30 aprile 2013

L’alterazione individualistica porta a «diritti insaziabili»

Le nozze gay e la relazione (che non è solo gratificazione)
di Francesco D'Agostino
Ho molto apprezzato la chiarezza, serena e ferma, con la quale il direttore di questo giornale, stimolato da una serie di lettere, ha commentato e ha risposto sul tema delle nozze gay e delle adozioni omoparentali, facendo lo scorso 25 aprile due promesse ai lettori: da una parte quella di non tacere mai sulle grandi questioni della vita e della famiglia e dall’altra di non venire mai meno al «rispetto» e alla «delicatezza» verso le persone omosessuali (rispetto e delicatezza che peraltro l’insegnamento della Chiesa raccomanda esplicitamente). Vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione, cui anch’io ho già altre volte fatto cenno dalle colonne di Avvenire e che è già implicita nelle riflessioni del direttore Tarquinio. Non dobbiamo, mai, in nessun caso, cadere nell’errore di pensare che il processo di ridefinizione del matrimonio che si sta vistosamente e velocemente manifestando nelle parti più disparate del mondo (dall’Europa all’Oceania alle due Americhe) vada attribuito alle manovre oscure e ai sottili e diabolici progetti di subdole lobby omofile, ferocemente e astutamente ostili alla tradizione cristiana. Con questo non intendo negare che esistano movimenti ideologici molto ben strutturati a favore dei diritti dei gay (tra i quali in primo luogo il preteso diritto al matrimonio), movimenti che si contrassegnano per quanto sono vistosamente (e persino H volgarmente) combattivi e per la sottigliezza con la quale individuano i loro obiettivi (si pensi alle battaglie contro l’omofobia, in sé e per sé assolutamente giustificate, ma che spesso si trasformano in battaglie finalizzate a censurare e ad escludere dal dibattito pubblico chiunque voglia serenamente riflettere sulla "naturalità" della differenza sessuale). Non sono però questi movimenti i responsabili dei fenomeni di alterazione del matrimonio che si moltiplicano sotto i nostri occhi. La rivendicazione dell’omoconiugalità e i trionfi che essa arriva oggi a celebrare in tanti Paesi di cultura occidentale sono una diretta conseguenza di una ben nota dinamica di alterazione antropologica, che possiamo sintetizzare in un termine ormai abusato, ma dotato di un’assoluta precisione: l’individualismo.
L’uomo moderno vede unicamente se stesso al centro dell’universo (o almeno del "suo" universo) e non riesce a dare alla relazione alcun valore se non quello di gratificazione della sua propria individualità. In tal modo il matrimonio, da istituzione antropologica volta a garantire l’ordine delle generazioni e a confermare la nostra appartenenza alla "famiglia umana" si è trasformato in uno strumento, tutto sommato occasionale e quindi fragilissimo, per la realizzazione del bene "privato", non però della coppia, ma dei singoli individui che trovano gratificazione nel loro rapporto (finché trovano tale gratificazione, cioè fino al divorzio ).
La stessa esperienza della genitorialità viene rimodulata e alterata dall’individualismo in chiave di auto-gratificazione dei genitori, che sempre più spesso ricorrono alla procreazione assistita non come terapia della sterilità, ma come tecnica per soddisfare il loro desiderio soggettivo di avere "un figlio a tutti i costi". Tutto qui. È conseguente quindi che, leggendo in tal modo il matrimonio e la procreazione, non solo non si riesca più a trovare una valida ragione per negarli agli omosessuali, ma si inquadri questa battaglia nel contesto della lotta per i diritti umani, ormai anche essi impazziti e divenuti, a causa del dilagante individualismo, "insaziabili". Non ci si oppone efficacemente alle nozze gay considerando questo un tema circoscritto e traendo eventualmente soddisfazione da dighe provvisorie e fragilissime che è possibile alzare contro i progetti di legge in materia. Bisogna riportare la questione alle sue radici e mostrare come il futuro che ci attende o sarà relazionale o – letteralmente – non sarà, perché l’ordine sociale, l’economia, la promozione dei valori umani e culturali, la tutela dei soggetti più deboli non trovano risposte in un orizzonte individualistico, ma in un orizzonte relazionale e generazionale, segnato dal mistero della differenza complementare tra l’uomo e la donna. È all’incapacità tutta moderna di leggere in profondità la nostra identità sessuale, prima ancora che ai movimenti gay, che siamo chiamati a reagire con fermezza, senza mai venir meno a quel «rispetto» e a quella «delicatezza» verso tutti in cui si deve riassumere la sensibilità dei cristiani.
«Avvenire» del marzo 2013

Brague: XXI secolo, fine dell'uomo?

