30 giugno 2012

Tra bambacioni e facce di tolla

Come i dialetti hanno "cospirato" a comporre una lingua nazionale
di Gian Luigi Beccaria
Scriveva Foscolo nelle sue pagine Sul testo del “Decamerone” che «i dialetti diversi hanno perpetuamente cospirato a comporre una lingua letteraria e nazionale in Italia» (una lingua - proseguiva - «non mai parlata da veruno, intesa sempre da tutti, e scritta più o meno bene secondo l’ingegno, e l’arte, e il cuore più che altro degli scrittori»).
La lingua italiana si è immersa in un bagno generale di dialettalità, traendo man mano a sé uno stuolo di nuovi parlanti. È stato soprattutto l’italiano colloquiale e gergale ad arricchirsi di parole prese di peso dal dialetto. Per venire a tempi più vicini, penso soltanto alle romanesche del dopoguerra come abbozzare «subire, tacere», bambacione «persona tranquilla, pacioccone», tamarro «ignorante, burino», e un fracco di invece di «un sacco di», sfangare «cavarsela», una sleppa «un colpo», toppare «sbagliare» e tantissime altre.
Ogni regione ha contribuito di suo. Dal piemontese probabilmente arriva la locuzione, prima dialettale poi italiana, a bocce ferme, legata a un gioco diffusissimo nella nostra regione, dove a boce ferme vuole dire che bisogna aspettare che la boccia sia ferma prima di decidere di chi è il punto, che occorre cioè una situazione definita prima di pronunciarsi su chi ha il vantaggio. Dal milanese invece giunge l’espressione prendere una scuffia, cioè un’ubriacatura (a meno che non derivi dalla «scuffia» della barca che si capovolge). Ancora dai dialetti settentrionali viene tolla «latta», in faccia di tolla, presente da lunga data nei gerghi.
Nella nostra regione tanti modi di dire dialettali sono quasi scomparsi. Io avevo poca predisposizione per i lavori manuali (in casa se la cavava meglio mio fratello), e ricordo che di un qualche lavoretto domestico mal riuscito mio padre diceva che era un travai del pentu, «del pettine». Lessico familiare… Ho appreso in seguito che l’espressione risaliva al napoleonico regno d’Italia, quand’era in circolazione una moneta di scarso valore che portava sul recto la testa imperiale e sul verso una corona che a prima vista sembrava un pettine!
Oggi dei dialetti stiamo quasi perdendo le tracce, e chi li ama teme il giorno, anche se lontano, in cui saranno pochi a parlarlo. Le nuove generazioni, salvo eccezioni, lo conoscono ogni giorno sempre di meno. Eppure si dice che il dialetto sia più espressivo. Non è vero. Ma è comunque di largo uso familiare e affettivo. Fa un piacevole effetto sentir chiamare (cito il Varesotto, tanto per fare un esempio) scigulín «cipollino» un bambino tondo e grazioso. Con tutto ciò sappiamo bene che il dialetto accanto ai vantaggi procede con tanti freni. In dialetto non si può dire «amore mio», o «tesoro» (anche se in siciliano puoi dire a un piccolo «fiato del mio cuore»). Nessuno direbbe mai in dialetto, né si potrebbe, «sono innamorato» (tantomeno «follemente») «di te» e simili.
«La stampa - Tuttolibri» del 9 giugno 2012

Internet la democrazia necessaria

di Juan Carlos de Martin
Sul rapporto tra Web e democrazia si è scritto e detto molto, a partire da Obama 2008 per arrivare ai successi del Movimento 5 Stelle in Italia e del Partito Pirata in Germania. È stata una discussione spesso poco produttiva. Un anno fa , ad esempio, in molti criticarono la tesi che Twitter e Facebook avessero direttamente causato la Primavera araba.
Peccato, però, che nessuno di serio sostenesse tale tesi. Come è chiaro, infatti, anche al più entusiasta fan dei social network, tali strumenti sono facilitatori di determinati movimenti sociali, non certo cause prime. Per non parlare del fatto che Twitter e Facebook possono anche essere usati a fini di sorveglianza, delazione e propaganda. Insomma, un ruolo complesso, impossibile da ridurre a formule semplicistiche né in un senso (Internet non conta nulla) né nell’altro (Internet provoca rivoluzioni).
Più di recente, parlando di Movimento 5 Stelle e di Partito Pirata, si è diffusa una posizione anch’essa, a mio avviso, di scarsa utilità analitica: “la democrazia non può ridursi a Internet”, spesso accompagnata da allusioni a presunti pericoli della Rete. Di nuovo, tutti d’accordo: ovvio che la democrazia non possa ridursi a Internet. Ma proprio per questo, osservazione poco utile.
Molto più fruttuoso porsi, invece, la domanda: Internet, mezzo di comunicazione con aspetti oggettivamente diversi rispetto alle tecnologie precedenti (telefono, radio, TV), quale ruolo può avere nella democrazia di inizio 21° secolo? Più specificamente, quale ruolo nel plasmare le interazioni tra Stato e cittadini? Quale ruolo nel rendere possibili partiti diversi dagli attuali? Quale ruolo nello strutturare nuove e più efficaci forme di dialogo tra eletti ed elettori? Quale ruolo nel dar forma a una sfera pubblica migliore, non solo a livello locale e italiano, ma anche europeo e globale? Il tutto - e così prevengo un’altra osservazione piuttosto diffusa - tassativamente non in alternativa alle forme pre-esistenti di interazione - di persona e tramite i media tradizionali - ma al fianco di esse, in costante arricchimento reciproco.
Sono queste alcune domande chiave se vogliamo parlare di Internet e democrazia. E sono domande a cui è terribilmente difficile dare risposta perchè, data la potenza di Internet, ci impongono - se si vuole essere seri - un ripensamento radicale di come strutturare, per esempio, un partito politico. Prendiamo proprio il partito come caso di studio: con Internet a disposizione (oltre a sedi fisiche, volantini, eccetera), nel 2012 come faremmo un partito politico se potessimo partire da zero? Domanda che non significa affatto, come a volte qualcuno sembra credere, voler intaccare la dignità dei partiti, ne’ men che meno ignorare la loro storia o la mole di conoscenze disponibili sull’argomento, anzi. Significa porsi onestamente la domanda di come sarebbe ottimale strutturare un partito avendo a disposizione una tecnologia che consente, con bassi costi e grande intuitività, di mettere in contatto - in tutti i modi: uno-a-uno, unoa-molti, molti-a-molti - militanti e dirigenti, eletti ed elettori, simpatizzanti e iscritti, partito e altri partiti, partito e istituzioni, eccetera. Per scambiare informazioni, per discutere, per educare, per decidere, per raccogliere fondi. Significa chiedersi seriamente cosa conservare e cosa buttare della forma partito attuale; cosa tenere identico e cosa mutare poco o tanto. Perchè è chiaro a chiunque conosca la Rete che il potenziale di miglioramento rispetto alla situazione attuale è molto grande.
Fatta questa analisi, sulla forma partito come sugli altri aspetti Internet e democrazia, il resto (software incluso) segue. Ma è un’analisi ardua, sia per le difficoltà concettuali che pone, sia per le ovvie resistenze dell’esistente, che non ama mai farsi mettere in discussione, soprattutto se il cambiamento rischia di toccare la mappa del potere. Una sfida impegnativa. Tuttavia i primi che l’affronteranno con serietà si ritroveranno in mano i mattoni con cui verrà costruita la democrazia dei prossimi decenni. Superiamo dunque le reazioni istintive, che ci lasciano in superficie, e concentriamo le energie a progettare il futuro. E’ un compito particolarmente rilevante per le forze politiche che sinceramente credono nella democrazia: se non si guadagneranno la guida del cambiamento, infatti, saranno - per legge inesorabile della politica - altri a farlo. Col rischio che questi altri usino la Rete più per cementare il proprio potere che per favorire lo sviluppo di una democrazia più compiuta di quella attuale. E’ un rischio che non possiamo permetterci di correre. Per cortesia, dunque, mettersi intorno alla lavagna coi computer sulle ginocchia: c’è molto da pensare, c’è molto da fare.
«La stampa» del 25 giugno 2012

Epigramma, ovvero l'antenato di Twitter

Da Pierre Laurens la storia di un genere
di Armando Torno
Un autore latino del primo secolo della nostra era, conoscitore di uomini, sapido oltre che puntuto, a volte osceno comunque sempre sincero, ha scritto: «Avrai sempre soltanto ciò che avrai donato» («Quas dederis solas semper habebis opes»). Era il celebre Marziale. La citazione è tratta dal quinto libro dei suoi Epigrammi.
Cos'è un epigramma? Qualcuno potrebbe rispondervi: un'iscrizione. In greco, d'altra parte, significa proprio questo. Altri gradirebbe aggiungere: all'inizio aveva un carattere funebre, in seguito si trasformò in un carme di argomento vario. Un terzo interlocutore dirà che il tempo lo aiutò a conquistarsi una sua libertà, tanto da diventare, incalzato dall'ispirazione, persino qualcosa di fuggevole. Racchiudeva nella sua sintesi un amore, una dedica, oppure celebrava un evento. Diventò un genere quasi senza accorgersi, grazie a poeti e politici, storici e osservatori dei costumi.
Oggi è possibile ripensarlo, seguirne la storia, scrutarne l'influenza nelle diverse epoche grazie a un'opera di Pierre Laurens, professore emerito alla Sorbona. Ha scritto L'Abeille dans l'ambre, ovvero L'Ape nell'ambra, un magnifico saggio che esamina appunto l'avventura dell'epigramma in un arco di tempo che va dall'epoca alessandrina alla fine del Rinascimento (Les Belles Lettres, pp. 720, 59). Un lavoro monumentale che ebbe una prima edizione nel 1989 e ora è stato rivisto, aggiornato, arricchito di nuovi capitoli, registrando ultime scoperte e ulteriori discussioni. Un libro uscito dalla penna di uno studioso che ha lavorato a lungo su autori quali Petrarca, Marsilio Ficino o Gracian, che conosce come pochi la poesia latina della Rinascenza (ne ha curato una raccolta in 2 volumi da Brill, a Leida, nel 1975). Da lui tradotto e annotato, tra l'altro, è appena uscito il X libro dell'Antologia Palatina nella collezione greca delle Belles Lettres.
Laurens parte dalle pietre e giunge ai libri, indaga i rapporti tra l'epigramma e l'idillio o tra questo genere e i testi delle commedie antiche. Si muove con la disinvoltura del conoscitore capillare, esaminando una letteratura vastissima. Tiene conto delle tecniche dei retori, ma si sofferma anche su Platone o Seneca, sulla «pantera profumata», allegoria indicante la poesia (questa fiera si credeva avesse la bocca olezzante, tanto da lasciare una scia dei suoi spostamenti). Una parte la dedica agli aspetti iconografici, tra i quali si ritrova l'epigramma che si evolve con illustri personaggi del XVI secolo: Giulio Cesare Scaligero, Teodoro di Beza, Andrea Alciati con gli Emblemata. E troppi altri del capitolo «Picta poesis», dove si riflette sulla «poesia muta»; così almeno Leonardo chiamava la pittura.
L'epigramma diventa in queste pagine specchio di epoche, generi, dimensioni; anche i filosofi ne furono contaminati e aiutarono a scriverne la storia accanto a personaggi che il tempo ha scolorito. Il saggio di Laurens riporta alla luce un mondo che qualcuno crede esiliato sulle lapidi o perso nei versi. Ma più che una storia nel senso tradizionale del termine, il libro restituisce le riflessioni che si sono accumulate sull'epigramma, ne coglie le arguzie, si chiede come possa scaturire dalle poche parole di cui è fatto - la caratteristica più evidente - quella forza comunicativa che conserva nel tempo. Si ricerca, insomma, il segreto di questo micro poema del quale «la forma è la brevità e l'anima è l'acutezza» (Scaligero).
Che senso ha oggi una simile indagine? L'epoca che studia Laurens, in cui si distinguevano l'epigramma semplice dei Greci e di Catullo o quello doppio di Marziale, ha lasciato al presente le forme del genere, non i desideri creativi né i riferimenti estetici. La nostra sensibilità corre altrove e, a volte, scimmiottiamo la grazia di Simonide o le emozioni degli alessandrini - Nosside, Leonida di Taranto, Filippo di Tessalonica, Meleagro di Gadara e altri da cercare nell'Antologia Palatina - affidando messaggi alla Rete per comunicare in fretta. Non abbiamo l'ambizione di ricreare la dolce violenza amorosa di Catullo, né le geniali espressioni retoriche di Marziale, ma gli sms dei telefonini o Twitter, con il limite dei 140 caratteri, sono il surrogato che la sorte ci assegna. Accontentiamoci di questi nostri lacerti.
«Corriere della sera» del 20 giugno 2012

