04 febbraio 2012

Possiamo credere ai Vangeli?

Brano tratto dal libroLe risposte della fede, Edizioni Paoline 1992
di P. Descouvement
La testimonianza dei vangeli non è neutra. Che credito darle?
I - I manoscritti antichi
1. Antichità
2. Numero
3. Critica testuale
II - Gli autori
1. Criteri esterni
2. Criteri interni
III - La data di composizione
IV - II valore della testimonianze
1. L'informazione dei testimoni
2. La sincerità dei testimoni

I cristiani si sono resi conto ben presto di alcune incoerenze esistenti nei vangeli. In Matteo, è il centurione di Cafarnao in persona che va da Gesù e gli dice: «Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di soltanto una parola e il mio servo - o il mio figlio? - sarà guarito» (Mt 8, 8). In Luca, il centurione manda da Gesù «alcuni anziani dei giudei a pregarlo di venire» (Le 7,3). Sono loro che riferiscono a Gesù le parole dell'ufficiale romano. E allora? A chi dobbiamo credere? A Luca o a Matteo? Il centurione è andato o no incontro a Gesù? .
A parte queste questioni marginali, intere generazioni di cristiani sono vissute nel sacro rispetto del testo evangelico, che veniva preso tutto alla lettera.
Non molto tempo fa, il best-seller di Daniel-Rops, Gesù e il suo tempo, diede ai cristiani degli anni Cinquanta la gioia di rappresentarsi la vita di Gesù se non giorno per giorno, almeno nelle grandi tappe e nel contesto storico.
I tempi sono cambiati. Il vento del dubbio ha soffiato tra i cristiani del XX secolo. Essi sono tutti influenzati più o meno dalla tesi dell'esegeta protestante R. Bultmann (morto nel 1976), il quale afferma che dal «Cristo della fede» non si può risalire al «Gesù della storia». Secondo questo esegeta gli scritti del Nuovo Testamento ci farebbero conoscere un Gesù rivisto e abbellito dalle prime comunità cristiane, il Cristo come era creduto, e noi saremmo nell'impossibilità assoluta di conoscere il Gesù storico come era realmente vissuto sotto Ponzio Pilato. Ma non è cosa grave, pensava Bultmann, perché la nostra fede non ha bisogno di sovraccaricarsi del «Gesù della storia»; essa infatti si rivolge solo al «Cristo della fede», annunciato dai primi cristiani.
Molti cristiani, pur non condividendo il pessimismo storico di Bultmann, sono impressionati da letture fatte qua e là sui vangeli. Si chiedono, per esempio, se possono considerare ancora come autentiche le guarigioni raccontate dai vangeli, la scena della moltiplicazione dei pani, il discorso di Cafarnao sul pane di vita, gli annunci di Gesù sul-la sua passione e la sua futura risurrezione, ecc. In breve, esistono dei passi evangelici da prendere ancora alla lettera come «parola del vangelo»?
La posta in gioco è importante. Indipendentemente dal pensiero di R. Bultmann, la fede cristiana non è solo l'adozione delle idee di Gesù, come possono essere state interpretate dai suoi primi discepoli; essa è adesione alla persona stessa di Gesù, nato dalla Vergine Maria a Betlemme di Giudea e crocifisso a Gerusalemme sotto Ponzio Pilato. E lui che ci interessa, a lui guardiamo, lui ascoltiamo. Come diceva padre de Foucauld, «pregare, è pensare a Gesù amandolo».
Non tutti i cristiani sono obbligati a intraprendere una ricerca storica dettagliata su Gesù per seguirlo e amarlo. E anche quelli che hanno fatto un serio studio in questo campo non ci pensano in ogni istante! Non si abita in una casa verificando continuamente la solidità delle sue fondamenta. Anzi, spesso ci fidiamo di un esperto che ci garantisce di averle esaminate con cura e di non avervi trovato nulla di anormale. E quanto giustamente fa la maggior parte dei cristiani. Essi si fidano degli esperti in scienze bibliche che hanno esaminato la questione prima di loro e per loro.
Ma è sempre bene che i cristiani abbiano almeno un'idea delle ricerche effettuate da questi studiosi, del loro metodo di lavoro, delle loro conclusioni e dei problemi che restano aperti, per avere qualcosa da rispondere quando sono violentemente attaccati da quelli che continuano a ripetere lo slogan: «Il vangelo è solo un intreccio di leggende».
Noi vorremmo dimostrare che, lungi dall'essere un insieme di libri storicamente contestabili, il Nuovo Testamento è, dal punto di vista scientifico, un insieme di documenti di grande valore. Qui studieremo solo gli scritti del Nuovo Testamento, riservandoci di indicare nella bibliografia alcune opere specializzate nello studio storico e critico dei libri dell'Antico Testamento.


I - I MANOSCRITTI ANTICHI

Non è stato evidentemente ritrovato l'originale delle lettere scritte da Paolo ai Tessalonicesi o ai Corinzi, come non sono stati ritrova-ti gli originali delle lettere di Cicerone o degli Annali di Tacito. Ma abbiamo la fortuna di possedere manoscritti molto antichi e molto numerosi di tutti gli scritti del Nuovo Testamento.