di Daniele Zappalà
Con il saggio Le Propre de l’homme. Sur une légitimité menacée (Ciò che è proprio all’uomo. Su una legittimità minacciata), appena pubblicato in Francia da Flammarion, il celebre filosofo Rémi Brague ha aggiunto un nuovo tassello alla propria critica delle derive contemporanee di stampo "antiumanista", venate talora di nichilismo o di un relativismo radicale. Per il pensatore, docente a Parigi e a Monaco di Baviera, anche nel contestatissimo progetto di legge socialista francese sulle nozze e adozioni omosessuali, risuona in parte un più generale processo di fondo che, soprattutto in Europa, tende a svalorizzare la legittimità umana.
Nel suo ultimo saggio, lei rintraccia la storia di una minaccia di lungo corso contro la nostra concezione tradizionale di ciò che è "umano". Da dove proviene questa minaccia?
«In ultima istanza, paradossalmente, proviene dal successo stesso del progetto umanista, nella sua ultima tappa. Non quella che sottolineava la dignità dell’uomo, nella Bibbia, nei Padri della Chiesa e nei pensatori medievali, poi nel Quattrocento. Ma già un po’ in quella che lo lanciava alla conquista della natura, con Francis Bacon. Poi, certamente, in quella che non tollera nulla di superiore all’uomo: né natura, né angeli, né Dio. Ma in tal modo, l’uomo è privato di qualsiasi punto di riferimento. L’uomo non può più sapere se è un bene continuare a esistere e dunque se occorre proseguire l’avventura umana assicurando la riproduzione della specie».
Questa minaccia soffia sul nostro collo pure in quest’inizio di millennio?
«Eccome! È persino più presente che mai. Vi è innanzitutto la presenza di mezzi del tutto concreti per farla finita con l’umanità: le armi nucleari e biologiche, l’inquinamento terrestre e infine, più discretamente, l’inverno demografico. Quest’ultimo colpisce soprattutto le regioni più sviluppate, più istruite, più democratiche. Nel peggiore dei casi, rischia di prodursi l’estinzione pura e semplice della specie, o almeno una sorta di selezione fra le più stupide. Vi è poi il sogno di un superamento dell’umano, che è vecchio almeno quanto Nietzsche. Oggi, questo sogno di un "superuomo" è rafforzato dai progressi della biologia. Infine, c’è un dubbio dell’uomo su se stesso. L’uomo non sa più troppo bene se si distingue radicalmente dall’animale. E ancor meno se vale davvero di più. Una certa "ecologia profonda" sogna di sacrificare l’uomo alla Terra, assurta a una sorta di divinità».
Quali attori sociali o fattori agiscono per cancellare la distinzione fra ciò che è umano e ciò che non lo è?
«Il mondo scientifico ha perfettamente ragione quando cerca le tracce del pre-umano nell’uomo, o, al contrario, le prefigurazioni di comportamenti umani, ad esempio in certi grandi primati. Sarei invece più severo verso i divulgatori che sghignazzano con gioia malevola: "Vedete, in fin dei conti, non siete altro che arrivisti, delle scimmie che hanno avuto fortuna!". Fin dalla Prima guerra mondiale, degli autori influenti hanno attaccato l’idea di "umanesimo". Penso ad esempio al poeta russo Alexandr Blok, che ha inventato la parola "antiumanesimo". Negli anni Sessanta, in un clima intellettuale già preparato dalla Lettera sull’umanesimo di Heidegger, Louis Althusser e Michel Foucault, a un livello di profondità ben diverso, hanno attaccato, per ragioni diverse, ciò che chiamavano "umanesimo", senza del resto troppo definirlo».
Disponiamo di sentinelle di fronte a quest’offensiva silenziosa?
Al mio modesto posto, spero di essere uno fra loro. Ma mi guardo pure dai miei amici, i miei "alleati oggettivi". Poiché vi sono fra loro figure maldestre che tuonano contro l’antiumanesimo senza dire precisamente perché occorre difendere l’umano. Vi sono quelli che lottano per i diritti umani, il che è un’ottima cosa, ma che sono incapaci di spiegare perché l’uomo ha dei diritti. Vi sono poi coloro che non tengono affatto in considerazione ciò che vi è di vero nella protesta ecologica e nella preoccupazione di rispettare le altre creature».
Fino a che punto, il dibattito in corso in Francia attorno al progetto di legge Taubira sulle nozze e adozioni omosessuali è in risonanza con la sfida di fondo che lei analizza?
«Fino a un certo punto. La maggioranza dei difensori della legge sono animati da buoni sentimenti, come il desiderio di uguaglianza o la compassione verso persone a lungo disprezzate. Ma la legge ha una sua logica interna. Autorizzare l’adozione per le coppie omosessuali, dunque necessariamente non feconde, conduce inevitabilmente alla procreazione artificiale (detta "assistita dalla medicina") e all’affitto dell’utero (chiamato "gravidanza surrogata"). Il bambino diventa in tal modo un oggetto che si fabbrica e compra, un bene di comodo al quale si "ha diritto". Ciò conduce a cancellare la differenza non fra l’umano e l’animale, ma fra le persone e le cose. I nostri socialisti (che di fatto occorrerebbe chiamare "societalisti" come ormai in uso in Francia, si distingue qui fra chi auspica riforme sociali, per la società, e chi promuove "riforme della società", ndr) marciano così verso il trionfo estremo del capitalismo: l’uomo divenuto merce».
Per lei, delle nuove articolazioni fra la ragione, da un lato, e un sentimento al contempo umanista e religioso, sono possibili ...
«Più che possibili, sono necessarie, se l’umanità vuole innanzitutto sopravvivere. E poi, se vuole restare davvero umana, cioè razionale. Lanciare appelli alla natura o all’istinto per assicurare l’avvenire dell’umanità, affidare all’irrazionale il destino del cosiddetto "animale razionale", è una dimissione della ragione, un autentico tradimento della filosofia».
Siamo ben attrezzati, per così dire, per elaborare un "pensiero del Bene"?
«Possiamo cominciare attingendo alle fonti della nostra cultura. Ho concluso il mio libro con una meditazione dal primo racconto della creazione nella Genesi, al termine del quale Dio dichiara che ciò che Egli ha fatto è "cosa molto buona". Si potrebbe pure invocare il platonismo con la sua "Idea del Bene". Ma occorrerebbe ripensare tutto ciò in profondità, per poterlo riproporre con qualche speranza di convincere».
«Avvenire» del 30 aprile 2013

