna indirizzare «caso e necessità»... Questa, amico, è «ragione»!

Ancora a caso: prendiamo proprio quelle api di cui annunciavi di non voler parlare... E prendiamole perché sono diffuse in tutto il mondo. Tutte, in ogni continente, costruiscono cellette di forma prismatica esagonale: solo con calcoli sofisticati è stato possibile stabilire che quella forma è ottimale, permettendo di sfruttare al meglio lo spazio ristretto dell’alveare, di ottenere temperatura e aerazione ideali e così via.
Non c’è, mi pare, solo da rispondere alla domanda: come ci arrivano, le api, a stabilire che l’ingegneria moderna di un’altra specie, l’homo sapiens-sapiens, proprio così avrebbe consigliato di costruire le celle (tutte esagonali ma, fra l’altro, di dimensioni diverse per operaie, fuchi, regina o deposito di polline e miele)? C’è da rispondere a un’altra domanda: l’ape-geometra che, «evolvendo» a caso, ha fatto la scoperta dell’esagono ha convocato tutte le api del mondo (e si noti che sono più di ventimila specie) per far loro dei corsi che insegnassero la tecnica ottimale di costruzione? In effetti, tutti gli alveari di tutto il mondo si adeguano a quel disegno. Per non parlare, ovviamente, dell’impressionante organizzazione sociale di questi e di altri insetti come formiche e termiti: anche qui chi l’ha «inventata» ha diffuso un manuale? O c’è stato un ordine di servizio di qualche «Grande Capo» che ha imposto di strutturare così tutte le comunità di suoi simili?...
Per restare al mondo animale e ai suoi ricoveri: tutti costruiscono dei nidi o delle tane in vista di eventi come la nascita di una prole che non solo prevedono, ma della quale conoscono in anticipo le esigenze per un comfort e una sicurezza ideali. Chi glielo ha detto? Come fanno a indovinare il futuro?
Ma qui mi fermo, perché mi sono già esposto abbastanza al ridicolo. Anche qui, ci sono domande che non si possono fare perché troppo semplici. Dunque, sono da semplici ...
Visto che, malgrado i buoni propositi, non ce l’hai fatta a non citare qualche esempio, fai venire voglia anche a me di ricordare un caso.
Il caso, dunque, di quello che gli zoologi chiamano Camelus dromedarius, il cammello a una sola gobba che vive nei deserti del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale. Assieme ai due Poli, è l’habitat più inospitale del mondo. E proprio per questo che lo scelgo. In quei deserti, si va dai 70 gradi all’ombra di giorno sino alle temperature sottozero di notte. Eppure, questo prezioso, pacifico bestione da quattro o cinque quintali non si limita a sopravvivere: nell’immensità lunare del Sahara vive benissimo. E questo grazie a una struttura incredibilmente adatta all’ambiente.
Vediamo: i larghi piedi callosi gli permettono di non sprofondare nella sabbia; questa, seppure arroventata, non gli danneggia il ventre con il calore riflesso, grazie alle lunghe zampe che lo sollevano dal suolo; il pelo è più fitto dove il sole più batte e ha una sfumatura di colore che assorbe la quantità minima di radiazioni solari (non a caso, dopo molti tentativi, è proprio a quel colore che gli europei si sono ispirati per le divise dei loro soldati coloniali...); le narici possono chiudersi ermeticamente quando soffia il vento del deserto; durante quelle tempeste, la struttura delle ciglia gli permette di vedere senza avere gli occhi danneggiati dalla rena; i padiglioni auricolari hanno, allo stesso scopo, un sistema sofisticato che impedisce l’ingresso della sabbia; i denti crescono in continuazione per compensare il logorio della masticazione dei duri cespugli che sono l’unico cibo del deserto; labbra e bocca sono come «corazzate» per non ferirsi con le spine di quegli arbusti; per evitare l’insolazione, la calotta cranica è sollevata, così da mantenere un cuscinetto d’aria tra essa e la massa cerebrale...
Non basta: con un meccanismo unico nel mondo animale, la gobba costituisce una riserva di grasso che per-mette a questa «nave del deserto» di vivere settimane non solo senza mangiare, ma anche senza bere. Il grasso, infatti, con un processo chimico straordinariamente complesso ed efficace, si trasforma in alimento e, soprattutto, in acqua che circola per tutto l’organismo. Lo stomaco, poi, può immagazzinare sino a 120 litri di liquido: anche questo si distribuisce gradualmente ma direttamente nel sangue, garantendo una continua idratazione, mentre una struttura interna di depurazione evita i danni dell’acqua putrida, spesso infetta, delle polle del deserto. La resistenza alla sete è poi aumentata da un «impianto» nel naso che trattiene il vapore acqueo durante l’espirazione. In ogni caso, l’animale può perdere sino a un quarto del suo peso senza disidratarsi: anche in questo, un caso unico.