I sedicenni sarebbero ignoranti? Una leggenda tutta italiana

di Pietro Citati
Credo che i sedicenni o diciottenni, che frequentano i licei italiani, siano calunniati sui nostri giornali. Dovunque leggiamo che non hanno letto libri, e che non sanno scrivere in italiano: mentre si dà per inteso che le generazioni anteriori conoscessero molti libri e scrivessero decorosamente. Credo che sia una sciocchezza, come tutte quelle che paragonano, in generale, l'intelligenza e la cultura delle diverse generazioni.
La mia esperienza è diversa. Ogni tanto, per una ragione o l'altra, obbedendo a questa o quella curiosità, mi vengono a trovare dei ragazzi o dei giovani. L'ultimo è venuto pochi giorni fa. Aveva sedici anni. Abitava in un paesone degli Abruzzi non lontano da Pescara. Parlava con eleganza, precisione e leggerezza, senza nemmeno una traccia di profumo dialettale. E, via via che il discorso superava la sua naturale timidezza, mi sono accorto che aveva letto moltissimi libri: molti più di quelli che, nel lontano passato, avevo letto io alla sua età. Non erano libri comuni, raccomandati a scuola, o conosciuti da tutti. Erano libri rari. Per esempio, mi disse che amava i saggi di Mario Praz: libri che, oggi, non pochi anglisti di quaranta o cinquant'anni non hanno mai sentito nominare.
Credo che il ragazzo abruzzese abbia molti affini. Un mio amico, che insegna in una università degli Stati Uniti e alla Sapienza di Roma, mi dice che la ignoranza e la mediocrità degli studenti italiani è una leggenda. Tra i suoi studenti, quelli di Roma posseggono spesso un'intelligenza più sottile e una cultura più rara. Insieme a loro, tiene seminari con molto profitto. Solo che, come tutti sappiamo, mentre gli anni passano, i suoi eccellenti studenti romani restano a casa, senza lavoro e senza stipendio.
«Corriere della sera» del 26 giugno 2012

Il Cnr distratto sulla cultura umanista

di Tullio Gregory
Il Cnr ha pubblicato il «Documento di visione strategica» per il prossimo decennio: documento importante nelle sue scelte e raccomandazioni, redatto da una commissione - nominata dal ministro Profumo - composta di 16 membri, dei quali due stranieri. In larga maggioranza autorevoli esperti delle cosiddette scienze dure, con un solo rappresentante delle scienze filologiche, storiche, filosofiche, Michel Gras, studioso francese di primo piano nel campo della ricerca archeologica: di questo «equilibrio imperfetto» il documento porta le conseguenze, come si vedrà.
Poiché il presidente Nicolais, presentando il Documento, ha auspicato che si apra un dibattito, cerchiamo qui di avviarlo.
Tra le proposte molto positive e innovative mi sembra da segnalare l'istituzione di Scuole internazionali di dottorato presso i Dipartimenti e le aree di ricerca Cnr: si avrebbero finalmente scuole con corsi regolari, di alta specializzazione, con laboratori e biblioteche, cosa che avviene raramente nelle università dove i dottorandi sono per lo più abbandonati a se stessi, al massimo affidati a un tutor, senza corsi regolari.
Molto spazio è giustamente dato alle tecnologie informatiche e al trasferimento tecnologico. Ma quando si passa alla definizione delle aree tematiche (differentemente presentate nel Documento e nella I appendice) ci si trova innanzi a un elenco piuttosto disordinato di buone intenzioni, di saggi consigli, che prescindono del tutto dal bilancio del Cnr (la spesa per le iniziative proposte non è mai quantificata) e soprattutto sembrano ignorare le ricerche in corso presso i vari Istituti. Siamo di fronte a programmi che potrebbero trovare forse spazio in una rinata Casa di Salomone, di baconiana memoria.
Già qualche perplessità desta la serpeggiante insofferenza per la ricerca di base, riconosciuta come caratteristica del Cnr, insistendo piuttosto sul rapporto con il mondo dell'impresa, che è come dire vincolare la ricerca a commesse esterne per un immediato utile economico, mettendo in crisi quelle attività che garantiscono il progresso del sapere, come già era posto in evidenza dal panel generale di valutazione.
In questa prospettiva non stupisce l'emarginazione delle discipline umanistiche: in tutto il Documento di 63 pagine, i cenni a queste discipline (accorpate nell'ambigua dizione «scienze sociali e umane e patrimonio culturale») se fossero raccolti tutti insieme non occuperebbero più di una pagina; delle stesse discipline si torna a parlare nella I appendice, occupando due pagine su quindici complessive. Si aggiunga che in tutto il Documento sono ignorate le ricerche storiche, filologiche, filosofiche, la cui presenza nel Cnr e il cui valore sul piano internazionale era stato messo in evidenza dal panel di valutazione dell'ente collocando al vertice, su 107 istituti, proprio i due istituti che svolgono ricerche in questo campo. Dato del tutto ignorato nel Documento che pur utilizza, per altri settori, le valutazioni del panel.
Peraltro, quando definisce le aree tematiche, il Documento propone per le scienze economiche, sociali e umane e il patrimonio culturale (inserite nell'area intestata alla «sicurezza e inclusione sociale») temi di una genericità significativa: «innovazioni sociali creative», «lotta contro il crimine e il terrorismo», «libertà di accesso a Internet», «sensori per stati di crisi», «coesione sociale», «pace», «legalità e sicurezza», «la rappresentazione dei beni», «l'eredità storica», «le strategie territoriali». Il tutto servito con affermazioni di assoluta ovvietà: «il patrimonio culturale va valorizzato», «il patrimonio culturale immateriale va incrementato».
Né maggiore chiarezza troviamo nella I appendice, dedicata alle aree tematiche, ove - ancora una volta ignorando settori di ricerca nei quali l'ente ha posizioni di prestigio - si indicano alcune priorità: per il patrimonio culturale, «conoscenza approfondita dei litorali», «turismo planetario, «miglioramento della rappresentazione e dell'immagine dei beni culturali, in relazione soprattutto alla persona umana e alla natura». Per le scienze sociali e umane le priorità sono: «cambiamenti demografici», «coesione sociale e culturale, legalità e sicurezza», «competitività del sistema economico», «pace», «pensare il futuro della città». Affermazioni tutte che si commentano da sole per la loro banalità.
Come spiegare questa disattenzione del Documento per le discipline umanistiche senza riaprire un inutile dibattito - del tutto privo di senso - sulle cosiddette due culture? Semplicemente ricordando l'endemica indifferenza, a volte diffidenza, di larghi settori del Cnr verso le discipline umanistiche (ammesse nell'ente cinquanta anni orsono) che, come ho avuto altra volta occasione di ricordare, sono state recentemente «compresse» dal nuovo CdA del Cnr in un unico Dipartimento, così da mettere insieme l'archeologia micenea con il diritto privato europeo, la psicologia con il restauro, la filologia classica con la sociologia industriale. Va anche riconosciuto che la prospettiva del Documento non differisce dalla politica del Miur e del Cipe (come si rileva anche dal Piano nazionale della ricerca 2011-2013), espressione del più miope aziendalismo, tutto volto al prodotto (tanto caro all'Anvur) vendibile sul mercato e valutabile con criteri «quantitativi» (oggi ampiamente criticati da tutte le grandi istituzioni scientifiche europee); di qui l'emarginazione della ricerca di base, scientifica e umanistica, e più ancora di una cultura che crei valori, non commerciabili ma essenziali per la crescita della società civile. Dimenticavo: il Documento auspica l'avvento di apostoli specialisti di «analisi bibliometriche» per «posizionare la ricerca del Cnr nell'ambito europeo ed internazionale»; per i direttori scientifici di dipartimenti e istituti richiede «esperienze gestionali e manageriali», come vuole l'Anvur per i professori universitari, con i noti risultati.
«Corriere della sera» del 27 giugno 2012

Non si avvera la profezia di Calvino: l'hardware si prende la rivincita

di Massimo Sideri
Da tempo la profezia di Italo Calvino sul primato del software rispetto all'hardware sembrava essersi compiuta. La «Leggerezza» aveva vinto anche sulla modernità. Scriveva Calvino nel 1985 in quell'opera che sarebbe stata pubblicata postuma con il titolo Lezioni americane: «È vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine».
In questi ultimi cinque anni - dalla graduale comparsa e diffusione di smartphone e tablet - la guerra dei sistemi operativi (iOs della Apple, Android di Google e Windows Mobile della Microsoft) si è spinta addirittura oltre la profezia: l'industria tecnologica si è concentrata sempre di più sui software trasformando l'hardware in una semi-commodity da lasciare produrre a qualche azienda asiatica o, come nel caso della Apple, da assemblare nelle nuove fabbriche del XXI Secolo di Shenzhen, grandi come città e dure come un nuovo Far West sindacale. Ora il paradigma della nuova industria sembra avere fatto un passo indietro. Una decina di giorni fa la Microsoft, dopo una serie di rumor, ha ufficializzato l'arrivo di un proprio tablet battezzato Surface. L'altro ieri è stata la volta di Google che ha lanciato il Nexus. Un anno fa era toccato ad Amazon con il Kindle Fire. Tutti, più o meno, all'inseguimento dell'iPad. Ma, ciò che più conta, tutti e tre uniti dalla medesima logica: mettere il brand e il logo dell'azienda su qualcosa di «fisico» e non solo su software immateriali che viaggiano sul web.
Scriveva sempre Calvino nella prima lezione: «La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d'acciaio, ma come i bits d'un flusso d'informazione che corre sui circuiti sotto forma d'impulsi elettronici». Appunto. Sembra quasi che improvvisamente l'industria tecnologica si sia spaventata di fronte alla propria digitalizzazione pura affidandosi alla pesantezza dell'hardware per riemergere da un mondo fatto solo di bit.
«Corriere della Sera» del 29 giugno 2012