L'incantesimo di papa Francesco

La sua popolarità è in buona misura legata all'arte con cui parla. Tutto gli viene perdonato, anche quando dice cose che dette da altri verrebbero investite dalle critiche. Ma le prime proteste cominciano ad affiorare
di Sandro Magister
Ha fatto rumore, sui media, il cenno critico che papa Francesco ha riservato allo IOR, Istituto per le Opere di Religione, la discussa "banca" vaticana, nell'omelia della sua messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, mercoledì 24 aprile: "Quando la Chiesa vuol vantarsi della sua quantità e fa delle organizzazioni, e fa uffici e diventa un po’ burocratica, la Chiesa perde la sua principale sostanza e corre il pericolo di trasformarsi in una ONG. E la Chiesa non è una ONG. È una storia d’amore... Ma ci sono quelli dello IOR… Scusatemi, eh!… Tutto è necessario, gli uffici sono necessari… eh, va bè! Ma sono necessari fino ad un certo punto: come aiuto a questa storia d’amore. Ma quando l’organizzazione prende il primo posto, l’amore viene giù e la Chiesa, poveretta, diventa una ONG. E questa non è la strada".
Queste sue omelie mattutine papa Jorge Mario Bergoglio le pronuncia interamente a braccio. E la frase riportata sopra è la trascrizione letterale fornita poche ore dopo dalla Radio Vaticana. Ma lo stesso giorno, nel riferire in altro modo la stessa omelia, "L'Osservatore Romano" ha tralasciato l'inciso: "Ma ci sono quelli dello IOR… Scusatemi, eh!". Questa disparità tra la radio e il giornale della Santa Sede è un indizio dell'incertezza che ancora regna in Vaticano su come trattare mediaticamente le omelie feriali del papa, quelle che egli pronuncia nella messa delle 7, nella cappella della residenza in cui abita.
A queste messe accede un pubblico selezionato, ogni mattina diverso. E il 24 aprile c'erano tra i presenti un buon numero di dipendenti dello IOR. Queste omelie del papa vengono interamente registrate. Ma non seguono l'iter dei suoi discorsi ufficiali, per le parti improvvisate a braccio. Non vengono cioè trascritte dalla registrazione audio, poi messe in bella copia nella lingua e nei concetti, poi sottoposte al papa e infine rese pubbliche nel testo approvato. Il testo integrale delle omelie feriali di papa Bergoglio resta segreto. Ne vengono solo forniti due parziali resoconti, dalla Radio Vaticana e da "L'Osservatore Romano", redatti indipendentemente tra loro e quindi con una maggiore o minore ampiezza delle citazioni testuali. Non si sa se questa prassi – mirata sia a tutelare la libertà di parola del papa, sia a difenderla dai rischi dell'improvvisazione – verrà mantenuta o modificata. Sta di fatto che quanto si sa di queste omelie semipubbliche è ormai una parte importante dell'oratoria tipica di papa Francesco. È un'oratoria stringata, semplice, colloquiale, imperniata su parole od immagini di immediata presa comunicativa.
Ad esempio:
- l'immagine "Dio spray", usata da papa Francesco il 18 aprile per mettere in guardia dall'idea di un Dio impersonale "che è un po’ dappertutto ma non si sa cosa sia";
- oppure l'immagine "Chiesa babysitter", usata il 17 aprile per stigmatizzare una Chiesa che solo "cura il bambino per farlo addormentare", invece che agire come una madre con i suoi figli;
- oppure la formula "cristiani satelliti", usata il 20 aprile per bollare quei cristiani che si fanno dettare la condotta dal "senso comune" e dalla "prudenza mondana", invece che da Gesù.
Stefania Falasca, amica da tempo di Bergoglio – che le telefonò la sera stessa della sua elezione a papa –, gli ha chiesto dopo una messa mattutina alla Domus Sanctae Marthae: "Padre, ma come le vengono queste espressioni?". "Un semplice sorriso è stata la sua risposta". A giudizio di Falasca, l'uso di tali formule da parte del papa "in termini letterari si chiama 'pastiche', che è appunto l’accostamento di parole di diverso livello o di diverso registro con effetti espressionistici. Lo stile 'pastiche' è oggi un tratto tipico della comunicazione del web e del linguaggio postmoderno. Si tratta dunque di associazioni linguistiche inedite nella storia del magistero petrino".