1. Antichità
Nella biblioteca Rylands, a Manchester, sono conservati due frammenti di papiro che risalgono alla prima metà del secondo secolo: vi sono copiati due brani della passione secondo Giovanni. Molte pergamene del III secolo contengono diversi passi del Nuovo Testamento.
E abbiamo due copie complete del Nuovo Testamento scritte nel IV secolo con una magnifica scrittura onciale: il Vaticanus, così chiamato perché conservato presso la biblioteca Vaticana; sembra che sia uno degli esemplari che l'imperatore Costantino ricevette dal vescovo Atanasio nel 340. Il Sinaiticus, conservato a Oxford, sarebbe uno dei cinquanta manoscritti che Eusebio dice di aver fatto copiare per Costantino e dietro suo ordine, verso il 331: le cinquanta copie furono offerte dall'imperatore alle principali chiese. Il Sinaiticus è chiamato così perché fu scoperto, nel 1844, in un convento greco del Sinai. E composto di 346 fogli di pergamena molto fine, forse di pelle di gazzella; ogni foglio misura 43 cm x 37 cm.
Ci sono dunque solo tre secoli di scarto tra la redazione degli scritti del Nuovo Testamento e i primi manoscritti completi che posse-diamo di essi. Questo è niente a confronto dei molti secoli che separano l'originale dei classici dell'antichità dalla copia più antica conosciuta:
1600 anni per le tragedie di Euripide o le opere poetiche di Catullo; 1400 anni per le tragedie di Sofocle o di Eschilo e le commedie di Aristofane;
1300 anni per i dialoghi di Platone;
1200 anni per le orazioni di Demostene;
700 anni per le commedie di Terenzio
e 400 anni per i poemi di Virgilio.

2. Numero
Se di un autore possedessimo solo una copia, chi ci proverebbe che il testo non è stato mutilato o che non è stato fatto nessun errore nella trascrizione? Solo il confronto con altri manoscritti può illuminarci. Ma tutti gli scrittori dell'antichità sono arrivati fino a noi grazie a un ridotto numero di manoscritti.
Del Nuovo Testamento, invece, abbiamo numerosissime copie. Solo per i vangeli esistono circa 2500 manoscritti scritti in greco, di cui 40 hanno più di mille anni di vita. Esistono 1500 lezionari che con-tengono la maggior parte del testo evangelico suddiviso in letture per tutto l'anno. Sono state trovate inoltre antichissime traduzioni dei vangeli in siriaco, in copto, in armeno, in georgiano, ecc. In realtà, fin dagli inizi della Chiesa, i cristiani tradussero i vangeli per poterli leggere nella loro lingua materna.

3. Critica testuale
Il confronto di queste diverse copie consente di stabilire il testo che si avvicina di più all'originale: è il lavoro della critica testuale. Accade, infatti, che un copista modifichi l'ortografia, sposti delle parole, aggiunga di sua iniziativa una spiegazione, dimentichi qualche parola. Queste varianti, dato il numero dei manoscritti del Nuovo Testamento, sono numerose. Ma interessano solo un ottavo dell'insieme, e le varianti sostanziali solo un millesimo! Dobbiamo anche precisare che le varianti sostanziali, che modificano il senso della fra-se, lo fanno solo molto leggermente. Per esempio, leggiamo in Luca 6,10: «E volgendo tutt'intorno lo sguardo sudi loro, disse all'uomo: "Stendi la mano"». Un manoscritto dopo «sguardo» aggiunge «con indignazione». Chiaramente il copista, volutamente o no, volle armonizzare Luca con il racconto parallelo di Marco 3,5, che riporta effettivamente questa connotazione sul modo con cui Gesù guardò i presenti. Come si vede, una variante «sostanziale» è poca cosa!
Tutti gli storici, credenti o non credenti, sono quindi obbligati a riconoscere che nessun libro dell'antichità ci è stato trasmesso in con-dizioni così perfette come i libri del Nuovo Testamento.


II - GLI AUTORI

Per conoscere gli autori del Nuovo Testamento come per l'autore di qualsiasi altra opera, dobbiamo ricorrere a due diversi ordini di criteri.

1. Criteri esterni
Sono le allusioni ai vangeli e agli altri scritti del Nuovo Testamento fatte da autori molto antichi. Papia, per esempio, vescovo di Gerapoli in Frigia, nel I1 secolo, discepolo dell'apostolo Giovanni e, secondo Ireneo di Lione, compagno di Policarpo, scrisse nel 130 una Esposizione dei loghia (parole) del Signore nella quale attribuisce all'apostolo Matteo alcuni brani del nostro primo vangelo.

2. Criteri interni
Analizzando da vicino i testi, possiamo verificare che Luca era me-dico, come dice la tradizione (parla delle guarigioni usando numerosi termini tecnici), che fu compagno di viaggio di Paolo (cfr. i capitoli degli Atti dove utilizza la prima persona del plurale per ricordare i viaggi di Paolo, l'identità della teologia lucana con la teologia paolina), che è autore sia del terzo vangelo che degli Atti degli Apostoli (lo stile è identico), ecc. Allo stesso modo è facile provare che Marco era molto legato a Pietro (vedi il racconto particolareggiato del triplice rinnegamento e l'omissione di elementi che valorizzano Pietro, come il miracolo di camminare sulle acque o l'annuncio del «primato» di Pietro sulla Chiesa).
Tramite la stessa analisi interna, possiamo classificare le diverse lettere di Paolo, in base all'evoluzione del loro stile e della loro teologia. Ci rendiamo conto così - sempre tramite lo stesso metodo - che la lettera agli Ebrei non è certamente di Paolo: non è il suo stile.