Splendido esempio, dunque, di «evoluzione», dì organi adattati alla finzione, ai bisogni, all’habitat. I bussolotti per il lancio dei dadi hanno fatto le solite meraviglie ...
Ritorna però – non può non ritornare – la domanda tanto impertinente quanto logica: come sopravvissero in quei terribili deserti i cammelli «in evoluzione», durante le centinaia di migliaia, i milioni di anni necessari a giungere all’attuale perfezione? Come hanno fatto a non estinguersi in quell’ambiente di disagio estremo, aspettando di essere «adattati», con tutti gli optionals necessari a vivere in un deserto dove non resiste alcun altro animale di quelle dimensioni? Per quale inspiegabile «masochismo», poi, questi animali ancora «in formazione» sarebbero restati per milioni di anni in quell’inferno di sabbia, di calore, di siccità, aspettando di «adattarsi», invece di spostarsi un po’ verso zone più ospitali?
Tra l’altro, le genti del deserto li impiegano da molte migliaia di anni: da graffiti preistorici sulle rocce sahariane, da pitture egizie, da fonti scritte, risulta che decine e decine di secoli fa erano esattamente come oggi. Nessuna «evoluzione» da allora. Questo, quantomeno, conferma che, se davvero «adattamento» c’è stato, esso è stato lentissimo: da almeno quattromila anni a questa parte non si è aggiunto alcun nuovo «accessorio». E una ulteriore riprova che la loro «evoluzione» avrebbe bisogno di tempi smisurati. In attesa, come avrebbe potuto sopravvivere anche una sola coppia che assicurasse la catena della specie?

Domanda, naturalmente, senza risposta, alla pari di ogni altra equivalente, che pur occorrerebbe fare per ogni essere vivente, animale o vegetale che sia.
Pensa – è la prima cosa che mi viene adesso in mente – a quell’organo presente in tutti i vertebrati e che chiamiamo «stomaco». Lasciamo pure da parte lo straordinario meccanismo della digestione, le fasi attraverso le quali la materia morta immessa nel corpo gli dà vita. Prima di ogni altra, qui, c’è una domanda: come può avvenire che lo stomaco digerisca la carne e non digerisca quell’altra carne di cui è fatto? I potenti acidi che secerne dissolvono ogni altra cosa, ma non se stesso. Questo può avvenire soltanto perché, assieme ai succhi gastrici, lo stomaco provvede di continuo a ricoprirsi le pareti interne con una sorta di vernice, un muco che lo rende inattaccabile da quella aggressione. Se questo non avviene, o non abbastanza, ecco infatti le ulcere: che sono però la patologia, non la normalità.
Da qui, l’ennesima questioncella da povero Bertoldo e non da pensoso sapiente: come salvare gli stomaci dall’autodigestione, in attesa dei milioni di anni necessari a trovare la difesa? Non c’era, «prima», succo gastrico? Allora, niente digestione, quindi niente vita. Non c’era, sempre «prima», muco protettivo? Allora, un pasto e basta, per sempre: stomaco digerito... Acidi e controacidi sono «apparsi casualmente» insieme? È quanto si è costretti a postulare non solo qui, ma per ogni aspetto della vita, dove tutto è interazione. Una pseudorisposta, però, che ha ancor meno credibilità di chi dicesse che uno che parla solo tedesco può conversare con un altro che parla solo giapponese: il «caso», infatti, grazie a una serie di circostanze favorevoli, fa si che i discorsi del teutone siano perfettamente «coordinati» con quelli del nipponico ...
Per buttare lì, ancora a caso: c’è una stretta solidarietà fra fiori e insetti perché possano avvenire l’impollinazione e la fecondazione. Solidarietà tanto essenziale che esiste un preciso rapporto tra gli organi dei vegetali e degli animali: senza quello scambio, entrambi si estinguerebbero. Già. Ma, ancora una volta, prima dell’adattamento reciproco?