Poincaré, la sublime imperfezione che porta alla verità

La ricerca scientifica procede sempre per errori
di Cédric Villani
Cento anni fa si spegneva Henri Poincaré, «primo matematico di Francia e del mondo», come si diceva in Francia, e anche nel resto del mondo.
Borghese tranquillo e grassottello, miope come una talpa, ha fatto comunque sognare, grazie al forte vigore della sua mente, gli uomini dei secoli a venire. Poincaré non era soltanto un grande matematico; era anche un grande fisico, un grande astronomo, un grande ingegnere, un grande filosofo, in una parola un grande uomo universale, consultato in tarda età come un oracolo, e su qualsiasi argomento. Simbolo della forza e dell'unità del pensiero umano, fragile e prezioso, sul quale Poincaré ha scritto pagine mirabili: «Il pensiero non è che un lampo nel mezzo di una lunga notte, ma è un lampo che significa tutto».
Poincaré s'interessava a tutto, imparava tutto, rivoluzionava le teorie matematiche e fisiche, vedeva tutto in grande. Non stupiamoci, dunque, che commettesse anche dei grossi errori! In fondo, solo i morti non fanno errori; e Poincaré non era di quelli che preferiscono concentrarsi su enunciati prudenti e poco impegnativi che non hanno neanche il merito di essere falsi.
Il suo errore più celebre, quello che illuminerà a lungo la leggenda delle scienze, l'ha commesso studiando il problema dei tre corpi. Perché tre corpi? Perché, da Newton in poi, si sapeva risolvere il problema di due corpi in interazione, ma non quello di tre corpi, o di quattro corpi, o di qualsiasi altro numero ancora maggiore di corpi. Prendete due corpi, due masse: la Terra e il Sole, per esempio; prescindete da tutto il resto dell'universo e calcolate il loro movimento servendovi delle equazioni di Newton. La soluzione è presto trovata: la Terra disegna una meravigliosa ellisse attorno al Sole, una traiettoria semplice ed elegante, scoperta già molti millenni fa dai matematici greci, ben prima che si venisse a conoscenza di una Terra orbitante - e riscoperta dall'astronomo tedesco Johannes Kepler ancor prima che Newton avesse compreso l'attrazione gravitazionale.
Con due corpi, abbiamo dunque una bella ellisse, stabile all'infinito, che si perpetua fino alla fine dei tempi. Ma se consideriamo gli altri corpi, gli altri pianeti, che cosa accade? Dopotutto, se la Terra è attratta irresistibilmente dal Sole, è anche influenzata da Giove, Marte e da tutti gli altri pianeti più lontani. Certo, sono influssi che non hanno gran peso rispetto alla formidabile attrazione esercitata dal Sole, ma non potrebbero turbare l'equilibrio della bella macchina?
La Terra continuerà a girare per sempre attorno al Sole, o un giorno finirà per entrare in collisione con un altro pianeta? A partire dal momento in cui consideriamo l'influsso del terzo astro, siamo perduti, non sappiamo più che cosa rischia di prodursi; e, quel che è peggio, nel sistema solare ci sono 9 o 10 pianeti! Ma cominciamo con i tre corpi, e cerchiamo la risposta nel cuore delle equazioni. Stabilità o instabilità?
A 35 anni, per concorrere al premio per le matematiche offerto dal re Oscar di Svezia, Poincaré studiò il problema dei tre corpi, sebbene in una versione ancora lievemente semplificata.
Un problema che lo appassionava - lui che amava osservare il mondo circostante solo per ricavarne le leggi costitutive. Un problema che gli fece superare se stesso! La giuria non stentò a riconoscere lo stile del giovane matematico francese in quel manoscritto anonimo che traboccava di idee nuove dai nomi originali, e che dimostrava la stabilità in modo tanto elegante. Poincaré vinse il primo premio per alzata di mano.
L sua relazione non era comunque perfetta. Tutt'altro. Quante incertezze, imprecisioni, ambiguità nella dimostrazione di Poincaré! Nulla di sorprendente - tutti sapevano che il geniale matematico non era un modello di chiarezza.
Stesura ellittica, asserzioni ingiustificate, digressioni pedagogiche che interrompevano il ritmo del discorso; erano difetti del tutto familiari ai lettori di Poincaré.
I suoi articoli ribollivano di idee, ma la verifica di quelle idee non risultava affatto agevole, e nessuno rimase sorpreso dal lungo elenco di osservazioni preparato da Phragmén, il giovane e talentuoso assistente incaricato della pubblicazione del manoscritto di Poincaré.
Poincaré corresse tutto ciò che poteva, fino a sentirsi convinto di aver ripreso il controllo di tutto. Un manoscritto ben costruito, un edificio inattaccabile!
Eppure, una delle lucertole che Phragmén aveva scovato all'interno del monumento si mise a tormentare Poincaré più del lecito. Finché un giorno egli non dovette arrendersi all'evidenza: era tutto sbagliato! La crepa si era ingrandita fino a formare una voragine che comportava il crollo dell'intero edificio del teorema!
Ma Poincaré aveva già ricevuto il premio, le onorificenze e il denaro, il suo articolo era pubblicato, era una celebrità mondiale. Che pressione terribile sulle spalle del giovane matematico! Che fare di quella prova infetta?
Prima di tutto, non diffondere l'infezione - e l'editore riuscì a riavere indietro tutte le copie dell'articolo pubblicato. Meno male che Internet non esisteva ancora! Fu possibile recuperare tutto e distruggere tutto. La faccenda costò cara a Poincaré, ma era in gioco la sua reputazione. E poteva fare di nuovo lavorare il suo potente cervello.
E... incredibile! Poincaré riuscì a riparare tutto quanto. Certo, con una differenza di spessore: la sua conclusione, cambiando totalmente, aveva messo il dito sulla difficoltà maggiore, e scoperto come nella bella meccanica cosmica, retta da equazioni impeccabili e precise come orologi, potesse prender vita l'instabilità.
Equazioni più esatte del più preciso orologio svizzero, ma così sensibili alle condizioni iniziali che le predizioni ultime possono essere modificate da un granello di polvere, dal battito d'ali di una farfalla, come si dirà in seguito. Viene in aiuto a Poincaré un altro francese, Jacques Hadamard, e i due devono per forza constatare che la perfezione kepleriana ha lasciato il posto a una sublime imperfezione, ricca e piena di possibilità.
Come Cristoforo Colombo che intoppò per sbaglio nel continente americano, Poincaré scopre un nuovo continente scientifico, un mondo imperfetto e caotico, le cui leggi, anche se rimangono deterministiche, conducono a comportamenti imprevedibili, comprensibili ormai solo sotto il profilo statistico. (...)
L'imperfezione ci è familiare. Ci bagniamo nell'imperfezione, siamo i figli dell'imperfezione, le dobbiamo tutto. È l'imperfezione della riproduzione che ha permesso l'evoluzione delle specie; centinaia di milioni di mutazioni, forse, a partire dell'invenzione del batterio, che fa di noi ciò che siamo; selezionati dal nostro stesso sovrappopolamento, di errore di trascrizione in errore di trasmissione.
Come cantava la cantante di protesta Mama Bea Tekielski, «Siamo il risultato di un'equazione sbagliata». Per fortuna! L'imperfezione, statutaria e salutare, è la nostra forza; se fossimo tutti perfetti, saremmo condannati.
La variabilità genetica è la nostra migliore risorsa nei confronti del mondo biologico, così mutevole e così minaccioso. E dà luogo a mescolanze così meravigliose.
L'imperfezione la ritroviamo in tutto ciò che facciamo.
Nelle lingue, la cui favolosa diversità è il frutto di innumerevoli sbagli di traduzione, errori di ortografia e di grammatica, alterazioni e pronunce erronee, cattivo latino cristallizzato in un buon italiano, dialetti incerti travolti da inflessioni tenaci, e centomila storie di errori consolidati che contribuiscono a formare la nostra torre di Babele.
L'imperfezione è anche, ovviamente, acquattata in tutti i nostri programmi informatici, sempre più faraonici, di cui nessuno riuscirà a debellare tutti i bachi...
Ed è acquattata nelle nostre realizzazioni tecnologiche, condannate a vivere con i loro intrinseci errori d'impostazione, che nessun progresso potrà emendare - come le nostre macchine da scrivere, dotate in modo ridicolo, e forse per sempre, di una tastiera dalla disposizione assurdamente inefficace.
E il pensiero, quell'illuminazione di cui tutti andiamo fieri, è forse perfetto?
Mi viene da ridere! Che confusione è mai il pensiero umano! Ha creato il ragionamento matematico, perfetto nella sua forma e nella sua logica, solo con uno sforzo enorme.
Ma non è qui la sua essenza originaria. Poincaré l'ha spiegato molto bene analizzando alcune delle sue scoperte più magistrali: le associazioni d'idee, spontanee e incomprensibili, che subentrano ai periodi di riflessione cosciente, in un caos imprevedibile come quello previsto dalle sue teorie fisiche. Anche i grandi matematici devono far leva sull'irrazionale. E, contestualmente, sono esposti a errori. Anche i matematici migliori, com'è il caso di Poincaré. A volte commettono due errori alla volta, errori che hanno il buon gusto di annullarsi a vicenda. Come accadde a Galileo quando descrisse la traiettoria di una palla di cannone; o, a volte, più drammaticamente, se la devono vedere con tre errori, i quali si rafforzano l'un l'altro, come accadde a Lord Kelvin quando calcolava l'età della Terra. E si potrebbero moltiplicare esempi e controesempi.
Non c'è però nulla di tragico; nel campo del pensiero umano, come in quello delle lingue e in quello della biologia, la possibilità di errore è una fortuna, perché da essa scaturirà l'inatteso e qualche volta il sublime!...
(Traduzione di Sergio Arecco)
«Corriere della Sera» del 29 giugno 2012

Geni & universo, un nuovo Tommaso?

di Andrea Galli
Il problema della separazione tra sapere scientifico e riflessione teologica è uno dei temi che stanno più a cuore a Michael Heller, sacerdote e illustre cosmologo nato nel 1936 a Tarnow, in Polonia, membro della Pontificia accademia delle Scienze e della Specola vaticana. Insignito del premio Templeton nel 2008, Heller ha devoluto la somma di denaro ricevuta (un milione e seicentomila dollari) al nuovo Centro Copernico per gli studi interdisciplinari di Cracovia, che ha la scopo di formare personalità che sappiano superare lo iato tra fede e scienza.
E sempre da questo punto dolente prende avvio la stimolante intervista che ha rilasciato a Giulio Brotti, pubblicata dall’editrice La Scuola (Dio e la scienza) e anticipata ieri da "Avvenire". «Se la conoscenza scientifica è impresa di verità – ed in buona parte lo è, al di là delle inevitabili incompletezze del formalismo scientifico – non può essere ignorata o ridimensionata, semplicemente perché non si sa maneggiarla». Così Giuseppe Tanzella-Nitti, ordinario di Teologia fondamentale alla Pontificia Università della Santa Croce, oltre che ideatore del miglior portale in Italia su scienza e fede, Disf.org, commenta le dichiarazioni di Heller. «Si tratta di una preoccupazione che condivido e di cui ho parlato più volte con Heller, in diverse occasioni. La necessità di un dialogo più fruttuoso fra teologia e pensiero scientifico fu percepita con chiarezza da Giovanni Paolo II e, con linguaggio diverso, è stata espressa a suo tempo anche da Joseph Ratzinger, adesso da Benedetto XVI».
Gianfranco Basti, decano della facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, dove insegna Filosofia della scienza, nota che «è rinascente, purtroppo, nelle nostre istituzioni accademiche ecclesiastiche una certa insensibilità – dopo il felice periodo degli scorsi vent’anni – verso la ricerca e la pratica scientifica, come se si potesse parlare sensatamente di scienza da parte di filosofi e teologi, senza aver mai, non dico fatto ricerca scientifica, ma neanche collaborato ad un progetto di ricerca scientifica, come invece il sempre più sterminato e multiforme campo della cosiddetta interdisciplinarietà oggi richiede, ma dove le nostre facoltà e istituti ecclesiastici, filosofici e teologici, sono sempre depressivamente assenti».
E sul rischio segnalato dallo scienziato polacco, ovvero che «una teologia disinteressata alle acquisizioni della scienza possa auto-relegarsi ai margini della vita culturale, in un futuro non distante», Basti è tranchant: «Credo che qui Heller pecchi di ottimismo: tutto questo già sta avvenendo sotto i nostri occhi. Quel futuro è già presente. Il grido di dolore di Heller verso una teologia e anche una filosofia delle nostre facoltà ecclesiastiche, fortemente tentate di ripiegarsi su se stesse a "parlarsi addosso" deve farci riflettere. Soprattutto perché le sfide oggi vengono non tanto dalla vera scienza e dai veri scienziati, ma dalla falsa divulgazione scientifica.
Si pensi, per esempio, allo sciocchezzaio mediatico su temi di cosmologia e di genetica di cui vengono sistematicamente nutrite le nostre famiglie, grazie alla televisione. Ma non saper distinguere fra falsa divulgazione scientifica e vera scienza è sintomo di quella mancanza di cultura scientifica che affligge l’Italia, e che è una delle cause del nostro declino, anche economico. Il fatto che, allora, in Italia, sempre gli stessi imbonitori laicisti tengano banco sui media quando si parla di scienza dipende anche e forse soprattutto dalla grave latitanza di pensatori cattolici in grado di porsi autorevolmente a fare da interfaccia fra laboratori e accademia scientifica, da una parte, e opinione pubblica dall’altra».
Registrata la spaccatura, altra questione è però l’impianto filosofico sui cui fare leva per superarla. Tanzella-Nitti ci tiene a sottolineare un fraintendimento in cui sembra cadere il cosmologo polacco: «Dobbiamo ricordare che Aristotele non è Tommaso, né il superamento della fisica aristotelica, al quale Heller fa riferimento nel passaggio in cui ricorda la nascita del metodo scientifico, vuol dire superamento della metafisica o della filosofia della natura. Le scienze della natura si poggiano implicitamente su una filosofia della natura e quest’ultima si poggia implicitamente su un’ontologia.
È probabilmente questo, ridotto all’osso, il suggerimento di Maritain ed è quello che Tommaso stesso ricorderebbe se potesse parlare il linguaggio dei nostri tempi. Il teologo ed il filosofo possono imparare molto dagli uomini di scienza, ma al tempo stesso possono anche aiutarli a riconoscere quella filosofia implicita senza della quale la scienza stessa non potrebbe lavorare. La scienza del XX secolo lo ha confermato, quando essa torna a percepire il "problema dei fondamenti", ad esempio in cosmologia e nella matematica, oppure quando percepisce l’irriducibilità della vita o l’insufficienza del riduzionismo. Personalmente ritengo che la metafisica di Tommaso d’Aquino, in particolare la filosofia dell’actus essendi e la sua dottrina della causalità, conservino ancora considerevoli virtualità per impostare correttamente il rapporto fra scienze, filosofia e teologia».
Per Basti, anche lui fine conoscitore di Tommaso, non è accettabile confondere costui con la neoscolastica: «Sebbene io sia perfettamente d’accordo con Heller che quello che serve alla teologia e in genere alla cultura è una filosofia completamente nuova, in continuità con la ricerca scientifica, e che affronti da un punto di vista diverso antiche questioni, non sono d’accordo col suo giudizio sulla filosofia tommasiana, da lui identificata con una particolare versione tomista di essa, quella di Jacques Maritain». Sulla strada da percorrere, poi, Basti ricorda l’importanza del filone a cui si è dedicato come pochi altri in Italia, ossia quello di una formalizzazione del discorso filosofico, più precisamente di un ’«ontologia formale» che abbia «basi logiche distinte e complementari da quelle della logica matematica, non correndo così il rischio di cadere nelle secche del riduzionismo neo-positivista».
Sergio Galvan, ordinario di Logica all’Università Cattolica di Milano, partendo dalla provocazione di Heller, sintetizza così la sua posizione: «Concordo apertamente sull’insufficienza dei modelli classici di analisi del rapporto tra fede e scienza. Il modello fideistico, da una parte e il modello neoscolastico, dall’altra». Quale può essere un modello soddisfacente alternativo ai due precedenti? «In accordo con la concezione espressa da Heller, ritengo che un modello epistemologico adeguato debba essere capace di interpretare le istanze di apertura presenti nella scienza e non debba avvallare un’immagine dualistica della realtà che si giustapponga a quella della scienza. In conformità a tale modello il sapere scientifico verrebbe per sua natura ad interagire con un sapere razionale di carattere metascientifico, entro il cui orizzonte sarebbero collocabili anche i contenuti di una fede teologica matura.
Entro il contesto di un simile modello troverebbero, infatti, probabile risposta le istanze di una fede ragionevole, in quanto ogni forma di sapere presuppone qualche forma di fede e, d’altro lato, una fede teologica vissuta e pensata in coesione con l’intero corpus delle proprie credenze razionali, anche scientifiche, sarebbe per ciò stesso ragionevole e quindi giustificata in misura adeguata».
«Avvenire» del 25 giguno 2012