In un editoriale del 23 aprile sul quotidiano della conferenza episcopale italiana "Avvenire", Falasca ha avvicinato l'oratoria di papa Francesco al "sermo humilis" teorizzato da sant'Agostino. Papa Bergoglio introduce questo stile anche nelle omelie e nei discorsi ufficiali. Ad esempio, nell'omelia della messa crismale del Giovedì Santo, nella basilica di San Pietro, ha molto colpito il suo esortare i pastori della Chiesa, vescovi e preti, a prendere "l'odore delle pecore". Un altro tratto tipico della sua predicazione è l'interloquire con la folla, sollecitandola a rispondere in coro. L'ha fatto per la prima volta e ripetutamente al "Regina Coeli" di domenica 21 aprile, ad esempio quando disse: "Grazie tante per il saluto, ma anche salutate Gesù. Gridate 'Gesù' forte!". E il grido "Gesù" salì effettivamente da piazza San Pietro. La popolarità di papa Francesco è dovuta in buona misura a questo suo stile di predicazione e alla facile, diffusa fortuna che hanno i concetti su cui egli più insiste – la misericordia, il perdono, i poveri, le "periferie" – visti riflessi nei suoi gesti e nella sua stessa persona. È una popolarità che fa velo alle altre cose più scomode che egli pure non manca di dire – ad esempio con i suoi frequenti richiami al diavolo – e che dette da altri scatenerebbero critiche, mentre a lui si perdonano.
In effetti, i media hanno sinora coperto di indulgenza e di silenzio non solo i riferimenti dell'attuale papa al diavolo ma anche tutta una serie di altri suoi pronunciamenti su punti di dottrina tanto capitali quanto controversi.
Il 12 aprile, ad esempio, parlando alla pontificia commissione biblica, papa Francesco ha ribadito che "l'interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma dev’essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa". E quindi "ciò comporta l'insufficienza di ogni interpretazione soggettiva o semplicemente limitata ad un’analisi incapace di accogliere in sé quel senso globale che nel corso dei secoli ha costituito la tradizione dell'intero popolo di Dio". Di questa frustata del papa contro le forme di esegesi prevalenti anche in campo cattolico praticamente nessuno si è accorto, nel silenzio generale dei media.
Il 19 aprile, nell'omelia mattutina, si è scagliato contro i "grandi ideologi" che vogliono interpretare Gesù in una chiave puramente umana. Li ha definiti "intellettuali senza talento, eticisti senza bontà. E di bellezza non parliamo, perché non capiscono nulla". Anche in questo caso, silenzio.
Il 22 aprile, in un'altra omelia mattutina, ha detto con forza che Gesù è "l'unica porta" per entrare nel Regno di Dio e "tutti gli altri sentieri sono ingannevoli, non sono veri, sono falsi". Con ciò ha quindi ribadito quella verità irrinunciabile della fede cattolica che riconosce in Gesù Cristo l'unico salvatore di tutti. Ma quando nell'agosto del 2000 Giovanni Paolo II e il cardinale Joseph Ratzinger pubblicarono proprio su questo la dichiarazione "Dominus Iesus" furono contestati aspramente da dentro e fuori la Chiesa. Mentre ora che papa Francesco ha detto la stessa cosa, tutti zitti.
Il 23 aprile, festa di san Giorgio, nell'omelia della messa con i cardinali nella Cappella Paolina ha detto che "l’identità cristiana è un’appartenenza alla Chiesa, perché trovare Gesù fuori della Chiesa non è possibile".
E anche questa volta, silenzio. Eppure la tesi secondo cui "extra Ecclesiam nulla salus", da lui riaffermata, è quasi sempre foriera di polemica …
Questa benevolenza dei media nei confronti di papa Francesco è uno dei tratti che caratterizzano questo inizio di pontificato. La soavità con cui egli sa dire le verità anche più scomode agevola questa benevolenza. Ma è facile prevedere che prima o poi essa si raffredderà e lascerà il passo a un riaffiorare delle critiche. Una prima avvisaglia si è avuta dopo che papa Bergoglio, il 15 aprile, ha confermato la linea severa della congregazione per la dottrina della fede nel trattare il caso delle suore degli Stati Uniti riunite nella Leadership Conference of Women Religious. Le proteste che si sono subito levate da queste suore e dalle correnti "liberal" del cattolicesimo non solo americano sono suonate come l'inizio della rottura di un incantesimo.
«L'Espresso» del 30 aprile 2013