III - LA DATA DI COMPOSIZIONE

Secondo l'opinione della maggior parte degli esegeti attuali, la redazione definitiva dei vangeli è avvenuta trenta o quarant'anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù .
Certamente i redattori utilizzarono documenti che circolavano già nelle comunità cristiane dell'epoca; documenti che raggruppavano in raccolte ben costruite sia i detti che i fatti e i gesti di Gesù. Solo l'esistenza di questi documenti preesistenti può spiegare la somiglianza che si constata spesso tra un brano di Marco e un passo di Matteo o di Luca. Una somiglianza che può arrivare fino all'uso di un vocabolario assolutamente identico e che è tanto più impressionante in quanto si abbina spesso a profonde differenze.
Gli evangelisti si sono realmente comportati con molta libertà nei confronti delle fonti che utilizzavano. E tutti sono d'accordo nel riconoscere che ognuno di essi ha scritto il suo vangelo in funzione della comunità cristiana a cui si rivolgeva.
Questa opinione comune è stata recentemente contestata da alcuni autori che ritengono che i nostri vangeli siano la traduzione greca di testi molto più antichi redatti in ebraico. Tutti gli scritti del Nuovo Testamento devono essere datati tra il 42 (lettera di Giacomo) e il 68 (Apocalisse), afferma J. A. T. Robinson .
C. Tresmontant arriva addirittura a pensare che gli apostoli avevano scritto alcune note durante la predicazione di Gesù, come ave-vano fatto a loro tempo i discepoli di Amos, di Osea, di Isaia o di Geremia. Egli ritiene che si possano facilmente ritrovare nel testo greco che ci è pervenuto delle tracce del testo ebraico originale:
- La struttura delle frasi è spesso quella ebraica: all'inizio il verbo, poi il soggetto della proposizione, poi il complemento oggetto, poi i complementi indiretti.
- Numerosi ebraismi: «Pietro prese allora la parola e disse: Signo-re, è bello per noi restare qui» (Mt 17,4). Un'espressione classica in ebraico, usata anche quando non c'è dialogo.
- Giochi di parole che hanno senso solo in ebraico: «Vi dico che Dio può far sorgere figli (banim) di Abramo da queste pietre (abanim)» (Mt 3,9).
Altro argomento a favore dell'antichità della prima redazione del vangelo di Matteo: non vi si trova alcuna allusione a due avvenimenti che segnarono profondamente la vita e la coscienza delle prime comunità cristiane:
- La distruzione di Gerusalemme nel 70. Se il vangelo fosse stato scritto dopo il 70, pensa C. Tresmontant, avrebbe distinto più chiaramente, nel cosiddetto «discorso escatologico» di Gesù (capitolo 24), ciò che riguardava la rovina del tempio e ciò che annunciava la fine dei tempi. L'espressione che si trova in Mt 22, 7: «la città bruciata dal fuoco», non può essere considerata come un'allusione all'incendio di Gerusalemme nell'agosto del 70; è un'espressione troppo classica nella Bibbia ebraica.
- La persecuzione dei cristiani da parte di Nerone, negli anni 64-65. Il vangelo parla diffusamente della persecuzione che devono subire i cristiani. Ma essa viene dai giudei e non dai romani. Se il vangelo fosse stato redatto dopo l'anno 65, avrebbe accennato, come minimo, al massacro dei cristiani ad opera dell'imperatore di Roma.
P. Grelot, professore di Sacra Scrittura presso 1'Institut Catholique di Parigi e specialista in aramaico, si è adoperato per dimostrare che gli argomenti prodotti da questi tre autori non erano assoluta-mente convincenti . Ha dimostrano soprattutto che i cosiddetti ebraismi individuati da C. Tresmontant o da J. Carmignac erano semplicemente semitismi, che possono essere quindi spiegati benissimo tanto con l'esistenza di documenti aramaici primitivi, quanto con l'esistenza di documenti ebraici. Ma è ben diverso individuare l'esistenza di documenti semiti anteriori alla redazione dei nostri vangeli e l'esistenza di un vangelo interamente redatto in aramaico o in ebraico.
Egli ha anche dimostrato che il preteso silenzio dei vangeli sulla caduta di Gerusalemme non è così evidente. In Marco, infatti, Gesù dice agli apostoli: «Quando vedrete l'abominio della desolazione sta-re là dove non conviene, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano ai monti» (Mc 13,14). Matteo, a sua volta, dice: «Quando dunque vedrete l'abominio della desolazione» di cui ha parlato il profeta Daniele «stare nel luogo santo» (Mt 24, 15). La sostituzione dell'espressione conservata in Marco con questa espressione precisa non è un «ritocco discreto» motivato dal fatto che la profanazione del tempio è già avvenuta? Luca manipola anche più profondamente le sue fonti. Da una parte, accenna chiaramente all'assedio della città da parte di truppe nemiche, quando mette queste parole in bocca a Gesù: «Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti» (Lc 21, 20). Dall'altra, conclude il discorso escatologico con queste parole: «Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti» (v. 24). Non è questa una prova, dice P. Grelot, che Luca scrive dopo la catastrofe del 70 e che pensa già al futuro della città santa? Quando i tempi delle nazioni saranno compiuti, Cristo ritornerà nella sua gloria e questa sarà la nuova Gerusalemme nella quale entreranno con gioia tutte le nazioni.
In ogni caso, osserva P. Grelot, «se la distruzione del tempio era un evento drammatico nella vita della "nazione" ebraica e se essa colpiva i giudei cristiani sul piano strettamente nazionale, non lo era altrettanto per la Chiesa di Gesù Cristo; per lei il corpo di Cristo risorto aveva ormai sostituito il tempio di pietre: i suoi membri non avevano più come madre la Gerusalemme terrena, ma quella del cielo (Gal 4,26). La rovina della prima non significava la scomparsa delle loro istituzioni e quindi non si sentivano in lutto» . Non dobbiamo quindi stupirci se le allusioni degli evangelisti sono così discrete.
Non dobbiamo stupirci nemmeno se i vangeli non parlano del massacro dei cristiani ad opera di Nerone. Essi non sono un manuale di storia della Chiesa, ma una trasmissione fedele del messaggio di Cristo.
Vedremo infatti con quanta fedeltà gli evangelisti ci riportano le parole del loro Maestro, anche se non sembrano corrispondere all'idea che le comunità cristiane si facevano di lui molti decenni dopo la sua morte e risurrezione ...