La scienza rimossa

L’aborto, la legge 194, la Consulta
di Francesco D’Agostino
Confesso che non mi sono affatto meravigliato del fatto che la Corte Costituzionale abbia rigettato come "manifestamente inammissibile" la questione di legittimità costituzionale sollevata dal magistrato di Spoleto in merito all’articolo 4 della legge sull’aborto. Né mi sono meravigliato dei commenti a questa decisione, che tranne poche eccezioni hanno rispolverato temi più che antiquati, come quello dell’esaltazione del diritto della donna a gestire in modo autoreferenziale la propria gravidanza.
Anche i commentatori più moderati favorevoli alla legge 194 si sono dimostrati incapaci di elaborare riflessioni innovative, limitandosi a ricordare (ma senza spiegare adeguatamente il perché) che i diritti del concepito non ricevono tutela assoluta nel nostro ordinamento, poiché devono essere oggetto di valutazione comparativa con altri valori di rilevanza costituzionale (come appunto i diritti della donna), rispetto ai quali, in determinate condizioni, sarebbero destinati a soccombere.
Peccato che a fondamento di queste argomentazioni c’è la tesi, che afferma un primato della donna (ovviamente ritenuta persona) rispetto al nascituro (ovviamente pensato come chi persona dovrebbe ancora diventare, in attesa della nascita). È una tesi biopolitica freddamente positivistica, non molto diversa da quella che è stata utilizzata da Singer, Engelhardt, Giubilini ed altri ancora: questi sostengono che nemmeno il neonato, privo come è di ogni capacità di intendere e di volere, dovrebbe essere ritenuto persona a pieno titolo (con tutte le conseguenze del caso, sino a quello che alcuni cominciano a chiamare "aborto post nascita", cioè alla soppressione legale del neonato magari per ragioni eutanasiche).
Ripeto: nessuna meraviglia per la decisione della Corte. Nessuna meraviglia, ma una profonda delusione. Sia dalla sentenza della Consulta che dai commenti favorevoli che essa ha suscitato si percepisce come si sia cristallizzata in Italia, dopo quasi trentacinque anni dall’approvazione della legge 194, un’inadeguata percezione scientifica, etica e sociale dell’interruzione volontaria della gravidanza.
Se infatti facciamo un serio sforzo di riflessione su quello che abbiamo acquisito in merito all’aborto negli ultimi decenni su questi tre piani – quello delle conoscenze scientifiche, quello delle valutazioni bioetiche e quello delle percezioni giuridico-sociali – non possiamo che restare estremamente meravigliati di come nel nostro Paese si continui a pensare alla questione dell’aborto come a una questione che sarebbe stata «chiusa» da una «buona legge», una legge che, secondo uno slogan continuamente ripetuto, non si dovrebbe più «toccare». Personalmente, e so di non essere il solo, sono dell’avviso totalmente contrario: la legge sull’aborto andrebbe «toccata» (o almeno «ritoccata»), perché non è possibile continuare a pensare all’aborto come lo si pensava più di tre decenni fa.
Scientificamente, abbiamo acquisito la consapevolezza che la distinzione (essenziale per la legge 194) tra l’aborto nei primi tre mesi di gravidanza e nei successivi sei mesi non ha alcun fondamento. Bioeticamente abbiamo preso coscienza, in questi ultimi trent’anni, dell’impossibilità di quella distinzione su cui si fonda la legge 194, cioè di una distinzione logicamente coerente tra la dignità della vita umana prima della nascita (dignità debole) e dopo la nascita (dignità forte): in questo senso ci dovrebbe aver aperto definitivamente gli occhi la sentenza della Corte europea di giustizia sulla brevettabilità dei prodotti delle ricerche ottenute distruggendo embrioni umani.
Sociologicamente e giuridicamente, un minimo di onestà intellettuale ci dovrebbe indurre a riconoscere che la motivazione formale per la legalizzazione dell’aborto che si legge nell’articolo 4 della legge 194 (un «serio» pericolo per la salute fisica o psichica della donna) si è dimostrata negli anni, tranne pochi, rari casi, assolutamente inesistente e comunque ritenuta non bisognosa di essere effettivamente comprovata.
Nessuna forza politica italiana, tra quelle che contano, vuole riaprire la questione dell’aborto. E non la vuole riaprire non a seguito di decisioni conseguenti a discussioni aperte, esplicite, innovative, ma piuttosto per una sorta di diffusa percezione, che induce a pensare che sia meglio non riaprire una questione così scottante. Gli psicanalisti parlerebbero di rimozione. Ma le rimozioni producono necessariamente come proprio effetto le nevrosi e le nevrosi sono sempre causa di sofferenza.
«Avvenire» del 25 giugno 2012

L'interpretazione cristiana dei sogni

di Andrea Galli
I sogni contengono un messaggio? Sono portatori di mozioni dello Spirito? Si possono decifrare e usare come indicazioni per la propria vita? La domanda non è peregrina, risale infatti agli albori dell’esperienza religiosa. L’oniromanzia, la divinazione in base ai sogni, fu una pratica diffusissima nell’antichità, dalla Cina all’India alla civiltà babilonese. Nell’antica Grecia si credeva che durante il sonno Asclepio, il dio della medicina, visitasse la persona per ispirarla, guarirla o guidarla. I malati si recavano negli asclepei - ne esisteva uno anche a Roma sull’isola tiberina, edificato nel 289 a.C. All’arrivo i ministri del tempio valutavano le esigenze del pellegrino, che, dopo aver compiuto rituali di purificazione, veniva ammesso in un dormitorio sacro sotterraneo e vi passava la notte. Asclepio sarebbe comparso in sogno e avrebbe operato un intervento sul male o avrebbe indicato, con scene simboliche, una cura. Una credenza a cui fece da contraltare lo spirito razionale di Aristotele, che nel sogno non vedeva rivelazioni divine, piuttosto il rilascio di stimoli sensoriali che avevano interessato il corpo durante la veglia.
Nel ’900 il problema dei sogni e della loro interpretazione è riapparso nella cultura "alta" grazie a Freud e alla psicoanalisi, con il sogno letto in una chiave immanente, come manifestazione di desideri inconsci. Anche le neuroscienze, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, sono scese in campo, senza peraltro arrivare a chiarire il nocciolo della questione: non solo sulla genesi e il significato biologico dei sogni si brancola ancora nel buio, fra ipotesi più o meno accreditate, ma è lo stesso fenomeno del sonno - delle sue finalità profonde - a rimanere in gran parte un enigma per le neuroscienze. Il ritorno in auge dell’associazione tra sogno e vita spirituale si deve negli ultimi decenni all’influsso crescente di colui che ha aperto la psicanalisi a tematiche religiose, ossia Carl Gustav Jung, e a quel movimento composito e sincretista che si è soliti classificare come New Age. Nel mondo di lingua inglese, autori avvicinabili al New Age come Betty Bethards, Gillian Holloway o Michael Lennox hanno prosperato sul filone dei sogni. L’australiano Adam F. Thompson è arrivato a fondare insieme ad altri una chiesa, la "Field of Dreams", incentrata sui sogni intesi come rivelazioni soprannaturali.
Di fronte a questo panorama Gerard Condon, sacerdote cattolico della diocesi di Cloyne in Irlanda, già direttore del Pontificio collegio irlandese a Roma, si è chiesto se la teologia e la spiritualità cattoliche non si siano fatte "scippare" da piscologia e New Age un tema che sarebbe invece di loro competenza. E non si siano accorte di una diffusa richiesta, fra i credenti, di una guida al mondo delle "apparizioni" notturne.
Del resto, della possibile valenza spirituale dei sogni ne danno testimonianza la Bibbia e la storia dei santi. Nella Genesi Dio parla a Giacobbe in sogno, mostrandogli la famosa scala che si protende fino in Cielo. Giuseppe, figlio di Giacobbe, durante la prigionia in Egitto diventa un apprezzato interprete di sogni, così come il profeta Daniele alla corte di Nabucodonosor. E prima della battaglia contro Nicanore, Giuda Maccabeo incoraggia i suoi uomini raccontando loro un sogno che pronostica la vittoria.
Nel Vangelo di Matteo Giuseppe riceve in sogno la notizia del concepimento soprannaturale di Maria. In sogno Dio avverte i Magi di evitare Erode e di fare ritorno al loro Paese. E sempre in sogno Giuseppe è prima sollecitato a fuggire con Maria e Gesù in Egitto, poi è avvisato della morte di Erode e della possibilità di far ritorno in Israele. Per quanto riguarda i santi l’elenco sarebbe lunghissimo, ma merita una segnalazione il caso di don Bosco, la cui vita fu costellata da moltissimi sogni premonitori. A partire da quello che ebbe a nove anni, e che si ripresentò a lungo con ambientazioni e dettagli diversi, in cui Gesù e la Vergine adombrarono la sua missione di evangelizzatore della gioventù.
Il tema ci sarebbe tutto. Ma l’approccio di Gerard Condon, riassunto nel libro Il Potere dei Sogni, da poco edito per le Edizioni Messaggero Padova (pagine 240, euro 14), non sembra centrare il bersaglio, per la metodologia a cui si affida. Ossia il tentativo di mutuare, pur filtrandola, l’analisi dei sogni di Jung. Condon non è il solo ad aver tentato questa strada, altri religiosi ci hanno provato negli anni - un caso noto è quello della suora orsolina americana Pat Brockman, formatasi al C.G. Jung Institut di Zurigo - ma scivolando su un terreno insidioso, vista l’impossibilità di recuperare Jung, e anche la sua lettura dei sogni, a una prospettiva cattolica. In particolare per il ruolo divinatorio assegnato all’irrazionale onirico da parte dello psicoanalista svizzero - che in lui fu rafforzato dal contatto con gli stregoni della tribù ugandese degli elgonyi, durante un suo viaggio in Africa nel 1925 - sia per la concezione del male insito nella divinità, concezione di matrice gnostico-alchemica, da cui discende il superamento dell’idea di peccato e la necessaria integrazione di bene e male anche nella dimensione etica dell’uomo.
L’approccio cattolico ai sogni e alla loro interpretazione si trova comunque, seppur in controluce, nel libro di Condon. Il quale fa giustamente notare come le rivelazioni oniriche già nell’Antico Testamento erano soggette a critiche. Nel Deuteronomio è presente una condanna della divinazione. Geremia e Zaccaria stigmatizzano con durezza coloro che sostengono di saper discernere il volere di Dio dai sogni. Nel Nuovo Testamento la parola greca per sogno, onar, compare solo sette volte. Fra i padri della Chiesa, Atanasio di Alessandria avverte che nel sonno i demoni hanno maggiore libertà d’azione. Tertulliano, che pur riconosce come Dio possa parlare al dormiente, sostiene che la maggior parte dei sogni spirituali sono ispirati da demoni. Gregorio Magno si pronuncia nettamente contro l’interpretazione dei sogni.
Ma la posizione cattolica è stata sintetizzata e chiarita soprattutto da Tommaso d’Aquino nella Somma teologica. Per il dottore angelico i sogni possono essere influenzati in primis dalle condizioni fisiche e psicologiche del sognatore. Per quanto riguarda l’influenza soprannaturale, essa è talora demoniaca e «talaltra riferibile a Dio, che rivela certe cose agli uomini in sogno per mezzo degli angeli».
L’uso deliberato dei sogni al fine di ottenere doni spirituali è quindi illecito, in quanto assimilabile alla divinazione. Mentre i sogni latori di messaggi divini sono doni di Dio, che non vanno cercati. Ed è proprio questo equilibrio e questa prudenza che sono presenti nella bellissima antifona che si recita nella preghiera di compieta, prima di coricarsi: «Nella veglia salvaci Signore, nel sonno non ci abbandonare: il cuore vegli con Cristo e il corpo riposi nella pace».
«Avvenire» del 28 giugno 2012