28 aprile 2013

Chi si ricorda della scuola?

Le scelte di ragazzi e famiglie e il disinteresse generale per il sistema
di Alessandro D’Avenia
I dati delle iscrizioni alle scuole superiori parlano chiaro: cala la richiesta di formazione umanistica (classico e scientifico tradizionale) e cresce quella applicata e spendibile (scientifico, nella versione scienze applicate senza latino, e lingue).
Questo riguarda quasi il 50% degli iscritti.
L’altra metà continua a guardare alla formazione professionale e tecnica che, per fortuna, rimangono forti (se solo le curassimo di più invece di farne troppo spesso un contenitore di frustrazioni sociali...). Le famiglie italiane e i loro figli si orientano quindi verso ciò che apparentemente dà più certezza di lavoro e quindi di futuro. Non tutti i mali vengono per nuocere. I ragazzi in questa epoca hanno bisogno di maggiore rigore logico. La loro relazione con la realtà è emotiva e reattiva.
L’abitudine al ragionamento astratto, alla logica matematica, potrebbe aiutare ad acquisire maggior raziocinio e dominio di sé. Potrebbe. Resta chiaro che la formazione umanistica è in declino, come la cultura occidentale. I licei classici sono spesso luoghi autoreferenziali in cui ci si lamenta del fatto che i ragazzi non leggono più, non si interessano più, lo schermo del loro smart­phone ​è stranamente più interessante delle declinazioni... Prevale la geremiade senza soluzione. Per carità, la geremiade ha la sua ragion d’essere, ma viene spesso e giustamente da un docente attempato che non ha stipendio e voglia sufficienti a cercare soluzioni totalmente o parzialmente nuove.
E non lo fa perché le soluzioni nuove – diciamocelo chiaro – richiedono più lavoro: più ore di lavoro. Se la scuola si salva è per il volontariato di quei docenti (di qualunque età) che amano lavoro e ragazzi e in qualche modo riescono a realizzare queste nuove pratiche in modo individuale o a piccoli gruppi, ma non riescono poi a farle diventare pratiche virtuose di sistema. Perché? Perché sono oggetto di invidia, pettegolezzo, minacce per il quieto e pigro vivere generale. Non basterebbe chiedere ai professori migliori cosa e come fanno?
Invece continuiamo a fare le nostre lezioni di greco, latino, italiano come si facevano vent’anni fa. Come le ho ricevute io, e allora andavano benissimo. Ma vent’anni fa la motivazione allo studio era implicita: realizzarsi, ripagare i genitori dei loro sacrifici e aspettative, rispettare l’autorità dei professori. Oggi il materiale umano è cambiato. La motivazione non è più implicita, ma va riconquistata con strategie diverse. Alla maggior parte dei ragazzi basta essere promossi, non importa ottenere voti alti, non servono neanche più per le facoltà a numero chiuso. Troppe le distrazioni e gli interessi conflittuali. Esaurite le motivazioni che portavano a certe professioni. È anche mutata la neurofisiologia del cervello: la logica aristotelica dei nessi causa-effetto è sovrastata dalla para-logica, basata su immagini ed emozioni più che su nessi causali.
Alle famiglie stesse sembra interessare relativamente che il figlio vada bene a scuola. L’importante è che non soffra troppo e trovi la facoltà giusta, e magari impari qualcosa che lo aiuti ad avere un lavoro. Il latino a cosa vuoi che serva? Eppure niente come il latino allena al problem solving , più della matematica, se volessimo fermarci a motivazioni puramente funzionali. Ma non è per questo che si studia il latino, piuttosto impara due lingue straniere alla perfezione (due lingue vive valgono una morta?). Ma quella del latino è un’altra storia, su cui nessuno sta ragionando e che quindi finirà come sembra inevitabile finisca: male, perdendo uno dei fiori all’occhiello del nostro curriculum. Il punto è che la prevalenza della geremiade blocca le nuove soluzioni, che devono essere pensate e condivise. Spesso le soluzioni circolano tra le nuove leve di insegnanti, ma per un giovane di 20-30 anni oggi entrare nella scuola è impossibile, a meno che non si tratti di scuola non statale. L’unico criterio meritocratico della scuola italiana attualmente è l’anzianità, e non credo sia più tollerabile, soprattutto a fronte di risultati che lasciano indifferenti solo perché non toccano borse e spread.
La crisi economica che ci troviamo ad affrontare è una crisi antropologica. È stata provocata da manager sconsiderati capaci di creare una bolla finanziaria dodici volte maggiore del Pil mondiale. Erano così bravi ad applicare le loro scienze che si erano dimenticati degli altri uomini.
Forse un po’ più di anima non guasterebbe. La formazione umanistica insegna a non agire solo per profitto, ma anche per gli altri. Famiglie e ragazzi anelano a un lavoro e giustamente cercano il modo più rapido per raggiungerlo. Ma non ho letto tra i punti irrinunciabili delle varie parti politiche qualcosa che riguardi il rinnovamento della scuola. Non interessa. La politica oggi è periferia dell’economia, eppure riguarda il bene comune: e, per realizzarlo, bisognerebbe prima capire cosa è il 'bene' e quando è 'comune'. Così l’economia ritornerebbe parte della politica e dell’uomo, e non viceversa. La scuola italiana ha un curriculum capace di affrontare la crisi dell’anima dell’Occidente, ma chi avrà forza, tempo e coraggio per rinnovarla di fronte alle sfide attuali, senza limitarsi a 'riorganizzarla'? Non basta una mano di vernice, ci vogliono motori nuovi, uno scafo ribattuto, un porto chiaro.
«Avvenire» del 27 aprile 2013

