17 luglio 2012

Chiediamo all'infinito

Il vuoto (la vacanza) è lo stampo di Dio
di Alessandro D'Avenia
Leggevo in questi giorni uno spietato romanzo sulla vita di un rapinatore e assassino degli anni 50, ambientato nei bassofondi di Los Angeles. Dopo aver messo a segno un colpo da mezzo milione di dollari, si ritrova in una casa con vista sul mare a godersi il bottino: «Quando sono arrivato quaggiù è stato come arrivare alla fine dell’arcobaleno, nel luogo baciato dal sole che appartiene ai sogni di tutti. Era tutto quello che desideravo dalla vita: semplicità, una spiaggia, la pace. Ma la pace si è trasformata in noia e solitudine». Giorno dopo giorno la noia lo assale, lo divora da dentro. Non basta mezzo milione di dollari da spendere in divertimenti a trovar pace. Ha bisogno di riempire il vuoto e allora, pur sapendo di rischiare la cattura dal momento che è un super-ricercato, comincia a preparare un altro colpo.
Ci si può annoiare anche in vacanza, e siamo disposti persino a scegliere il rischio pur di lenire il vuoto profondo che ci afferra.
Il vuoto. Non credo che in altre epoche della storia sia stato concesso il privilegio di sentire la morsa disperante del non senso, come nella nostra o almeno nella forma cristallina che ha raggiunto oggi.
C’è stata un’epoca in cui gli uomini sapevano di essere finiti, dentro l’infinito di Dio, e per questo interpretavano ogni cosa finita come segno dell’infinito. Venne poi un’epoca in cui il finito si rese autonomo dall’infinito ed esplorò tutti gli angoli della sua finitezza, scoprendo cose che prima non sospettava.
Si sentì più solo, ma sapeva di essere sorvegliato dall’infinito, così si rassicurava anche se cominciava ad averne paura. Venne poi un tempo, il nostro, in cui il finito non volle essere più rassicurato né impaurito, accantonò l’infinito e si rese del tutto autonomo, tanto da diventare infinito o credere di esserlo. Il prezzo pagato fu che insieme alla sua raggiunta infinitezza sperimentò l’infinitezza del suo limite: emerse il vuoto in forma nitida, come uno stampo svuotato, perfettamente pulito, ma privo della sua sostanza.
Si decise allora di riempirlo dell’ottimismo delle "cose da fare" per scacciare quel vuoto, ma nessuna coincideva con lo stampo e le troppe cose si rivelarono ingombranti, e si rompevano pure. Nacque così la vacanza: per svuotare di nuovo lo stampo dalle cose di cui lo si era riempito, e tornò la violenta evidenza del vuoto e si desiderò tornare al pieno di cose da fare, pur di non sentire con tale forza l’assenza perturbante. E si cominciò a pendolare, inquieti. Riempi e svuota.
L’assenza di infinito ci costringe a rendere infinito tutto: lavoro e vacanza. Andiamo in vacanza come uno che spegne il computer quando è andato in tilt, perché il lavoro è solo schiavitù funzionale a guadagnarsi la vacanza. Trattiamo l’anima come un interruttore: on/off. E non troviamo pace.
Cesare Pavese in alcune delle sue poesie più belle di Lavorare stanca dipinge questo tedio che ci sorprende all’alba o alla sera: «Poi la notte, che il mare svanisce, si ascolta / il gran vuoto ch’è sotto le stelle... / L’uomo, stanco di attesa, / leva gli occhi alle stelle, che non odono nulla... / Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno / in cui nulla accadrà... / Vale la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci?».
Attendiamo la vacanza come se potesse risolvere il nostro infinito desiderio di felicità, minacciato dalla schiavitù del lavoro, ma la vacanza, impietosa, ci mostra il vuoto che abbiamo coperto con i troppi impegni feriali. Così l’attesa si fa ancora più dolorosa e delusa e le stelle in cui avevamo sperato non ci ascoltano. Cerchiamo la compagnia in spiagge affollate e locali rumorosi, che pochi giorni prima fuggivamo. Cerchiamo divertimenti ancora più impegnativi di un lavoro che avevamo vissuto come alibi al vuoto. E non troviamo pace, perché l’anima non è un interruttore e il corpo la sua lampadina che prima o poi si fulmina, ma un’unità che ha pace solo quando è unità.
Per questo credo che, suo malgrado, l’uomo di quest’epoca, guardando lo stampo mal riempito o vuoto, potrà più facilmente chiedere all’infinito di tornare. L’infinito lo ascolterebbe e si riverserebbe subito dentro di lui, come una grazia, colmandone di pace ogni angolo. Il tedio non è da disprezzare: altro non è che la percezione dell’assenza dell’immagine che siamo. L’immagine del Dio fatto carne.
«Avvenire» del 16 luglio 2012

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