Gratta & vinci: se non lo so, mi illudo

di Viviana Daloiso
Immaginate di recarvi al supermercato e di trovare sugli scaffali e nei frigoriferi soltanto scatole bianche. Su queste ultime è riportato il nome del prodotto che (presumibilmente) contengono e qualche scritta generica del tipo "possiede moltissime sostanze nutritive", oppure "che aspetti a mangiarlo? È buonissimo". La domanda è quasi paradossale: comprereste le scatole?
Per fortuna, supermercati del genere in Italia non ne esistono: la legge è molto chiara (e anche molto severa) sui diritti dei consumatori, a partire da quello d’essere correttamente ed esaustivamente informati su ciò che acquistano, oltre che a dover essere tutelati nella salute. E questo non solo in campo alimentare. Peccato che la stessa legge non abbia valore nel nostro Paese quando si gioca e si scommette, a partire dai popolari Gratta & vinci, che negli ultimi anni sono diventati la “porta” della ludopatia. Si comincia da lì, e spesso non si finisce.
Il sogno del "Megaturista per sempre". All’apparenza sono i più innocui, tra i giochi d’azzardo proposti agli italiani: colorati, facili da utilizzare e nella maggior parte dei casi poco costosi, i Gratta & vinci – in gergo tecnico le “lotterie a estrazione istantanea” – spopolano nel nostro Paese, tanto da aver messo in soffitta persino le care, vecchie lotterie nazionali. I numeri, d’altronde, parlano chiaro: nel 2011 i biglietti “usa e getta” della fortuna hanno fruttato 10,2 miliardi di euro lordi (stiamo parlando di circa 28 milioni di euro al giorno) lasciando la povera Lotteria Italia – una sola estrazione, dopo mesi di “attesa” – ferma ai 48 milioni di euro totali. Non è un caso se negli ultimi anni le lotterie istantanee sono proliferate come funghi. A oggi sono 40, divise addirittura in sottogruppi, ciascuna col suo nome accattivante e la sua promessa milionaria. Tutte con la stessa regola: illudere chi vi partecipa. Che, per chi di gioco è malato, significa infierire.
Marketing e disinformazione. Basterebbe farsi un giro sul sito di Lottomatica Italia per scoprire i trucchi ben celati del sistema. Alla sezione Gratta & vinci è possibile scorrere i fac-simile di tutti i biglietti. Prendiamone uno a caso, dal sapore “vacanziero”: "Un mare d’oro". Girandolo, si può scoprire che si sono "tanti premi da vincere": il più alto è da 500mila euro, poi 100mila, 10mila, e via fino ai 5 euro (che poi è il prezzo del biglietto). Ecco tutto: promesse roboanti, certo, ma anche del tutto generiche. Niente, insomma, che informi il giocatore su quanti premi siano in palio e – più importante forse – quanti ne siano stati già vinti. «Il che – spiega l’avvocato Osvaldo Asteriti, esperto in gioco d’azzardo e da anni impegnato in una battaglia contro la ludopatia con l’Asdi (Associazione sviluppo dell’individuo) – evita di rispondere ai quesiti basilari di ogni persona di buon senso, vale a dire: sto scommettendo su qualcosa di reale? E che possibilità ho di vincere davvero?».
Domande da mettere in tasca e dimenticare. A meno che non si voglia essere pignoli (la caratteristica esclude i ludopatici), e prima di comprare i biglietti si vada alla ricerca dei decreti di indizione delle singole lotterie, in cui figurano sia il numero di premi a disposizione sia le somme ad essi associate. Dove trovarli? Certo non in apposite bacheche all’interno di bar e autogrill: i decreti, per chi non lo sapesse, vengono infatti pubblicati in Gazzetta ufficiale e sono consultabili solo dopo apposite (e complicate, provare per credere) ricerche online. Quanto al montepremi ancora disponibile, non c’è alcuna possibilità di avere informazioni: «A differenza di altri Paesi, come per esempio gli Stati Uniti – continua Asteriti – in Italia non è dato sapere se i premi da un milione di euro, per esempio, sono già stati vinti. E c’è una bella differenza tra giocare pensando di potersi aggiudicare un milione di euro o soltanto pochi spiccioli».
Il meccanismo dei “finti” premi. C’è poi la questione più spinosa: quella della spartizione del montepremi. «Nel caso de "Il tesoro del faraone", per esempio, su 84 milioni di biglietti da 10 euro – spiega Asteriti – i Monopoli mettono in palio circa 655 milioni di euro, divisi tra quasi 36 milioni di biglietti vincenti: 14 biglietti da 2 milioni, 70 da centomila euro, 112 da cinquantamila e così via a scendere fino alla sorpresa finale, ben 20.746.250 biglietti (il 58% di quelli vincenti) valgono 10 euro, cioè la cifra che si è giocata». Finti premi, insomma, visto che ripagano semplicemente dei soldi spesi, tanto che proprio l’avvocato Asteriti nel 2009 ha vinto una causa contro l’Aams perché nella lotteria "il Megamiliardario" oltre il 40% dei premi aveva un importo di 10 euro, cioè non corrispondeva a premi effettivi.
Ma il “nodo” del meccanismo è un altro ed è quello che inizia a preoccupare le strutture e gli sportelli di aiuto di mezza Italia: nell’80% e più dei casi i finti premi vengono rigiocati comprando un altro biglietto e innescando così il pericoloso meccanismo della ripetizione della giocata, strada sicura verso la patologia. Che anche nel caso degli “innocui” Gratta & vinci è più che mai in agguato, con la possibilità di perdite altissime, visto che per le lotterie più accattivanti (le “miliardarie”) una grattata costa 20 euro. E in una semplice tappa al bar, per un caffè, si arrivano a comprare anche 10 biglietti.
«Avvenire» del 30 giugno 2012