IV - IL VALORE DELLA TESTIMONIANZA

Domanda fondamentale: Quale valore possiamo dare alla testimonianza che i quattro evangelisti ci danno su Gesù e sugli apostoli? Sono testimoni ben informati? Sono testimoni sinceri?

1. L'informazione dei testimoni
Per verificare se sono testimoni ben informati - o se trasmettono le testimonianze di persone ben informate - basta dedicarsi a un lavoro di confronto. Gli uomini e le donne che figurano nei vangeli corrispondono a ciò che sappiamo da altre fonti sui personaggi del tempo? Seguono le usanze dell'epoca? Questo confronto dà risultati eccellenti. Esso dimostra che gli evangelisti conoscevano, nei minimi dettagli, la vita quotidiana degli ebrei del tempo di Gesù. Prendiamo alcuni esempi:
- Gli evangelisti non ignorano niente degli usi dell'epoca: il pellegrinaggio dei bambini a Gerusalemme, compiuti i dodici anni; i tre grandi pellegrinaggi dell'anno: Pasqua, Pentecoste, Festa dei Tabernacoli; la strada che scende da Gerusalemme a Gerico, in pieno de-serto di Giuda: un itinerario molto favorevole al brigantaggio; l'importanza assunta dagli scribi tra il popolo; il modo di leggere la Bibbia nella sinagoga; la proibizione per un ebreo di entrare in casa di un pagano, proibizione che Gesù ha sempre rispettato. Entra nel pretorio di Pilato, ma come prigioniero.
- Gli evangelisti sono perfettamente informati sui personaggi dell'epoca come ci vengono descritti da altre fonti: la crudeltà di Erode il Grande segnalata da Luca: sappiamo che quel principe sanguinario fece assassinare numerose sue mogli...; la suddivisione del regno tra i suoi tre figli: Erode Antipa, Filippo e Lisania; il ruolo svolto da Anna, il suocero del sommo sacerdote in carica (Caifa); il disprezzo dei giudei per i pubblicani e i samaritani; le discussioni teologiche tra f a-risei e sadducei; il fervore dell'attesa messianica.

2. La sincerità dei testimoni
Si tratta di verificare ora se gli evangelisti sono stati sinceri, se cioè non hanno abbellito le parole e i gesti di Gesù per valorizzarlo. E questo il problema di cui parlavamo citando R. Bultmann. Affrontiamo ora più a fondo la questione.
I vangeli sono stati redatti all'interno di comunità cristiane che credevano da decenni in Cristo risuscitato, e che gli esegeti chiamano comunità «postpasquali». I redattori dei vangeli non ebbero quindi la tendenza spontanea ad armonizzare i fatti e i gesti del Gesù «prepasquale» (cioè del Gesù prima della risurrezione) con ciò che sapevano ormai di lui? Gli evangelisti seppero resistere alla tentazione di attribuire a Gesù frasi «storiche» che in realtà egli non aveva mai pronunciato? Per esempio, Matteo mette sulle labbra di Gesù, nel giorno della sua ascensione, la formula che sarà usata in seguito per il battesimo dei cristiani: «Battezzateli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 19). Non suona bene in bocca a Gesù quel «del Figlio»!
Nel colloquio di Gesù con Nicodemo, all'inizio del suo ministero, Giovanni introduce alcune riflessioni sull'incredulità dei giudei che sembrano piuttosto il frutto della lunga meditazione che egli stesso fece sull'argomento: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (3, 19).
Ma allora quando possiamo essere sicuri di trovarci di fronte a un episodio evangelico o a un discorso di Gesù «autentico»? Quando esiste un apparente disaccordo, una discontinuità tra quell'episodio o quel discorso da una parte e le concezioni ebraiche o le concezioni della Chiesa primitiva dall'altra.

- Discontinuità tra un passo del vangelo e le concezioni della Chiesa.
Nei vangeli, Gesù dice ai suoi apostoli che «quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24, 36). Ecco una frase che sembra in contraddizione con l'idea che si aveva di Gesù nelle comunità cristiane. Egli è il Figlio unico ... Sa tutto. Questa parola riportata da Matteo non è certamente una creazione di quelle comunità.
Lo stesso vale per la scena del Getsemani dove vediamo Gesù in preda alla paura e all'angoscia di fronte all'avvicinarsi della sua morte (Mc 14, 33). Una scena che contrasta stranamente con l'idea altissima che i primi cristiani avevano del loro Gesù risuscitato!
Potremmo allo stesso modo dimostrare facilmente che le «debolezze» degli apostoli che ci vengono presentate senza abbellimenti nei vangeli (la triplice negazione di Pietro, le ambizioni di Giacomo e di Giovanni, le gelosie degli altri discepoli) non furono certamente inventate dalle prime comunità, che veneravano gli apostoli!