26 aprile 2013

Giù le mani dal tema in classe

di Dario Antiseri
​Ci sono ragazzi che, al termine della Scuola Media Superiore, non sanno scrivere neppure una lettera. E non sono pochi i laureandi per i quali la stesura della tesi rappresenta un ostacolo a volte insuperabile. E ciò non perché questi giovani non siano intelligenti o non conoscano i problemi e gli argomenti su cui scrivere, ma semplicemente perché non sanno più scrivere. E non sanno più scrivere perché disabituati a produrre testi argomentativi. La messa in secondo ordine o addirittura il sostanziale abbandono nelle nostre scuole del tema argomentativo è stato ed è l’equivalente di un furto formativo.
È fondamentale comprendere che fare un tema significa risolvere un problema. È questa una premessa da cui discendono conseguenze come queste: 1) il tema a sorpresa va eliminato perché comunque diseducativo; 2) il tema in classe va mantenuto; 3) va mantenuto, ma deve venir adeguatamente preparato; 4) la composizione è uno dei momenti più formativi della scuola; 5) può coinvolgere più insegnanti in un serio e basilare lavoro interdisciplinare sia nel momento della preparazione che nel momento della “valutazione”; 6) il tema libero ha la sua rilevanza.
Dunque: il tema a sorpresa va eliminato. E su questo argomento non è il caso di spendere troppe parole. A che serve un tema a sorpresa? Serve ad accentuare il distacco tra insegnante e alunni, stimola una poco precisata creatività, spinge gli alunni alla retorica («dove mancano i concetti – diceva Goethe – lì vengono fuori le parole») e li manda alla ricerca di quei libri dal titolo “Temi svolti”. Il tema a sorpresa è inutile, non serve cioè alla formazione dell’alunno; anzi è diseducativo. Provoca il disgusto della scuola. Ma tutto ciò non implica l’abolizione del tema. L’abolizione del tema è un tradimento che si perpetra nei confronti dell’alunno, rubandogli uno strumento essenziale di crescita. E rubandoglielo facendogli credere che questo è per lui un bene. L’abolizione del tema è un inganno di più.
Il tema va mantenuto. Argomentare su di un “tema” è una delle cose che ci fa umani. Si ha civiltà perché alla guerra delle spade abbiamo saputo via via sostituire la guerra delle parole. E mentre il linguaggio espressivo e quello segnaletico sono comuni agli animali e agli uomini, il linguaggio descrittivo e quello argomentativo sono sostanzialmente ed essenzialmente tipici dell’uomo. La vita è continua soluzione di problemi. Argomentare pro o contro una tesi, discutere un argomento, sviscerarlo, tentarne una soluzione, dimostrare l’infondatezza di altre tesi (proprie e altrui) è compito che ci si ripresenta senza sosta. Ecco perché occorre allenare i giovani a fare il tema: significa attrezzarli non solo di contenuti ma soprattutto di una metodologia adeguata a risolvere problemi. Significa scaltrirli e al medesimo tempo renderli consapevoli di quell’oceano di ignoranza dinanzi al quale siamo tutti uguali (perché essa è infinita). Significa renderli spiritualmente più autonomi e non passivi davanti all’autorità dell’esperto; vuol dire renderli più capaci di vagliarne l’eventuale autorevolezza.