Superbia: un super-io contro Dio

Vizi capitali (1): la superbia
di Rino Fisichella
Per quanto possa sforzarmi di tornare indietro con la memoria, il ricordo del termine “superbia” mi riporta sempre, a quando ero bambino e la mente fissò il nome di Tarquinio il Superbo. Tutto ruota intorno alla sua persona, di cui conosco ben poco, eppure la qualifica è quanto rimane in me del personaggio. Non saprei dire perché mi colpì così tanto da permanere come pensiero nella memoria. Forse, perché con lui si concludeva la lista dei re di Roma che eravamo obbligati, già in tenera età, a imparare a memoria come una filastrocca; forse, perché neppure sapevo cosa fosse la superbia, ma il termine rimbombante lo imponeva… saranno gli psichiatri a determinare il tutto. Ciò che posso dire è che parlando di superbia il nome del re Tarquinio è il primo che balza alla mente. Certo, non senza ragione i Romani gli affibbiarono l’appellativo se è vero, come attesta Tito Livio, che convocato il Senato ed entrato nella Curia si sedette sul seggio del re; questi accorso sul posto magna voce gli intimò: “Quid hoc, Tarquini, rei est? qua audacia me vivo vocare ausus es patres aut in sede considere mea?”. Ciò che Servio Tullio chiamava giustamente audacia, i Romani poco alla volta la definirono superbia, sperimentandola sulla loro pelle.
Qualunque sia il ricordo, comunque, non è di Tarquinio che dobbiamo parlare, ma di noi in relazione a ciò che è identificato come l’origine di tutti i vizi. Da qualsiasi parte ci si volta, infatti, la superbia sembra avere il primato. Per chi vuole trattare dei vizi rispettando l’ordine alfabetico: accidia, avarizia, gola, invidia, ira, lussuria, arriva alla superbia come il culmine di un procedere. Per quanti vogliono modificare l’ordine, la prima che viene nominata è sempre lei, la superbia, per incarnare ciò che rappresenta. Il “peccato capitale”, così chiamato per primo da Gregorio Magno e tematizzato in seguito dalla teologia medievale, e in primis da Tommaso d’Aquino, porta con sé tanti derivati che impediscono di innalzarsi a una corretta vita di relazioni e di ordine cosmico. Sono sette, come si sa, per indicare secondo la cabala la pienezza e la totalità di una vita ripiegata sul male.
Ironia della sorte, però, la semantica del termine (ύπερηφανία) è positivo. Pur nell’etimologia oscura, il significato originario intende esprimere il carattere “eminente”, “eccellente” e “insigne” dell’animo umano e della sapienza. Lo sviluppo successivo, al contrario, venne usato in senso peggiorativo e riprovevole come “arroganza”, “vanteria” e “alterigia”. Insomma, per gli antichi Greci, la superbia si colloca tra la ύβρις, tipica di chi disprezza e la αλαζών, il presuntuoso millantatore che inganna se stesso ed è un ciarlatano vantando pregi che non ha. In una parola, il superbo è un folle presuntuoso, perché si vanta della sua posizione, del potere e della ricchezza guardando gli altri sprezzantemente dall’alto in basso. In una parola, il termine manifesta un’esperienza universale. Nell’uomo di ogni terra e di ogni cultura, in ogni tempo e lingua si verifica il segno di una connotazione giudicata negativamente perché tesa a dominare sul proprio simile e a disprezzare le doti altrui. E così, la letteratura greca antica è densa di riferimenti che mettono in guardia dalla superbia e da ultimo, soprattutto per influsso degli stoici, il superbo venne incluso nei cataloghi dei vizi.
Prima di entrare nel merito della superbia, non sarà inutile anticipare qualche riflessione sul perché la Chiesa ha identificato sette peccati capitali e perché li ha chiamati così. Una considerazione importante è fatta dal Catechismo il quale dice che: “Il peccato trascina al peccato; con la ripetizione dei medesimi atti genera il vizio. Ne derivano inclinazioni perverse che ottenebrano la coscienza e alterano la concreta valutazione del bene e del male” (CCC 1865). Insomma, la lotta tra il bene e il male permane fino alla fine dei tempi. Certo, è impari. Come attesta l’apostolo Paolo le “opere della carne” e il “frutto dello Spirito” (Cfr Gal 5,19-23) non stanno sullo stesso livello. La forza redentrice di Cristo ha vinto e ha distrutto il peccato del mondo, ma la libertà degli uomini, che segna l’originalità del cristianesimo, permane come la conditio sine qua non. “Dio che ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”. L’espressione di sant’Agostino permane con la sua forza di significato per indicare l’imporsi della libertà personale. Mai, probabilmente, il dramma della libertà si esprime con tutta la sua potenza come nella scelta tra il bene e il male e nella vita a servizio dell’uno o dell’altro. Vivere nel bene apre il cuore e rende fecondi; scegliere il male impoverisce e rinchiude in se stessi. Certo, rimarrà sempre la grande quaestio di cosa sia bene e male; eppure, nel profondo del cuore di ognuno, e impresso nelle pagine della natura, il confine posto non è solo percepito, ma anche compreso e tematizzato. Il male, comunque, offusca la coscienza e la discesa diventa sempre più scoscesa e scivolosa. C’è una ambivalenza nel vizio che tende a nascondere la parte peggiore, per illudere con il canto delle sirene. Dall’altra parte, c’è la forza della virtù che chiama al bene. Perseverare nel bene crea virtù che consente non solo di compiere atti positivi, ma soprattutto sprona a dare il meglio di sé e a ricercare forme sempre più grandi di bene. Ecco, pertanto il dramma: dove c’è il vizio, là c’è la virtù che si contrappone: a te la scelta. Sei posto dinanzi all’orientamento da dare alla tua vita. A te la scelta di quale ruolo vuoi giocare. Da ogni parte ti volti, comunque, non puoi rimanere neutrale.
Probabilmente, oggi il vizio ha un fascino maggiore della virtù. Già il nome di virtù appare obsoleto e riservato a una piccola categoria che diventa fastidiosa e da evitare perché non ci consentirebbe di vivere la vita come vogliamo. Il vizio, invece, no. Del vizio preferiamo intesserne le lodi. In qualche modo, ci piace e ci affascina; ci consente di sperimentare il brivido del proibito che la Chiesa ha sempre combattuto per tenerci legati e soggiogati a sé. E poi, il vizio si traveste felicemente con il tratto ironico che ti rende simpatico anche il peccato peggiore. Chi non riesce a trovare simpatia per un impareggiabile Alberto Sordi nelle vesti dell’Avaro? L’avaro Sordi, fa ridere della sua avarizia e non permette più di cogliere il male intrinseco di chi vuole accumulare solo per sé. E così, ancora una volta, sembra avere ragione Molière: “Tutti i vizi, quando sono di moda, passano per essere una virtù”.
Dall’accidia alla superbia, e viceversa, il passo è breve. Soprattutto ai nostri giorni non è difficile percepire come la presenza dell’una conduca inesorabilmente all’altra. Il fatto non è innocuo per la vita personale. L’accidia, o l’ozio, è stata normalmente identificata come il vizio dei monaci. Indica, l’atteggiamento di indifferenza e disinteresse per il mondo, la vita, se stessi. Spesso si accompagna con la stanchezza, la noia, l’apatia e lo scoraggiamento, portando di fatto alla malattia dei nostri tempi: la depressione. Non si è più padroni di sé, si pensa che il groviglio dell’esistenza sia un labirinto senza via d’uscita e ci si rinchiude in una totale forma di sfiducia. E, tuttavia, non si può confondere la patologia con il vizio. Se c’è vizio allora c’è scelta e quindi responsabilità. Vivere stancamente e nell’ozio, riempire le giornate di pettegolezzo e mirare solo alle debolezze degli altri per non guardare a noi stessi, rimuginare rancore e malizia nei rapporti… insomma, tutto questo porta a dimenticare l’esperienza di Dio e del suo amore. Il passo verso la superbia è breve. Dimentico di Dio non resta che l’uomo, anzi rimango solo io! La superbia, in ultima analisi, è il rifiuto di Dio. Lui o io. Non può esserci una via di mezzo.
Lo aveva ben compreso Agostino quando nel De civitate Dei dice perentoriamente che la superbia è “allontanarsi da Dio e convertirsi a sé” (12,6). Il superbo, scimmiotta Dio; perché vuole imitare la sua potenza e rendersi simile a lui. Non è un caso, quindi, che egli veda nella superbia “l’origine di tutti i mali perché è la causa di tutti i peccati” (In Ioh ev 25, 16); tanto da poter “sussistere anche da sola senza gli altri peccati” (De nat et gr 29,33). Torna con tutto il suo valore l’accenno all’etimologia; quel ύπερ dice tutto. Indica il mettersi sopra gli altri, il non voler vedere nessun altro se non se stessi. Una grande lezione proviene anche da Tommaso che, non si dimentichi, è la fonte per Dante come vedremo subito. Con la profondità che gli è propria, Tommaso dice che: “La superbia è il vizio e il peccato con il quale l’uomo, contro la retta ragione, desidera andare oltre la misura delle sue condizioni” (STh II-II,162,1). L’analisi di questa espressione consente di vedere il nucleo della superbia. Il superbo, di fatto, crea una sproporzione tra sé e la realtà con la conseguenza che la volontà, principio che guida l’agire, non è più capace di giudicare coerentemente. Ecco perché è contraria alla retta ragione perché il superbo sopravvaluta se stesso senza confrontarsi con la realtà. La superbia diventa, di fatto, un andare contro la ragione. Questa è fatta per ricercare la verità, vale a dire, ciò che è coerente (adequatio); con la superbia, invece, la stessa ragione è fuori strada. Dirà sempre Tommaso: “I superbi mentre godono della propria superiorità, trovano fastidio nella superiorità della verità” (II-II,162,3, Concl). Non si tratta più di solo sentimento o di condizione psicologica caratteriale. La superbia è un uso non corretto della ratio! Ciò implica l’assunzione di una responsabilità che proviene da una scelta fatta. Puntare gli occhi sulla verità, al contrario, crea equilibrio e permette di vedere non solo la complessità della realtà, ma il suo ordine intrinseco verso cui siamo orientati per ottenere il bene.
Ne è ben consapevole Dante, che alla scuola di Tommaso, identifica esempi concreti di superbi nell’XI canto del Purgatorio. Non è privo di significato che il canto X sia un inno all’umiltà per far emergere il valore della virtù dinanzi al vizio. Alla stessa stregua, l’inizio del canto si apre con la preghiera del Padre nostro per far emergere il riconoscimento dell’uguaglianza dei figli di Dio dinanzi all’unico Padre. Come si sa, Virgilio indica al poeta i superbi come coloro che “La grave condizione di lor tormento a terra li rannicchia… si vede giugner le ginocchia al petto, così fatti vid' io color, quando puosi ben cura”. Tre personaggi ricurvi su se stessi camminano sotto il peso del masso che li opprime. L’immagine è limpida fin dall’inizio: coloro che si sono sopravvalutati ora sono schiacciati a tal punto da non poter vedere neppure Dante che passa accanto a loro. Omberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Provenzano Salvani stanno a indicare i tre ambiti in cui la superbia sembra esercitarsi con maggior facilità: la nobiltà, l’arte e la politica. Il primo si rivolge a Dante chiedendo, retoricamente, e con un accenno alla superbia non ancora debellata, se lo ricorda. Il secondo, invece, è riconosciuto dal poeta che si china fino a terra per poterlo vedere in volto. E’ con lui che il dialogo diventa più intenso e il senso della superbia acquista maggior significato. “Oh vana gloria de l'umane posse!” esclama Oderisi, facendo da eco a Gregorio Magno che proprio così aveva definito la superbia: “inanis gloria”. La superbia altro non è che illusione e transitorietà: “com' poco verde in su la cima dura”. Lui, il grande e insuperabile artefice di miniature, ora si vedeva superato dal Bolognese di cui non aveva voluto riconoscere l’arte in vita. Alla stessa stregua, parla di Cimabue superato da Giotto, e Guido Guinizzelli che fu dimenticato per il sorgere del Cavalcanti. E, come lascia intuire il testo, anche costui a sua volta adombrato dalla grandezza di Dante. Ed infine, il capo dei ghibellini di Siena votato alla damnatio memoriae al sopraggiungere della vittoria dei guelfi. Insomma, insegna Dante, la superbia ti illude, perché è effimera. Ti lascia godere un istante, ma a ben vedere ti abbandona presto e rende la delusione ancora più grande.
Torna con forza, a questo punto, un’immagine anch’essa scolpita nella mia mente di ragazzo quando davanti al televisore seguivo l’incoronazione di Paolo VI. Il Papa sulla sedia gestatoria procedeva contento e salutava festoso una folla che lo acclamava. Ad un certo punto, il cardinale con in mano un piatto ricolmo di ovatta, incurante di quanto accedeva chiamò il Papa: “Pater Sancte”. Paolo VI si volse verso di lui e in quel momento il cardinale diede fuoco all’ovatta: “Sic transit gloria mundi”. Un attimo e il fuoco bruciò tutto. Il volto di Paolo VI divenne greve e pensoso. Il segno, in questo caso, parla molto di più delle parole. Nessuno può gloriarsi perché tutto passa velocemente, e solo puntare all’essenziale crea stabilità.
Dio disperde quanti hanno pensieri di superbia perché si contrappongono a lui e rimangono chiusi in se stessi e nell’illusione della loro arroganza, mentre egli esalta l’umile. Non è un caso che soprattutto i libri sapienziali facciano ricorso alla dialettica tra superbia e umiltà per indicare in quest’ultima la via privilegiata a cui il giusto e il pio devono attenersi. E’ significativo, d’altronde, che il vangelo di Marco, ripercorrendo lo stesso pensiero, ponga la superbia tra la “bestemmia” e la “stoltezza”; cioè è tipico dello stolto essere superbo, perché si rivolta contro Dio, non volendo riconoscere la sua grandezza, ma nello stesso tempo condanna se stesso per non avere un’intelligenza adeguata della sua esistenza (Mc 7,22). Una parabola, comunque, acquista in questo contesto tutto il suo valore. Gesù narra di due uomini, un fariseo e un pubblicano che si ritrovano insieme al tempio per la preghiera. Il primo, “stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio, che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo” (Lc 18,11-12). Aver posto l’esempio del superbo nello scenario della preghiera ha un suo primo significato: come ci si pone dinanzi a Dio, così ci si pone dinanzi agli uomini, e viceversa. Il senso della parola, comunque, non verte sulla preghiera, ma sull’atteggiamento dell’uomo davanti a Dio. Come si vede, il fariseo fa riferimento a due fatti; anzitutto, elenca i peccati da cui si tiene lontano, poi riferisce di tutte le sue opere buone. Ciò che egli fa è riconosciuto solo come sua impresa personale; il tono delle sue parole e il vanto che ne deriva non sono altro che un’autoesaltazione e compiacenza di sé a tal punto da non essere neppure sfiorato dal pensiero che potrebbe essere un peccatore. Insomma, la sua preghiera diventa un monologo per pronunciare il giudizio su se stesso; non deve attendere quello di Dio, perché si è già posto come innocente davanti a lui e ha trovato il capro espiatorio: il pubblicano. Alla fine, poiché compie opere che non sono comandate dalla legge, ma sono compiute per la sua buona volontà, egli è perfino creditore nei confronti di Dio, a differenza del povero pubblicano che neppure ha la forza di alzare gli occhi verso di lui e chiedere il suo perdono. L’amore di Gesù, tuttavia, è nei confronti di quest’ultimo che nella sua condizione umile di peccatore riconosce di avere bisogno dell’amore di Dio. La verità sulla propria vita appartiene al pubblicano, non al fariseo che rimane fermo nel suo inganno: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1,8).
A conclusione di questa riflessione giunge attuale la parola di Gregorio Magno. Nel suo Commento morale a Giobbe, il grande Papa identifica quattro atteggiamenti che permettono di riconoscere la superbia: “Quando si pensa che il bene derivi da noi stessi; quando si crede che, se ci viene dato dall’alto, è per i nostri meriti; quando ci si vanta di avere ciò che non si ha; quando, disprezzando gli altri, si aspira ad apparire gli unici dotati di determinate qualità… Tutto ciò che fanno gli altri, anche se è fatto bene, non piace all’orgoglioso; gli piace solo ciò che fa lui, anche se è fatto male. Disprezza sempre le azioni degli altri e ammira sempre le proprie perché, qualunque cosa faccia, crede di aver fatto una cosa speciale e in ciò che fa, pensa per bramosia di gloria al proprio tornaconto; crede di essere in tutto superiore agli altri e mentre va rimuginando i suoi pensieri su di sé, tacitamente proclama le proprie lodi. Qualche volta poi è talmente infatuato di sé che quando si gonfia si lascia pure andare a discorsi esibizionisti” (33,16-34,48). A ben vedere, l’immagine che ne deriva del superbo è piuttosto una caricatura in cui cade l’uomo. In un momento in cui il narcisismo ha conquistato un posto d’onore nella cultura dei nostri giorni e in molti dei nostri comportamenti, una seria considerazione su chi siamo realmente non dovrebbe stonare né apparire fuori luogo. Perdere il senso del limite e non essere più capaci di humor su se stessi conduce a quella ipertrofia dell’ego che presto o tardi porta a conseguenze nefaste per la propria vita. Meglio allargare l’orizzonte e puntare sull’essenziale della vita per consentire di raggiungere quella vera libertà fonte di genuina realizzazione di sé. Dovremo dire con il libro dei Proverbi: “Ubi humilitas ibi sapientia” (11,2). La verità su se stessi proviene dalla capacità di ascolto e di gratuità che sostengono la profonda intelligenza in ricerca della verità ultima.
«Avvenire» del 29 giugno 2012