- Discontinuità tra un passo del vangelo e le concezioni ebraiche dell’epoca.
Nei vangeli, vediamo che Gesù sceglie personalmente i suoi discepoli, mangia insieme ai peccatori prima che siano convertiti, prega il suo Dio con una familiarità inaudita chiamandolo Abba! Sono altrettanti episodi che non possono essere stati inventati dai suoi discepoli, che erano ebrei! Questo comportamento di Gesù infatti era completamente opposto alla condotta abituale di un rabbi dell'epoca. I discepoli sceglievano il loro maestro, i profeti denunciavano i peccati degli uomini, ma non andavano a mangiare in casa dei peccatori e un ebreo non avrebbe mai osato chiamare Dio «Babbo»!
Naturalmente vengono usati molti altri metodi per verificare l'autenticità di un brano evangelico e noi speriamo di aver trasmesso al lettore la voglia di studiarli nei testi specializzati che indicheremo più avanti
I vangeli non sono, quindi, un intreccio di leggende, ma meritano tutta la nostra fiducia. E più si studiano, più siamo colpiti dalla coerenza tra i gesti e le parole di Gesù. C'è uno stile del tutto originale:
«C'è nelle sue parole un accento di semplicità, di dolcezza e allo stesso tempo di autorità sovrana. Così, lo stesso Gesù che si proclama il servitore di tutti, il buon pastore, l'amico dei poveri e dei piccoli, è anche quello che afferma: "Io sono venuto... Lo dico io... In verità, in verità, io vi dico... Chi costruisce sulla mia parola... Va'... Vieni... Sono io... Alzati... Cammina". La sua parola ha un accento di urgenza escatologica: "Finora vi è stato detto... D'ora in poi... Allora vedrete il Figlio dell'uomo... Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole no... In quei giorni, la tribolazione sarà tale...". Non solo Gesù inaugura una nuova epoca, l'epoca decisiva annunciata e attesa dai profeti, ma è lui stesso, in persona, il punto di convergenza dell'Antico Testamento e l'inizio dell'eschaton finale . Il suo agire rivela le stesse caratteristiche di semplicità e di autorità e soprattutto di bontà, di compassione verso i peccatori e tutti quelli che soffrono. Per esempio, la parabola di Luca sul figlio prodigo descrive l'incomprensibile bontà di Dio verso i peccatori, ma giustifica nello stesso tempo il comportamento personale di Gesù che frequenta pubblicani e peccatori e mangia alla loro mensa. Lo stesso atteggiamento si ritrova nella parabola della pecorella smarrita. Fa parte dello stile di Gesù. Lo stile dei miracoli è identico a quello dell'insegnamento: è fatto di semplicità, di sobrietà e di autorità».


L'AUTENTICITÀ DEI MIRACOLI DEL VANGELO

Alcuni esegeti hanno affermato che nei vangeli possono essere considera-ti «storici» solo i racconti della predicazione di Gesù, del suo processo e della sua passione, e che occorre considerare «leggendari» tutti i racconti di miracoli.
Ma un'analisi approfondita del testo dei vangeli permette di arrivare a conclusioni del tutto opposte.
Utilizzeremo soprattutto i lavori di un esegeta gesuita canadese, René Latourelle, docente presso l'Università Gregoriana di Roma, esposti in due sue opere: A Gesù attraverso i vangeli: storia ed ermeneutica, Cittadella, Assisi 1982, pp. 242-270; Mìracles de Jésus et théologie du miracle, Cerf, 1986.

1. Un insieme di indizi fortemente favorevoli alla storicità globale dei miracoli evangelici
1. L'importanza di questi racconti nella trama dei vangeli. Questi racconti occupano il 31% di Marco (47% dei primi dieci capitoli di Marco). I primi undici capitoli di Giovanni sono strutturati attorno a sei grandi miracoli di Gesù (dalle nozze di Cani alla risurrezione di Lazzaro a Betania).

2. L'insegnamento di Gesù prende spesso lo spunto dalle guarigioni o dagli esorcismi che ha appena compiuto.
- Le controversie in Galilea con i farisei partono spesso da un miracolo che si è appena verificato.
- Nel vangelo di Matteo, il discorso sulla montagna (5-7) e il ciclo dei miracoli (8-9) sono indissolubili: hanno lo scopo di presentare i due aspetti essenziali del Messia, il nuovo Mosè, potente «in opere e in parole».
- Nel vangelo di Giovanni, il nesso tra il compimento di un miracolo e l'insegnamento di Gesù è ancora più evidente: guarendo un cieco nato, Gesù mostra di essere la luce del mondo; moltiplicando i pani, di essere il nuovo Mosè che porta il pane vero disceso dal cielo per dare la vita in sovrabbondanza, ecc.

3. Molti racconti ricordano esplicitamente il carattere pubblico dei miracoli di Gesù. Gli apostoli ne parlano spesso nella loro predicazione (At 2, 22; 10, 38). Non avrebbero potuto farlo, se l'esistenza di quei miracoli avesse potuto essere contestata dalla folla che aveva conosciuto Gesù.

4. Di fatto, nessuno, né Erode, né i compatrioti di Gesù, né i suoi nemici più accaniti, sembra negare che Gesù abbia compiuto prodigi.
Non gli viene contestata la sua attività di esorcista o di taumaturgo, ma l'autorità che rivendica basandosi su di essa.

2. Tre detti incontestabili di Gesù sui miracoli
Sono tre loghia di cui nessun esegeta in buona fede può mettere in dubbio l'autenticità e con i quali Gesù stesso indica il senso che dà alle sue opere miracolose.