Quindi il tema va mantenuto. Non va dato a sorpresa. E va preparato. Ma va preparato adeguatamente. E per una preparazione adeguata del tema non basta annunciarne il titolo in anticipo. Fare male una cosa, porta acqua o a chi questa cosa vuol abolire o a chi propone di farla peggio. In breve: sostenere che la preparazione del tema si riduce al solo annunciarne il titolo in anticipo non fa altro che portar acqua al mulino di quanti irresponsabilmente sostengono o che occorre abolire il tema ovvero che bisogna ancora darlo a sorpresa.
Il tema non va abolito; il tema non va dato a sorpresa; il tema va preparato; ma adeguatamente preparato perché fare un tema significa risolvere un problema. E per risolvere un problema occorre essere adeguatamente attrezzati. E questi attrezzi occorre costruirli e imparare ad usarli.
Dunque: svolgere un tema equivale a difendere una tesi; ad argomentare per una tesi contro altre tesi e proposte. E di problemi è pieno il mondo. Talché la scelta dei problemi da trattare in una scolaresca (come altrove) sarà sempre guidata da determinati valori e non si potrà mai evitare un atto di convenzionalità, diciamo di arbitrarietà. Tuttavia, un criterio per la scelta dei temi da trattare può essere quello di far responsabilmente e umanamente inciampare i ragazzi in problemi rilevanti, rilevanti per la loro formazione umana. E rilevanti in due sensi: nel senso che si scelgono temi la cui discussione e articolazione costituiscano delle buone «grammatiche» di lettura del mondo in cui si vive e della tradizione di cui si è eredi. Rilevanti quindi dalla prospettiva del contenuto (non evasivi, non retorici).Ma rilevanti anche dal punto di vista del metodo, in quanto impostati (bibliograficamente, storicamente, teoricamente) con tutte le cautele e quel corredo di regole procedurali utilizzabili nella soluzione di altri problemi. [...]
Quindi: se fare un tema significa risolvere un problema, questo problema va allora impostato, va cioè situato storicamente. E va articolato teoricamente: si debbono enucleare le idee o teorie avanzate come tentativi di soluzione del problema, e si dovranno analizzare le prove di queste ipotesi, vagliarne la forza probante; si Il tema va scrupolosamente e sistematicamente preparato dovrà cercare materiale (magari appositamente occultato) che confuta o conferma la nostra o l’altrui tesi. In breve: si dovranno enucleare e mettere alla prova le teorie proposte per risolvere il problema che si è deciso di affrontare. Questo è quel che si intende quando si parla di articolazione teorica di un problema. [...]
Quindi: come si prepara un tema? Si prepara con una prima discussione in classe, con ricerche di informazioni su Internet e, per lo meno, con lettura, magari in gruppo, di qualche saggio presente nella biblioteca d’Istituto; la preparazione prosegue con una discussione allargata a quegli insegnanti che, per professione o comunque per competenza, sono ad esso interessati. E quando sia le tesi storiche che le differenti interpretazioni teoriche con i loro tipi di prove sono abbastanza ben delineate, allora si stabilisce il giorno del compito in classe. Ed è qui che l’alunno mostrerà le sue capacità sia per quanto riguarda la sua abilità di organizzazione mentale, sia per la sua forza argomentativa nel vaglio del peso delle diverse prove, sia per la sua abilità di critico nei confronti delle tesi che non condivide. Insomma: le discussioni e le letture precedenti avranno fornito al ragazzo quel materiale attorno al quale egli potrà esercitare le sue doti costruttive di consistenti argomentazioni da una parte e critiche dall’altra.
«Avvenire» del 18 aprile 2013