Gola: il cibo? È condivisione

Vizi capitali (2): la gola
di Andrea Lonardo
Gesù dichiara puri tutti gli alimenti ed i cristiani mangiano con gioia ogni tipo di carne e bevono ogni tipo di bevanda. Senza il cristianesimo e la cultura classica sarebbero impensabili i tortellini o il Brunello di Montalcino - anche qui appaiono evidenti le radici dell’Europa! Perché allora la gola è un vizio? Perché è addirittura un vizio capitale, cioè di quelli che conducono alla morte?
Per rispondere vale la pena innanzitutto tornare alla rivelazione di Dio ad Israele. In Genesi l’uomo appare fin dall’inizio come una creatura alla quale Dio comanda di mangiare. Ma Adamo è allo stesso tempo l’unico essere che ha la possibilità di prendere cibo rendendo grazie. Egli non solo è tratto dalla terra una volta per tutte - Genesi gioca con il termine adam, che si potrebbe tradurre con “terrestre”, “terroso”, “polveroso” perché tratto min adamah, cioè “dalla terra”, “dalla polvere” - ma deve ogni giorno prendere dei frutti della terra e mangiarne.
Egli non ha la vita una volta per tutte, bensì la riceve sempre di nuovo in dono dallo stesso Creatore che tutto ha fatto perché l’uomo potesse servirsene. La bellezza di ogni pasto è quella di ripresentare continuamente il “mistero” dell’uomo e della sua esistenza di creatura sempre ricreata. Il «pane quotidiano» non si può così assumere una volta per tutte, ma come la manna deve scendere nuovamente ogni giorno.
Il cibo è allora non “cosa”, ma “dono”. Non semplice oggetto di cui appropriarsi, bensì esperienza di vita ricevuta. Il vizio della gola ha la sua radice proprio nella dimenticanza del “miracolo” del cibo e della vita che ne deriva. Il filosofo danese Soeren Kierkegaard ha scritto nel suo Diario: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». È una descrizione impietosa della condizione dell’uomo che non si dirige più da nessuna parte, che ha smarrito la propria origine e semplicemente sopravvive mangiando. In due modi complementari Genesi 1 e 2 ricordano la peculiarità dell’uomo. Nel I capitolo l’uomo è creato nel sesto giorno, alla fine di tutte le opere, nel II capitolo all’inizio di tutto, prima di ogni altra creatura. In questi due modi la Bibbia dice l’assoluta bellezza dell’uomo: in Genesi 1 egli giunge per ultimo come l’essere più “buono”, in Genesi 2 l’uomo è fatto per primo come colui in vista del quale tutto verrà all’esistenza - ben prima di Galilei la Bibbia ha sempre saputo che i sei giorni della creazione non debbono essere presi alla lettera! In maniera altrettanto complementare il I capitolo dice che solo l’uomo è creato «ad immagine e somiglianza di Dio», mentre il II ricorda che Dio «soffiò un alito di vita» solo nell’uomo.
Proprio nel modo di prendere cibo appaiono il primato dell’uomo e la sua natura insieme spirituale e materiale, poiché egli è indissolubilmente corpo e anima. Nessun animale prega prima di mangiare. Alle bestie non è dato né di bestemmiare, né di ringraziare. Esse semplicemente vivono, divorandosi a vicenda. L’uomo può riferire a Dio anche il cibo o rifiutarsi di farlo, riconoscendo il dono ed il “sacrificio” della creazione che gli viene offerta. La tradizione ebraica ha fatto della benedizione il cuore della sua relazione con Dio e della sua testimonianza nel mondo. Dice una magnifica benedizione che si recita al mattino: «Benedetto Tu o Signore Dio nostro Re del Mondo, che hai creato l’uomo con sapienza, e vi hai creato fori e canali. È chiaro e noto davanti al Tuo trono che se uno di questi si chiudesse o si aprisse nessuna creatura potrebbe resistere neppure per poco tempo. Benedetto Tu o Signore, medico di ogni creatura e meraviglioso artefice». Questa preghiera esprime la gratitudine per il buon funzionamento del corpo umano, riconoscendone insieme la precarietà che sempre necessita della forza divina.
In un recente incontro del Cortile dei gentili il filosofo francese Fabrice Hadjadj ricordava quanto fosse banale considerare l’uomo semplicemente come la più evoluta delle creature, perché la più adattabile: «Alcuni dicono che l’affermazione dell’uomo, nel corso dell’evoluzione, sarebbe dovuta alla sua maggiore capacità di adattarsi al mondo. Eppure l’uomo sembra, al tempo stesso, un grande disadattato: invece di vivere pacificamente secondo l’istinto, cerca un senso, decifra il mondo come se fosse una foresta di simboli, desidera un al di là, un al di là non necessariamente come un altro mondo, ma come un modo di penetrare nel segreto di questo mondo, di intenderlo nel suo mistero, di bere alla sua fonte». E continuava, affermando: «Noi possiamo riprendere qui un verbo inventato da Dante, e dire che l’uomo è fatto per “trasumanarsi”».
All’uomo non basta il cibo del mondo intero: egli deve comprendere perché vale la pena mangiare e cosa fare della vita che si riceve ad ogni pasto. Nell’incontro con la samaritana, Gesù le apre il cuore proprio a partire dalla sua sete invincibile: la donna non è mai “sazia” dell’acqua del pozzo e nemmeno dei suoi molti mariti (neanche l’amore basta mai!) e nemmeno delle sue domande religiose, finché non incontrerà il Messia, l’unico che disseta ogni attesa. Ora Egli è là. Ed è Lui - ricorda Sant’Agostino ad avere sete della fede della donna.
Proprio le moderne ricerche psicologiche ci hanno resi più consapevoli che il difficile rapporto con il cibo nasconde in realtà una ferita dell’anima. La bulimia e l’anoressia non sono semplicemente delle malattie, quanto dei sintomi di una sofferenza dello spirito quando non ha ancora trovato un terreno solido che garantisca che vale la pena vivere sempre e comunque.
Il Nemico vorrebbe invece tutto ridurre a fame terrena, perché Dio e l’amore siano dimenticati. Vorrebbe che il cibo fosse solo “cosa”, e non “segno”. Nelle tentazioni, Gesù risponde al diavolo: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Certo l’uomo vivrà anche di pane, ma non sarà esso a bastargli. Gesù insegna così a privarsi del cibo, proprio per lasciar emergere quella “fame” che abita nel profondo del cuore: «Mio cibo è compiere la volontà del Padre».
Appare subito evidente che il rischio di ridurre tutto a gola non appare solo nella vita individuale: quanto le grandi ideologie del XX secolo hanno illuso generazioni intere che bastasse saziare le pance per avere “uomini nuovi”!
Recentemente è stato Benedetto XVI a ricordare, invece, che anche chi è povero avverte l’insopprimibile fame di Dio: «l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità [occidentale]. È importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente».
Dante, sommo poeta, ha saputo con i suoi versi incomparabili mostrare la bassezza dell’uomo che riduce la sua vita all’ingurgitare. Già Cerbero, che scortica e trangugia brandelli del corpo dei dannati del terzo cerchio, è un essere a cui basta gettare del cibo perché si calmi - si racqueta poi che l’pasto morde (Inferno VI 29).
Ma è l’intera descrizione che atterrisce. Per una sorta di similitudine con la loro vita terrena, nel girone dei golosi tutto è squallore, tutto è poltiglia informe in cui si sguazza. Esistono pene maggiori, ma nessuna è così triste: hai sì fatta pena, che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente (Inferno VI, 47-48). Lì il Poeta incontra Ciacco i cui gesti finali dicono tutto di chi è caduto nel vizio della gola. Egli ha il capo che guarda a terra, come un cieco, incapace di vedere la vita: e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi (Inferno VI, 47-48). E proprio quel Ciacco inizierà a predire a Dante le lotte intestine di Firenze e l’esilio che lo raggiunse nel 1301 mentre era ambasciatore a Roma. Le fazioni della città dopo lunga tencione verranno al sangue (Inferno VI, 64-65). Il cibo si muta da benedizione in maledizione, poiché per il possesso della città tutti combatteranno.
Dante rinnova così il messaggio biblico: il cibo è fatto non solo per essere consumato, bensì per essere condiviso. Proprio l’arte della cucina è una delle espressioni alte della cultura umana. Essa coniuga la raffinatezza della preparazione e l’esaltazione del gusto degli ingredienti con la fraternità che il cibo è capace di creare, quando diviene espressioni di amore.
Enzo Bianchi, priore di Bose, ha scritto con acume: «Davvero la cucina e la tavola sono l’epifania dei rapporti e della comunione. Del resto, il cibo è come la sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumismo; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Il cibo cucinato e condiviso - il pasto - è allora luogo di comunione, di incontro e di amicizia: se infatti mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva e condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale».
Il cristianesimo è la religione che più insegna la bontà di ogni cibo, non vietandone nessuno, poiché tutto è opera di Dio e, quindi, buono. Cristo - dice il Vangelo di Marco (Mc 7, 19-20) - «rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo” ». Ed al Signore ha fatto eco San Paolo, mettendo in guardia Timoteo da coloro che imporranno «di astenersi da alcuni cibi, che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4, 3-5), invitandolo anche «a non bere soltanto acqua, ma bevi un po’ di vino, a causa dello stomaco e dei tuoi frequenti disturbi» (1 Tm 5, 23).
In fondo il cibo ripresenta la logica del piacere che Dio ha posto nel creato. Il piacere, proprio perché non basta a se stesso, domanda un senso che lo abbracci. Il piacere è come un indicatore di trascendenza. Nel suo rapido scomparire reca implicita la domanda cosa sopravviva al suo straordinario, ma fuggevole passaggio. Se dopo un gesto sessuale, resta accresciuta la tenerezza, la fedeltà, il desiderio di accogliere i figli che verranno, ecco che quel piacere non si tramuterà in maledizione, bensì maturerà in bellezza e significato. Così se la bontà del cibo è abbracciata dall’amicizia delle persone con cui lo si è condiviso e dal ringraziamento a Dio che lo ha donato, ecco che quel piacere non verrà eliminato, bensì raggiungerà la sua perfezione.
Il vizio della gola dimentica, invece, proprio quelle relazioni vitali che danno significato al cibo. E la pratica del digiuno ha valore di esercizio perché ritrovino spazio la fede e la carità, le sole capaci di “sfamare” l’uomo.
«Avvenire» del 30 giugno 2012