1. Loghion sugli esorcismi
«Se io scaccio i demoni in virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio» (Mt 12, 28 = Lc 11, 20).
Alcuni indizi dell'autenticità del loghion:
- Il concetto di «regno» appartiene senza alcun dubbio alla primissima predicazione apostolica, detta kerygma primitivo.
- La presenza dell’«io» è tipica dello stile di Gesù.
- La coscienza di essere vincitore di Satana, di essere «più forte» di lui, è costitutiva del suo pensiero (cfr. Mc 3, 22-27).
- L'accusa di agire in nome di Belzebul non può essere stata inventata dalla comunità cristiana. Qui Gesù afferma chiaramente che inaugura i tempi messianici. Miracoli (Is 35, 5-6) ed esorcismi (Ger 31, 34; Ez 36.25), dovevano, infatti, «segnalare» la venuta del regno. Era anche convinzione comune dell'apocalittica che al momento della venuta del regno i demoni sarebbero stati incatenati. Gesù afferma addirittura che questa presenza efficace dello Spirito di Dio, del dito di Dio all'opera nel mondo è portata dalla sua stessa persona: lo! Rivendicazione di un potere che appartiene solo a Dio!

2. Invettive contro le città del lago
Gesù prende atto del rifiuto delle tre città poste sulle rive del lago di Tiberiade che non hanno saputo riconoscere, nelle sue guarigioni e nei suoi esorcismi, i segni della venuta del regno di Dio:
«Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza! (...) E tu, Cafamao, sarai forse innalzata fino al cielo?» (Mt 11, 20-24 = Lc 10, 13-15).
Alcuni indizi dell'autenticità di queste frasi:
- Il nome di Corazin non viene più citato nella restante tradizione evangelica.
- Il brano presenta molte caratteristiche tipiche dell'aramaico: parallelismo, uso del passivo divino, ritmo delle frasi, assonanza tra Betsaida e Sidone, più avvertibile in aramaico che in greco.
- Il testo riconosce l'insuccesso dei miracoli di Gesù. La Chiesa primitiva, che per la sua predicazione si basava sui miracoli di Gesù (At 2, 22; 10, 38), non aveva interesse a inventare questo passo!
Gesù afferma nuovamente che i suoi miracoli sono segni della venuta del regno: proprio per non aver voluto discernere il valore di questi segni, le tre città del lago non hanno ascoltato il suo appello alla conversione.

3. L'ambasciata di Giovanni Battista e la risposta di Gesù
«Andate a riferire a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza dì me» (Mt 11, 2-6 = Lc 7, 18-23).
Osserviamo anzitutto che un'ambasciata del genere è del tutto verosimile: «Frode temeva Giovanni e vigilava su di lui» (Mc 6, 20). Manaen, confidente di Erode, era stato compagno d'infanzia di Giovanni (At 13, 1); Giovanna la moglie di Cusa, amministratore di Erode (Lc 8, 2-3), faceva parte del gruppo di donne che seguivano Gesù (Lc 24, 10).
L'invio di due discepoli (Lc) corrisponde alla prassi dei maestri del giudaismo e dello stesso Gesù. Il numero due era destinato a salvaguardare il messaggio e a garantire la presenza di testimoni.
Alcuni indizi dell'autenticità del loghion:
- La comunità primitiva, che presentava Giovanni come colui che aveva apertamente «dato testimonianza» di Cristo (Gv 1, 7.15), non può aver inventato una domanda del Battista che mostra un serio dubbio nella sua fede: Gesù è proprio colui «che deve venire»?
- Il titolo cristologico che utilizza «Colui che deve venire» è un termine insolito sia nel giudaismo che nel cristianesimo dell'epoca.

Qui vediamo Gesù correggere l'idea che Giovanni si era fatta del Messia. Egli aveva annunciato «Colui che deve venire», come il figlio dell'uomo preconizzato da Dn 7,13, per operare il giudizio vendicatore di Dio. Occorre-va quindi convertirsi, aveva detto il Battista, per sfuggire al giudizio di Dio.
Ed ecco che Gesù, pur invitando a sua volta uomini e donne al perdono, offre loro per primo il suo perdono. Giovanni chiedeva la conversione per ottenere il perdono. Gesù offre il perdono, affinché l'uomo si converta. II contrasto è evidente.
Come Pietro di lì a un anno si scandalizzerà per l'annuncio di un Messia sofferente (Mt 16, 22-23), Giovanni qui è sconcertato dall'immagine di un Messia compassionevole.

3. I criteri di autenticità sono numerosi
1. La coerenza di questi racconti con lo stile abituale di Gesù:
- Gesù in essi si esprime con semplicità, sobrietà e autorità: una sola parola basta per guarire.
- Non ci sono prodigi punitivi: Gesù rifiuta la proposta dei figli di Zebedeo che chiedono che il fuoco del cielo si abbatta sulle città della Samaria che hanno rifiutato l'insegnamento del Maestro. Da notare che l'inaridimento del fico non è un castigo, inflitto a una persona, ma una parabola in azione (come nei profeti) destinata a far comprendere la colpevolezza della nazione giudea.
- Il contesto religioso dei miracoli: supplica del malato, invito alla fede e alla conversione.
- Nessuno «sfruttamento» del miracolo: Gesù chiede al miracolato di tacere.

2. La discontinuità di questi racconti con le concezioni giudaiche dell'epoca o la prassi della Chiesa primitiva
- Gesù compie i miracoli in suo nome (invece di invocare il nome di Dio, come fanno i profeti, o il nome di Gesù, come faranno gli apostoli).
- Guarisce alcuni lebbrosi toccandoli (nonostante il loro stato di impurità legale).