Non dimenticando l’altra domanda che facevo e che vale per ogni specie vivente: anche ammesso l’inammissibile, per quale «contagio» o passa parola o sortilegio, l’adattamento che sarebbe riuscito prodigiosamente a un esemplare si sarebbe trasmesso a tutti gli altri esemplari? e trasmesso in contemporanea, per giunta? Per tornare all’esempio del cammello: non ne conosciamo alcuno (né, del resto, alcun’altra forma vivente) a «metà del guado», ancora in attesa di completare il fantastico cammino verso il perfetto adattamento all’ambiente.
Non c’è soltanto da spiegare la formazione di simili «strutture» viventi. C’è anche il loro comportamento una volta giunte a quella perfezione. Come l’hanno appreso? Avran forse fatto anche qui dei corsi, magari per corrispondenza?
Caro mio, la mentalità magica è basata sulla credenza nel potere di certe parole di creare e di illuminare. Sono le formule-talismano, come il celebre abracadabra, usato da tutti i maghi, sin dai tempi più remoti. Così, a domande ingenue come le nostre, molti col camice bianco dello scienziato o con il doppiopetto del professore opporranno parole, appunto, «magiche»: come, in questo caso, «istinto». Anzi, perché suona più dotto e serio, «tendenze istintuali». Sono queste, che diamine!, che spiegano i comportamenti del mondo animale, tanto per stare ad esso.
Penso, ad esempio, agli straordinari viaggi periodici de-gli uccelli migratori, dei salmoni, delle anguille. Penso, che so?, a quell’uccello, una specie di chiurlo, che passa l’inverno nel caldo di Tahiti, nell’Oceania. Poi, quando è estate al Polo Nord, raggiunge lo stretto di Bering - tra Alaska e Siberia - con un volo senza scalo di novemila chilometri. E non sbaglia né di un metro né di un’ora. O la balena grigia, che fa la pendolare - a seconda delle stagioni - fra Golfo del Messico e Polo Sud. L’aria, il mare: prendiamo allora un esempio dalla terra, come le renne russe, che si spostano di migliaia di chilometri a seconda del clima.
Da quelle migrazioni, come sai, dipende la sopravvivenza delle specie interessate: a cominciare dal cibo e dal-la riproduzione. Chi ha insegnato loro quando, come, dove migrare? E poi, sempre la stessa domanda: ma «prima»? come è vissuta la specie, in attesa che degli «esploratori» facessero sopralluoghi, confrontassero posti, misurassero temperature, fornissero relazioni a tutti gli altri che da allora, ogni anno, a data fissa si mettono in viaggio?... Risposta convincente, s’intende: «È l’istinto! Sono le tendenze istintuali! Volete capirla o no?».
E se osi replicare che l’istinto non è una spiegazione perché è proprio esso che va spiegato (da dove viene? chi l’ha messo dentro la natura?) allora ti si farà capire che hai esagerato in grossolanità e che non vale la pena di perdere altro tempo con un becero come te.
Comunque, aumento io pure la dose di ridicolo cui ho diritto, osservando che l’universo intero - dall’atomo alla galassia - è retto da leggi che sono poi quelle grazie alle quali la scienza e la tecnologia possono scoprire, sperimentare, fabbricare, prevedere. Nessuno, ad esempio, era mai andato sulla Luna. Eppure, in quell’estate del 1969, gli astronauti poterono andare e tornare perché tutto era prevedibile e fu tutto previsto. Ora: non c’è cosa più contraddittoria di pensare a una legge - anche una soltanto - frutto di una somma di casi. Il caso è il caos, è il contrario stesso di quella stringente regolarità che presiede alla vita dell’intero cosmo.
Come tutti sanno, una folla umana, anche di poche centinaia di persone, è del tutto incapace di organizzarsi: per darle ordine devono intervenire intelligenza e volontà di qualcuno esterno e che abbia autorità. Ebbene, ciascuno di noi è formato da una folla, tanto smisurata quanto ordinata: molti miliardi di cellule, ciascuna delle quali strutturata come una fabbrica automatica e unita a ogni altra per formare quel complesso che è il nostro corpo. Caos, dunque, quando si ritrovano insieme esseri ragionevoli? e organizzazione impeccabile quando convergono miriadi di «cose»?

