23 gennaio 2013

A quali condizioni ha senso il giorno della memoria

Shoah
di Giorgio Pressburger
​È servito agli esseri umani ricordare eventi luttuosi per evitare il ripetersi di questi eventi? No. Con l’andare del tempo la ferocia è aumentata, la capacità di uccidere o di torturare è diventata sempre più diffusa e a portata di tutti. È servito all’umanità dimenticare quegli eventi, non saperne più nulla, ignorarli, come se mai fossero accaduti?
È servito sapere che sono avvenuti e far finta che non sia successo nulla? No. Allora la natura umana, la propensione alla violenza, alla ferocia, all’assassinio è ineliminabile, la civiltà non avanzerà mai, nel diventare meno crudele, meno violenta, meno egoista? Rassegnarsi a un’idea simile sarebbe terribile. Non riconoscerne la realtà e andare avanti alla cieca è altrettanto vano e illusorio. Ed è probabilmente per questo che è nata la decisione di dedicare almeno un giorno dell’anno al ricordo degli orrori messi in atto settant’anni fa, all’epoca in cui sono nati i genitori di uomini che oggi hanno circa trent’anni. E le vittime a quell’epoca erano i nonni di quei trentenni, i loro zii, i cugini.
Ora i mezzi di comunicazione di massa sciorinano ogni giorno numeri spaventosi sugli esseri umani uccisi il giorno prima. Ne parlano come di noccioline, a volte ne esagerano la portata soltanto per incutere orrore e paura, non per offrire una possibile maniera di far cessare i massacri o per offrire una conoscenza obiettiva dei fatti. Molte cose vengono falsificate in una direzione o nell’altra. Si mostrano feretri, corpi dilaniati soltanto come simboli, non come corpi di persone umane esistite, ciascuna con la sua storia, lo svolgersi della sua vita tra tanti stenti, tanto faticare, tanto gioire, tanto pensare, tanto piangere. Ovviamente nulla di questo è volto a migliorare l’uomo, a impedire il ripetersi, l’estendersi del male, della violenza, degli eccidi. Tutto questo mette fortemente a repentaglio l’utilità vera dei Giorni della Memoria, del moltiplicarsi di monumenti eretti per rammentare lotte, sacrifici, ideali.
Che cosa si può fare per impedire che in questo modo tutto finisca in retorica, in vuoti cerimoniali consumati in un giorno, per continuare, nei rimanenti 364 giorni dell’anno a perpetrare gli stessi delitti, gli stessi abusi e le stesse violenze appena ricordati? Sarebbe meglio allora creare Giorni dell’Oblio? O usanze comuni per dimenticare, come si fa a San Pietroburgo dove si festeggiano matrimoni con tanto di spumante e calici, nel grande cimitero in cui sono seppelliti i cinquecentomila morti periti durante l’assedio della città per opera dell’esercito nazista? Nobile cerimonia in onore della vita che continua, ma è quella la strada giusta per il ricordo? Può anche darsi.
Però occorre pure ricordare quei morti che si avviavano verso le camere a gas di Auschwitz cantando preghiere. Lì si trattava del progetto di cancellare dalla faccia della Terra un popolo intero additato come portatore di male. C’è la possibilità di rievocare quei delitti senza precedenti nella Storia dell’umanità? Interi popoli sono scomparsi nel fiume spietato del tempo e della Storia, ma non così, cioè come esecuzione di un piano scientifico, meditato, ponderato e preparato fin nei minimi dettagli.
Sono passati settant’anni, i ragazzi di oggi non riescono a immaginare nemmeno lontanamente che cosa potesse essere avvenuto nei campi di sterminio dove sono portati in visita, Tutto può essere soltanto una sorta di messa in scena, uno spettacolo allestito apposta. E per giunta ci sono anche gruppi di individui che negano tutto, negano che quegli eventi siano veramente accaduti. Lo negano già da tempo, nonostante gli ultimi sopravvissuti siano ancora oggi tra noi, parlino, si muovano. Fautori di ideologie, gruppi di sedicenti religiosi corrono in aiuto a costoro, allenati come sono alla menzogna. Ricordare o dimenticare, ricordare e condividere quei ricordi con quelli che erano stati gli autori di quei delitti?
È il giorno delle tante, infinite domande quello che noi chiamiamo il Giorno della Memoria. Come è potuto accadere quello che ricordiamo? E come dobbiamo ricordarlo? Non sarebbe meglio ricordare, (come fanno gli ebrei durante il Pesach, la Pasqua ebraica) in che modo quel popolo è riuscito a liberarsi dalla schiavitù? Noi viviamo ancora in quella schiavitù, nella schiavitù della violenza, dell’eccidio, del sopruso ufficialmente autorizzato. Quando e come ce ne libereremo? Dobbiamo trovare la strada che ci conduca verso la liberazione da questa schiavitù, o sarà l’intera umanità, non un singolo popolo, a scomparire.
«Avvenire» del 21 gennaio 2013

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