29 giugno 2012

Quando la gelosia uccide

Lo scandalo del delitto d'onore, eredità terribile dei classici
di Eva Cantarella
Nessuno poteva dirlo meglio di Giuseppe Pontiggia. Oggi il peggior nemico dei classici è un nemico che non li affronta, ma li ignora: la programmazione scolastica. Un nuovo nemico che «delude, amareggia, scoraggia per la sua stupidità. Dilapidare - noi che ne saremmo i beneficiari diretti - l'eredità classica, è una ignominia e uno spreco che nessuna nazione consapevole si permetterebbe». Da allora, le cose sono precipitate, e una scuola appiattita sul presente ha reso ancor più forte la necessità di ripetere che la prima funzione della scuola è quella di formare cittadini dotati di ragione e di coscienza critica: che i classici, appunto, aiutano in primo luogo a costruire. Non perché, beninteso, essi siano depositari di valori superiori, eterni e immutabili, come un tempo si diceva. Ci sono aspetti della loro cultura oggi inaccettabili: l'idea che la schiavitù fosse naturale, ad esempio, o che la ragione delle donne fosse diversa e inferiore. Ma per noi è essenziale conoscere anche questi aspetti. Al di là delle rotture e le discontinuità che hanno segnato i millenni che ci separano, infatti, alcuni di essi sono arrivati sino a noi, insieme ad alcune delle regole giuridiche a questi ispirate. Tra le quali (non potendo ovviamente occuparci di tutte) ce n'è una sulla quale oggi vale la pena riflettere: la regola che garantiva pene irrisorie a chi commetteva un «omicidio per causa d'onore», cancellata dal nostro codice penale solo nel 1981, dopo aver superato resistenze che solo il suo antichissimo radicamento riesce a spiegare. La giustificazione della causa d'onore nasce in Grecia. Più precisamente nella prima legge ateniese, che nel 621-620 a.C. segnò la fine della cultura della vendetta, sino a quel momento considerata l'unico modo per difendere l'onore. A partire da quel momento l'omicidio divenne un reato punito con pene irrogate da tribunali appositamente istituiti: morte per l'omicidio volontario, esilio per quello involontario. Ma nel fare questo la legge stabilì un'eccezione: chi sorprendeva in casa propria un uomo che intratteneva rapporti sessuali con la propria moglie, madre, figlia, sorella o concubina non veniva punito. Il suo omicidio infatti era «dikaios», vale a dire legittimo. Rimasta in vigore per tutto il corso della storia greca, la regola ispirò Augusto, che nel 18 d.C. concesse al padre l'impunità per l'uccisione della figlia e del suo amante sorpresi in flagrante in casa propria o del genero, e al marito, in determinate circostanze, per l'uccisione dell'amante (uccidere la figlia, anche se sposata, spettava solo al padre). L'impunità concessa da Augusto era dunque meno estesa di quella prevista da Draconte, ma nei secoli dell'impero si ampliò molto sensibilmente. Solo nel 556 Giustiniano cercò di limitare le uccisioni, con una regola sulla quale vale la pena soffermarsi: per uccidere impunemente i mariti dovevano preventivamente inviare all'amante tre diffide scritte. Una regola molto discussa, specchio ed esempio di una lunga, veramente lunghissima durata delle mentalità. Per secoli, infatti, la regola delle tre diffide, sempre in vigore, venne osteggiata suscitando crudeli ironie. Quando, nell'XI secolo, il diritto romano ricominciò a essere studiato nelle università, i giuristi si divertivano redigendo dei formulari quali ad esempio (riportato da Giovanni Nevizzano d'Asti tra XV e XVI secolo), quello che così suonava: «Io, Martino di Cornigliano in questi scritti denunzio te, Tristano de Bravi, perché ti sospetto di commettere adulterio con mia moglie. Astieniti dunque dall'incontrarti con lei e dal parlare con lei. Se lo farai, io dichiaro in questi scritti che userò contro di te del rimedio concesso dal diritto...». Superfluo notare lo sbeffeggio del marito, il cui nome, Martinus de Cornigliano, è una dotta attestazione dell'antichità di due termini che tornano con frequenza non solo nel linguaggio popolare, ma nelle successive opere della giurisprudenza: «cornua» e «cornutus». Ma proseguiamo: sul finire del XVI secolo (1583), Giulio Claro Alessandrino scrive che i mariti non osavano denunciare la moglie adultera «per non incorrere nell'infamia perpetua che ricade su di loro a causa di una malvagia consuetudine»: i giudici infatti - scrive Felino Sandeo - deridevano chi proponeva un'accusa di adulterio, al punto che per i mariti saggi era meglio «tenersi le corna ("cornua") nel petto». Oppure uccidere, con margini di impunità sempre più ampi. Il Senato milanese, ad esempio (sentenza 26 aprile 1588) stabilì che l'onore del marito era offeso dal semplice fatto che si potesse pensare che egli era «cornutus», e successive sentenze dichiararono che era suo dovere uccidere la moglie adultera e il complice. E così, rafforzata dal consenso costante della giurisprudenza, l'idea che l'onore familiare fosse legato al comportamento sessuale femminile superò anche il secolo dei Lumi. Neppure la critica illuminista, infatti, mise in discussione la causa d'onore che, nel 1810, arrivò nel primo codice penale francese come causa di totale esclusione della pena. Diverse le previsioni delle legislazioni italiane, per le quali la causa d'onore non escludeva totalmente la pena, si limitava a limitarla. Ma allo stesso tempo estesero l'attenuante alla moglie che uccideva il marito traditore e alla madre e alla sorella che uccidevano figlia o sorella, anche se non sposata. E da questi codici la regola giunse al primo codice unitario (Zanardelli, 1890), e nel 1930, pressoché invariata, al codice Rocco, che non richiedeva più che gli amanti fossero sorpresi in casa e in flagranza. Bastava che l'assassino agisse «nell'atto in cui scopriva» la relazione illegittima. Così che la «causa d'onore» veniva concessa, ad esempio, a chi aveva scoperto la relazione aprendo una lettera o ascoltando una telefonata. Le innovazioni introdotte dai codici italiani, dunque, erano state notevoli. Ma i custodi dell'onore familiare erano sempre gli uomini: l'estensione del beneficio era stata concessa alla moglie in considerazione dei suoi «sentimenti di affetto», e a madri e sorelle perché il comportamento sessuale illecito di un'altra donna della famiglia metteva in discussione la loro onestà. Per vedere cancellato questo articolo, lo abbiamo detto, si è dovuto attendere il 1981. Ma non sono mancate sentenze successive che hanno concesso a chi aveva ucciso per causa d'onore l'attenuante di aver agito «per motivi di particolare valore morale o sociale». E le cronache odierne, purtroppo, ci costringono a ricordare che esistono ancora sacche nelle quali questa mentalità non è sparita. Una ragione in più per studiare i classici: oltre che per i loro grandissimi lasciti, anche per alcune imbarazzanti eredità, che ci aiutano, comunque, a orientarci in questo difficile presente.
«Corriere della Sera» del 27 giugno 2012

20 giugno 2012

Darwin e la Bibbia. E Ratzinger rispose

Nel 1985 l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Joseph Ratzinger tenne 6 lezioni alla Fondazione Sankt Georgen in Carinzia, 4 delle quali dedicate al tema della creazione tra Bibbia e scienza. Quei testi finora inediti in italiano vengono oggi raccolti (insieme a un altro scritto del Papa sulla comprensione della fede nella creazione, già pubblicato nel 1969) nel volume Progetto di Dio. La creazione per la Marcianum Press (pp. 208, euro 19). Proponiamo in questa pagina stralci dell’introduzione di Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia università Santa Croce
di Giuseppe Tanzella-Nitti
In merito al confronto fra teolo­gia della creazione e pensiero scientifico, le pagine delle lezio­ni tenute in Carinzia nel 1986 tra­smettono alcune intuizioni, o co­munque contengono alcune linee­guida su come Joseph Ratzinger sembra volersi accostare a questa delicata tematica. Esaminiamole brevemente. Un primo elemento è l’intento dell’autore, comune anche ad altri suoi scritti, di proporre una pro­spettiva unitaria della Sacra Scrit­tura, proponendo al contempo u­na visione dinamica della sua sto­ria redazionale, riflesso del pro­gresso dell’esperienza religiosa di Israele. La verità di un testo non va cercata solo ricostruendo il più precisamente possibile le sue origi­ni storico-filologiche, muovendosi all’indietro, ma bisogna anche guardare avanti: la verità del testo è nel suo compimento, in Cristo, in accordo con quanto l’esegesi patri­stica aveva suggerito. Un secondo elemento che caratte­rizza la teologia biblica di Ratzin­ger in relazione alla rivelazione delle verità sulla creazione è sotto­lineare il valore positivo di tutto ciò che accomuna, nelle stesse pagine della Scrittura, l’esperienza religio­sa di Israele con l’esperienza au­tenticamente religiosa vissuta dagli altri popoli. Se le differenze specifi­che parlano del modo in cui la Pa­rola di Jahvé si erge sul mito, quan­do quest’ultimo viene inteso come 'favola', le comunanze, altrettanto importanti, parlano invece della ri­velazione e del compimento del mito, quando questo viene inteso come un contenuto veritativo ar­caico dalle forti basi antro­pologiche. Tale impostazio­ne conduce Ratzinger a prendere le distanze da Karl Barth. L a correzione di rotta è, in proposito, esplicita: «Sono cresciuto teolo­gicamente nell’era di Karl Barth – egli afferma ricor­dando i suoi anni universitari – ed anche i miei insegnanti erano tutti profondamente segnati da lui, in modo tale che la distinzione di ciò che è cristiano, il differire dalle al­tre culture e religioni era come la prima parola del nostro pensiero teologico. Ora, quanto più vado a­vanti con la teologia, tanto più mi si fa chiaro, nell’esperienza e nella conoscenza, che egli aveva torto. La cognizione dell’unità delle cul­ture nelle più profonde questioni dell’esistenza umana è una cosa assolutamente decisiva, perché le culture comunicano e dunque restano aperte anche su quel tema [il creato], per l’appunto, decisivo». Un terzo aspetto di estremo inte­resse è l’insistenza con cui il già ar­civescovo di Monaco e Frisinga vuole evitare una separazione net­ta fra lettura spirituale e lettura scientifica del mondo creato. Egli non ritiene corretta l’idea che la verità della Scrittura si difenda me­glio relegando il discorso biblico in un ambito spirituale, vale a dire privandolo della sua capacità di formulare giudizi sulle verità naturali, dimenticando così che la Paro­la di Dio getta luce anche sul modo di guardare la natura, di conoscerla e di comprenderne l’intima intelli­gibilità. Chiaro l’intento di Ratzin­ger di proporre una dottrina della creazione capace di mantenere la duplice prospettiva di una creatio ex nihilo e di una creatio ex amore, tenendo così insieme il versante metafisico e quello esistenziale, il fondamento ontologico e il Dio personale, la Dei Filius e la Gau­dium et spes. Ambedue gli approcci sono oggi necessari e dimenticare anche uno solo dei due farebbe perdere un contenuto essenziale. Il fondamento ontologico è indispensabile al dialogo con le scienze naturali ed è in grado di raccordar­si con le aperture dell’analisi empi­rica verso l’esistenza di un fonda­mento dell’essere e l’intelligibilità di tutte le cose. All’epoca in cui Ratzinger teneva le sue meditazio­ni in Carinzia, era ancora viva l’eco suscitata dal libro di Jacques Mo­nod Il caso e la necessità (1970), pubblicato 15 anni prima. Con l’opera del biologo fran­cese egli entra spesso in dia­logo ideale, rileggendo l’al­ternativa monodiana fra caso e ne­cessità in termini di un’alternativa fra gratuità della contingenza e ne­cessità delle leggi di natura, propo­nendo di collegare la prima all’in­tenzionalità dell’amore che si erge sui fenomeni empirici o comun­que conoscibili solo empiricamen­te. Ratzinger accoglie e valorizza le differenze esistenti fra un organi­smo e una macchina elencate da Monod e attribuisce la specificità del primo a un supplemento di informazione che esso contiene e trasmette, di cui non teme di se­gnalare la risonanza platonica, se­condo una forma che l’organismo è in grado di riprodurre. Riveste senza dubbio interesse il modo con cui il teologo tedesco affronta la questione dei meccanismi darwiniani dell’evoluzione biologi­ca, che al sottolineare l’aleatorietà delle mutazioni genetiche sembre­rebbero mettere in crisi la visione, in maggior sintonia con la fede, di una vita che ascende in modo ordi­nato e finalistico da forme inferiori e sem­plici ver­so forme superiori e sempre più organizzate, fino all’uomo. Come potrebbero degli errori casuali nella trascrizio­ne del patrimonio genetico essere alla base del meccanismo evoluti­vo della vita, divenendo così inte­ramente responsabili della specifi­cità dell’essere umano, di quella medesima creatura che la fede cri­stiana confessa essere a immagine e somiglianza di Dio? Ratzinger è consapevole della sfida che i mec­canismi darwiniani sembrano por­re alla fede: «Siamo un prodotto di errori casuali accumulati. Anche questa, credo, è una diagnosi mol­to profonda e un’immagine del­l’uomo ». La contro-risposta che e­gli fornisce è prudente, ed in certo modo interlocutoria. Si lascia alla scienza il compito di fare il suo cor­so, di esaminare se non esistano al­tri fattori, altrettanto importanti, nell’evoluzione biologica, fattori (che oggi sappiamo operativi) che favoriscano piuttosto la stabilità delle proprietà della natura, delle regole alle quali la stessa evoluzio­ne debba in definitiva conformarsi, il suo 'platonismo' se ci si consen­te l’espressione… La fede sembra dirci, osserva Ratzinger, che tali fattori deb­bano esistere; tuttavia, egli non precisa a quale livello cercarli, ma si limita ad indicare che se gli elementi che privilegerebbero la stabilità dell’informazione o il suo ordinato dispiegarsi venissero ne­gati sul piano empirico, essi emergerebbero prima o poi sul piano delle descrizioni globali e globaliz­zanti, come dimostra il fatto che nelle descrizioni dei biologi la Na­tura venga spesso impersonificata, indicando in essa un 'soggetto' a­stratto capace di unificare in modo fittizio (e dunque surrettiziamente progettuale) l’intero processo evo­lutivo. È questo genere di 'sostitu­zioni' che, secondo Ratzinger, non dovrebbero essere accettate, la­sciando invece che le categorie spi­rituali siano riconosciute come tali, e dunque impiegate per esprimere lo spirito, non la materia. Di fronte a questo stato di cose, ed indipen­dentemente dal modo in cui com­porre l’apparente alternativa, egli ribadisce la convinzione ferma, as­sunta dalla fede nella Rivelazione, che l’essere dell’essere umano (val­ga la ridondanza) è il risultato di un progetto di Dio e non una som­ma di errori di trascrizione. Porre la casualità a livello ontologico equi­varrebbe ad elevare il darwinismo a rango di filosofia globale, ed è questa prospettiva, non l’aleato­rietà degli errori di trascrizione nel Dna, a non essere più compatibile con il messaggio della Rivelazione.
«Avvenire» del 6 giugno 2012