3. Le divergenze nei particolari dei racconti di numerosi miracoli e l'accodo di fondo
Vedi, per esempio, la guarigione del figlio del centurione in Matteo (8,5-13) e in Luca (7,1-10); nel primo, il centurione viene di persona incontro a Gesù; nell'altro, gli manda uno dei suoi amici. La storia ricorre costantemente a questo argomento. Una conformità troppo perfetta suscita diffidenza, men-tre un accordo sostanziale, nonostante certe divergenze, ispira fiducia.

4. L'impossibilità di spiegare la vita di Gesù nel suo completo svolgimento senza la presenza dei miracoli:
- L'esaltazione galilaica dei primi mesi.
- La sua reputazione di grande profeta presso le folle.
- La fede degli apostoli nel suo titolo di Messia.
- La decisione di eliminare Gesù presa dai sommi sacerdoti e dai farisei in seguito alla risurrezione di Lazzaro.
Possiamo quindi concludere che i racconti evangelici dei miracoli non so-no stati creati di sana pianta dalle comunità cristiane primitive, ma riporta-no fatti ben documentati.


GLI AUTORI PAGANI CHE PARLANO DI GESÙ
Si capisce l'interesse suscitato dallo studio di autori pagani che parlano di Gesù! Ecco degli uomini, si pensa subito, che devono parlarne con maggior obiettività, non avendo pregiudizi favorevoli nei suoi confronti.
In realtà, essendo i loro scritti di epoca relativamente tardiva, questi au-tori ci informano più sulle opinioni delle persone della loro generazione a riguardo di Gesù che su Gesù stesso. Gli unici autori che ce lo fanno conoscere da vicino sono i suoi discepoli... Per questo abbiamo voluto verificare con cura la sincerità delle loro testimonianze.
E tuttavia interessante passare in rassegna i principali autori pagani del II secolo che parlano di Gesù in base a quanto hanno sentito dire.
Nei suoi Annali, scritti intorno al 115, lo storico Tacito ricorda l'incendio di Roma sotto Nerone (nel 64) e le voci secondo le quali sarebbe stato l'imperatore stesso a farla incendiate. E continua: «Per mettere fine a queste voci, Nerone cercò dei colpevoli e inflisse le più crudeli torture a degli sventurati detestati per le loro infamie, che volgarmente erano detti cristiani. Questo nome viene loro da Cristo che, sotto il regno di Tiberio, fu condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato. Questa esecrabile superstizione, soffocata per il momento, non tardò a diffondersi nuovamente, non solo nella Giudea dove era nata, ma anche nella stessa Roma, dove affluiscono e crescono tutte le sregolatezze e tutti i crimini. Cominciarono col prendere quelli che si dicevano cristiani e poi, dietro loro deposizione, venne arrestata una moltitudine immensa che non fu convinta tanto di aver incendiato Roma quanto di odio del genere umano» (XV,44).
Poi Tacito racconta le torture inflitte ai cristiani e se ne indigna, ma il brano mostra che conosceva i cristiani solo per sentito dire e condivideva l'opinione comune.
Come poteva Tacito conoscere la storia di Gesù? Certamente tramite le Storie di Plinio il Vecchio che egli utilizza spesso come fonte. E Plinio il Vecchio aveva fatto parte dello stato maggiore di Tito, al momento della presa di Gerusalemme del 70.
Nella sua Vita di Nerone, scritta verso il 120, Svetonio - che aveva accesso agli archivi imperiali - conferma la testimonianza di Tacito: «Nerone ha fatto molto male ma non poco bene. I cristiani, seguaci di una nuova e malvagia superstizione, furono messi a morte» (XV,2).
Nella Vita di Claudio, scritta nello stesso periodo, Svetonio parla del decreto di espulsione emesso dall'imperatore nel 49 contro i giudei di Roma. «Claudio cacciò da Roma i giudei eccitati da un certo Chrestus, che si ribellavano continuamente» (XXXV,4). Questo testo conferma quanto dicono gli Atti degli Apostoli (18, 2): arrivando a Corinto nel 50, Paolo «trovò un giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei».
C'è infine una lunga lettera di Plinio il Giovane, proconsole in Asia Minore, lungo il Mar Nero, rivolta nel 110 all'imperatore Traiano per chiedergli consiglio sul modo di trattare i cristiani. C'erano state denunce a loro carico e aveva fatto arrestare alcune diaconesse, ma l'inchiesta non aveva rivelato niente di riprovevole: «Essi si riuniscono prima dell'alba, scrive, mangiano in comune, cantano un inno a Cristo come a un dio, si impegnano con giuramento a non essere più ladri, mentitori o adulteri». Ma i sacerdoti degli dei si lamentano: i templi vengono disertati e i mercanti di carne per i sacrifici non fanno più affari. Traiano risponde a Plinio inviandogli il primo rescritto ufficiale sui cristiani: non bisogna ricercarli, ma, se vengono denunciati e riconosciuti come cristiani, siano puniti. Tuttavia se qualcuno nega di essere cristiano e lo prova invocando gli dei, venga perdonato.
Notiamo di passaggio l'incoerenza di questa decisione imperiale che costituirà giurisprudenza fino a Costantino. I cristiani non sono criminali, per-ché non devono essere ricercati; ma se vengono condotti in tribunale e confessano la loro identità cristiana, vengano puniti!
Luciano di Samosata, che scrisse molti libelli e dialoghi satirici durante il suo soggiorno ad Atene tra il 165 e il 185, prende in giro i poveri cristiani che adorano «un sofista crocifisso» (Morte di Peregrino, 13).
Celso, filosofo pagano che vuole confutare le difese di alcuni suoi colleghi convertiti al cristianesimo (Aristide, Giustino, Taziano, Atenagora), non con-testa mai l'esistenza storica di Gesù di Nazaret. Nel suo discorso Contro i cristiani (178), Celso si limita a rimproverare a Gesù di essere nato in seguito a un adulterio , di aver fatto delle scelleratezze e di essere stato un agitatore.
La testimonianza dello storico Giuseppe Flavio è più controversa. Dopo essersi battuto contro i romani, questo generale giudeo, nato nel 37 d.C., si arrende a Vespasiano e passa dalla sua parte. Dopo la fine della guerra, si stabilisce a Roma, diventa cittadino romano, prende il nome di Tito Flavio Giuseppe e redige molti libri di storia. Il brano delle Antichità giudaiche che parla di Gesù sembra interpolato da un copista cristiano del secondo secolo: «A quell'epoca apparve Gesù, uomo saggio, se dobbiamo chiamarlo uomo. Poiché compì cose meravigliose, fu il maestro di coloro che accolgono con gioia la verità e convinse molti giudei e molti greci. Egli era il Cristo. Su denuncia dei capi della nostra nazione, Pilato lo condannò alla croce; ma i suoi fedeli non rinunciarono al loro amore per lui; il terzo giorno apparve loro risuscitato, come avevano annunciato i profeti divini, e molte altre meraviglie dicono di lui. Ancora oggi sopravvive la setta che, da lui, ha preso il nome di cristiani».