Se, però, vogliamo essere sinceri sino in fondo (e non desideriamo altro: «stiamo lavorando – innanzitutto – per noi»...), non possiamo dimenticare che c’è sempre una domanda che incombe e che è una sorta di boomerang per chi, dietro le cose, ipotizza un Autore. È una domanda istintiva, tanto che non c’ è bambino che non la ponga, mettendo magari in imbarazzo il catechista che gli spiega che il mondo è stato creato da Dio. «Ma allora, Dio chi l’ha creato?», è la replica immancabile del piccolo, con la lucidità che - lo sappiamo bene -caratterizza la sua età.
E giusto. O così sembra a coloro che non riflettono abbastanza.
Se si risale attraverso la catena degli effetti e delle cause, si arriva, immancabilmente, a una «Causa Ultima» (o «Prima», a seconda della prospettiva in cui ci mettiamo): questo è, appunto, il nome che la teologia classica dà a Dio. Ma sembra impossibile interrompere lì la catena: qual è la causa della Causa Prima? Chi ha «causato» quell’«effetto» che è Dio?
Ma sì, fermarsi non pare affatto logico. Potrebbe esserci, allora, un Dio «minore» prima di un Dio «maggiore»: e così di seguito, all’infinito, senza potersi fermare.
Ti ricordi certamente di quel poligrafo pittoresco, brillante più che attendibile, che fu Bertrand Russell, conosciuto in tutto il mondo soprattutto come matematico, divulgatore filosofico, polemista politico. Russell, autentico missionario dell’ateismo, scrisse: «Tutte le religioni del mondo sono al contempo false e dannose».

Per le altre religioni noi non rispondiamo: abbiamo ben visto che non è lecito - oggettivamente, non per nostra fissazione apologetica - mettere il cristianesimo in un sacco con tutte le al-tre credenze. Tra le «religioni» possono essercene -anzi, certa-mente ce ne sono - di «false» e di «dannose». Ne abbiamo accennato, se non ricordo male, parlando del marxismo e di quella sua critica, non sempre tutta sbagliata, al mondo delle fedi.
Giusto: ma, come sai, Russell estendeva anche a noi la sua convinzione. E lui l’autore di quel pamphlet, ancora ristampato, dal titolo significativo: Why I am not a Christian, perché non sono cristiano.
Bene, questo conte Bertrand annotò una volta (e adesso capirai perché l’ho chiamato in scena proprio adesso): «Quando ero giovane e ancora sotto l’influsso della fede, ammisi per molto tempo il principio della Causa Prima. Un giorno, però, leggendo l’autobiografia di John Stuart Mill, trovai questa frase: "Mio padre mi insegnò che la domanda: Chi mi creò?, non può avere risposta, perché suggerisce immediatamente un’altra domanda: Chi creò Dio?". Compresi allora quanto fosse errato l’argomento della Causa Prima. Se tutto deve avere una Causa, anche Dio deve averla».

E allora?
Allora, verrebbe voglia di rispondere alla illogicità di questi filosofi «della domenica» e allo stupore dei bambini a catechismo con le parole di un poeta. Di chi, cioè, alla categoria dell’infanzia è legato: è per questo che la poesia - quando è autentica - ci è così preziosa. Potremmo sentire, qui, ad esempio, Eugenio Montale:
Il Creatore fu increato? Questo
può darsi ma è difficile pensarlo
imprigionati
come siamo nel tempo e nello spazio.

Non giudico i versi ma i contenuti: mi sembra che vadano spiegati.
L’intuizione del poeta ha compreso che la soluzione dell’enigma sta nel nostro essere «imprigionati nel tempo e nello spazio». E in queste dimensioni, infatti (e in queste soltanto), che si dipana la catena causa-effetto. La «Causa Prima» ne è fuori: Dio è l’Eterno e l’Infinito per eccellenza. E, per definizione, «il Fuori-Serie»: non è il primo anello della serie lineare delle creature di cui è il Creatore.