COME SAPPIAMO CHE LA BIBBIA È LA PAROLA DI DIO
I musulmani credono che il Corano sia la parola stessa di Allah. La perfezione poetica del Libro è per loro la prova che Maometto l'ha ricevuto direttamente dal cielo per mezzo dell'angelo Gabriele. Il profeta fu solo il segretario di Dio.
La convinzione dei cristiani riguardo la Bibbia è totalmente diversa. Anch'essi credono che Dio sia l'autore principale di questi «santi libri»; essi sono quindi «lettere d'amore» che Dio ha voluto scrivere ai suoi figli. Ma i cristiani sanno che i libri della Bibbia sono anche opera degli autori che li hanno scritti. Pur ispirando in maniera del tutto speciale il loro lavoro, Dio ha lasciato che quegli uomini si esprimessero con la loro mentalità e nel loro stile. Si spiega così l'estrema diversità di questi settantatré libri scritti nell'arco di oltre dieci secoli.
Come sappiamo che questi libri sono «parola di Dio»? Per mezzo della Chiesa. Chi non crede che la Chiesa ha ricevuto il potere di guidarci infallibilmente nelle cose importanti della fede non ha alcun motivo di credere all'origine divina della Bibbia. Ma la Chiesa come ha saputo che questo insieme di libri era parola di Dio? E molto semplice.
Per quanto riguarda l'Antico Testamento, la Chiesa non ha fatto altro che riprendere la fede del popolo ebreo, il pensiero di Gesù stesso sul carattere sacro dei rotoli che venivano letti nella sinagoga. Dopo il ritorno dall'esilio, più esattamente nell'epoca di Esdra, gli ebrei avevano preso l'abitudine di considerare come un tutt'uno i cinque libri della legge (Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio), i libri dei profeti e un certo numero di altri scritti, soprattutto la raccolta dei Salmi. E il sabato, nella sinagoga, legge-vano alcuni brani di questa Torah con la venerazione dovuta alla parola stessa di Dio.
Nelle assemblee liturgiche, i cristiani continuarono a leggere la Torah con immenso rispetto. Ma vi aggiunsero la lettura dei quattro vangeli, delle lettere di Paolo, di Giovanni, di Pietro, ecc., fino al giorno in cui si resero conto che questi libri dell'era apostolica erano molto venerabili, altrettanto sacri quanto le Sante Scritture degli ebrei. Presero allora a chiamare Nuovo Testamento questo insieme di libri cristiani e Antico Testamento l'insieme dei libri del giudaismo. Questa prima presa di coscienza avvenne verso la fine del II sec. d.C. e vennero raccolti in un unico volume l'Antico e il Nuovo Testamento.
Fu così che in quel periodo la Chiesa elaborò il catalogo ufficiale (o canone) del suo «Nuovo Testamento» rifiutando come «apocrifi» certi vangeli che secondo alcuni risalivano direttamente all'apostolo Pietro o Giacomo, ma che essa ritenne troppo «fantasiosi» per essere autentici.
Possiamo quindi dire che per oltre un secolo la Chiesa visse ignorando ciò che possedeva, cioè la «sua» Bibbia. Essa leggeva le lettere di Paolo, gli Atti degli Apostoli e i vangeli con molta venerazione, senza sapere ancora che erano parola di Dio nel senso stretto del termine, come i libri della Torah.
Naturalmente in questo capitolo dedicato allo studio del valore storico del Nuovo Testamento, abbiamo completamente lasciato da parte questo suo carattere sacro. Sarebbe un circolo vizioso, se avessimo voluto provare il valore storico della Bibbia basandoci sulla sua ispirazione divina. Per credere al carattere ispirato della Bibbia, bisogna infatti credere a Cristo e alla Chiesa. Ma come credere a Cristo e alla Chiesa, se non basandosi sui testi del Nuovo Testamento, considerandoli anzitutto semplici documenti storici che ci permettono di sapere cosa ha fatto, cosa ha detto e cosa ha voluto Gesù?

BIBLIOGRAFIA
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Postato il 4 febbraio 2012

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