Non sarà un escamotage apologetico?
Niente affatto. Se ci pensiamo un momento, è del tutto coerente, almeno nella prospettiva cristiana. Non dimentichiamo che, per noi, Dio non coincide col mondo, come in certe prospettive religiose e filosofiche. Ad esempio, nel panteismo: che significa, letteralmente, «tutto (è) Dio». Chi ci crede non è, effettivamente, in grado di risolvere il problema. Così, è costretto all’assurdo di credere tutto eterno: il mondo è Dio.
Per noi, invece, Dio è nel mondo, fino al punto di esser-visi incarnato come uomo; ma, al contempo, è fuori dal mondo, è radicalmente distinto da esso. La creazione non coincide con il Creatore.
La «catena» l’ha pensata, voluta, creata, messa in moto Lui; ma proprio per questo è estraneo al solito dilemma: «E nato prima l’uovo o la gallina?». Per lunga che sia, la catena finisce per sboccare in una dimensione radicalmente, impensabilmente «altra», rispetto a quella dove stanno e vivono tutte le uova e tutte le galline.
Le obiezioni di un Russell o di uno Stuart Mill sono curiosamente illogiche per chi della logica dice di voler fare il suo mestiere. E un’obiezione che non ha senso, se vuol mettere in crisi un Dio come quello cristiano; o, in questo caso, anche degli altri monoteismi semitici. Quando diciamo «Dio», noi intendiamo «l’Essere supremo, infinito, trascendente il mondo, l’Assoluto». Un «Dio» così è «aldilà» della natura, dove soltanto vale la catena delle cause e degli effetti. Questi presuppongono, fra l’altro, un prima e un dopo: termini insensati per Chi è l’Eternità stessa.
Ogni effetto esige sì una causa: ma, per ridirla con Montale, solo per chi è «imprigionato nel tempo e nello spazio». Proprio ciò che, per definizione, Dio non è.

Il che fa venire in mente san Tommaso d’Aquino che, pur grande «utilizzatore» della ragione spinta sino alle possibilità estreme, rivendicava le ragioni del Mistero con la frase famosa: «Noi sappiamo di Dio più quello che non è che quello che è».
Innanzitutto, sappiamo, dunque, che non è inserito nella causalità del mondo.
È la «Causa in sé»; è Colui che «ha in Se stesso la Sua causa», per dirla appunto con Tommaso d’Aquino. Come sai, il «tetragramma sacro», JHWH, con cui l’Antico Testamento indica Dio, è legato al verbo «essere»: «lo sono Colui che è», si autodefinisce.
Certo – se si esce dalle definizioni e dalle precisazioni, pur necessarie, filosofico-teologiche – dà i brividi a pensarci. Cos’è questo Enigma di un Essere eterno e infinito che sta dietro l’universo?
Questo Dio c’è: pur liberi di rifiutarLo, se appena riflettiamo non possiamo non crederci: e proprio per non rinunciare alla ragione.
Ma, per usare il nostro balbettio umano e un po’ ridicolo: «da dove» viene? «perché» c’è? «chi» è? che significa «eterno» e «infinito»? perché a un certo punto di quella eternità (anche se, in quella dimensione, non c’è alcun «punto») «creò il cielo e la terra»? perché ha scelto di celarsi dietro le Sue opere e poi, un giorno, di farsi addirittura uomo tra gli uomini?
Sbaglia, e di grosso, chi pensasse che il cristiano – quello, almeno, consapevole del turbine vertiginoso di domande in cui lo trascina la fede – sia uno che snocciola «prove» e «argomenti» con l’imperturbabilità di chi compila un bilancio. La pace del credere si accompagna al brivido; la serenità all’inquietudine; la certezza allo sbalordimento, se non allo spavento, per le conseguenze che porta con sé il «sì» a Dio e, in particolare, a un Dio come questo.
Del resto, che dobbiamo fare? Noi non abbiamo deciso di venire alla vita; siamo stati immessi, senza volerlo e senza spiegazioni, in un mondo che c’è, piaccia o no; che vediamo e tocchiamo; che ci circonda con il suo mistero; che ci sfida, anzi, ci obbliga, a interpretarlo. Questa la nostra condizione: ne prendiamo atto, usiamo quelle capacità di riflettere, di ragionare che ci siamo ritrovate.
Non è né colpa né merito nostro se quel che scopriamo, e che crediamo, risponde alla Domanda fondamentale, ma per suscitarne una folla di altre. Il fatto è che un universo esiste; che, dentro, ci siamo anche noi; che, tutto sommato, la soluzione più praticabile è respingere l’assurdo per accettare il mistero. Ma resta pur sempre l’interrogativo: perché è così? perché esistiamo noi, la terra, l’universo con Qualcuno «dietro», tanto necessario quanto inimmaginabile?
Postato il 3 febbraio 2012

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