Opinione pubblica contro Palazzo: il Web conta più dei franchi tiratori

Si parla parecchio di M5S, ma la pressione della Rete è fortissima anche sui giovani neoeletti democratici
di Aldo Cazzullo
I veri leader-ombra, gli inediti protagonisti di questa tribolatissima elezione presidenziale sono i social network
Sarebbe fuorviante chiedersi se i cento voti mancati a Romano Prodi fossero dalemiani, mariniani, renziani. Così come l'altro ieri era inutile rintracciare i congiurati che hanno affossato Franco Marini. E non solo perché nel Pd nessuno obbedisce più a nessuno.Il vero leader-ombra, l'inedita protagonista di questa tribolatissima elezione presidenziale è l'opinione pubblica. Amplificata dalla rete e dai social network, la cui pressione sui neoeletti, in particolare i giovani, è fortissima. Certo, non è la prima volta che il Palazzo si arrocca a difesa di un assetto già spazzato via dalla storia. Nel 1992 la rete non esisteva ancora, il «popolo dei fax» non riusciva certo a farsi sentire con la stessa forza; ma già allora l'intesa tra una Dc e un Psi in pieno declino saltò anche per la rivolta popolare. Ma ad Arnaldo Forlani mancò qualche decina di voti; a Marini, centinaia.Le forme di intervento dei cittadini, in teoria escluso dalla scelta del capo dello Stato, sono state molte. L'altro ieri, un sit-in fuori da Montecitorio per contestare Marini da sinistra. Ieri una manifestazione per osteggiare Prodi da destra. Non sono stati begli spettacoli, nessuno dei due. Le grida, gli insulti, le voci metalliche dei megafoni, la gogna (magari a volte meritata) che attendeva i parlamentari all'uscita, sono scene che non fanno onore al Paese. Ma infinitamente più sonora è stata la contestazione salita dal web.Si è parlato parecchio, e inevitabilmente, dei grillini. Si è parlato meno dei giovani neoeletti del Pd; che non sono meno connessi con il web e i cittadini; e sono molti di più. Tanti di loro non hanno compreso perché, dopo aver inseguito Grillo per il tempo di una quaresima, Bersani gli abbia voltato le spalle proprio quando si apriva uno spiraglio su Rodotà, per accordarsi con Berlusconi. E ieri non hanno apprezzato il ripiegamento su Romano Prodi; che per loro non è più «fresco» di Andreotti. Ma la protesta della rete, l'irruzione della rabbia popolare in Transatlantico non riguardano solo la sinistra. Ieri è stata la giornata della rabbia della destra. E se le 550 mila mail che giovedì hanno mandato in crisi il sistema informatico della Camera chiedevano quasi tutte l'elezione di Rodotà, gran parte di quelle arrivate ieri gridavano al «golpe» del Pd; che in realtà ha solo la forza di colpire se stesso.Dentro le mura del Palazzo, si agitano bande spaventate, disorientate, assediate. Colpisce ? se fosse possibile un paragone ? il capovolgimento dell'approccio rispetto ai meccanismi dell'elezione del Pontefice. In Vaticano la discussione è tutta sul profilo della persona da scegliere, sulle sue qualità umane, sulla percezione che il mondo avrà di lui. In Transatlantico l'uomo da scegliere conta molto meno; la vera questione è trovare i voti per eleggerlo. Prodi era il candidato di maggior statura che l'Italia potesse esprimere in questo momento, a parte Mario Draghi, che però ci serve come il pane a Bruxelles. Ma era il candidato scelto per ricompattare il Pd, non il Paese. Il partito democratico ha ridotto l'elezione del capo dello Stato a una sorta di congresso interno, in cui tutte le correnti hanno perso. E forse la corrente più forte si è rivelata quella affascinata da Grillo, o comunque dalla rete.La pressione del web e dell'opinione pubblica, però, può anche essere fuorviante. Perché, al di là delle legittime indignazioni reciproche, quel che sta più a cuore agli italiani in questo momento è eleggere un presidente della Repubblica che tenga insieme il Paese in un momento drammatico e lo rappresenti con dignità nel mondo. Non a caso nella notte è tornata a circolare l'ipotesi ? tardiva ? di chiedere un sacrificio a Giorgio Napolitano. Una cosa è certa: se devono essere i cittadini a determinare l'elezione del capo dello Stato, tanto vale che lo facciano direttamente. C'è da augurarsi di non rivedere mai più lo spettacolo di questi giorni. E che il prossimo presidente della Repubblica non esca dalle invocazioni o dalle invettive di un computer o di un telefonino, ma dal voto popolare.
«Corriere della Sera» del 20 aprile 2013

Il sospetto universale

Se ogni accordo è un inciucio
di Ernesto Galli della Loggia
«L'inciucio!». Molti italiani si stanno ormai abituando a giudicare la politica nell'ottica di quest'unica categoria demonizzante, e quindi a vedere le cose e gli uomini della scena pubblica del loro Paese in una sola luce: quella del sospetto universale.
La prima caratteristica della categoria dell' inciucio , quella che la rende così facilmente utilizzabile, è la sua indeterminatezza. L' inciucio , infatti, come insegnano i suoi denunciatori di professione, si annida dovunque. Potenzialmente esso riguarda tutto e tutti. Può consistere nella sentenza di un tribunale, in un articolo di giornale, nella decisione di qualunque autorità, in una trasmissione televisiva, in tutto. Ma soprattutto è inciucio la trattativa, l'accordo, il compromesso espliciti, così come pure - anzi in special modo! - l'intesa tacita che su una determinata questione si stabilisce per così dire spontaneamente tra gli attori politici di parti diverse. Tanto più che perché di inciucio si possa accusare qualcuno non c'è bisogno di alcuna prova. Per definizione, infatti, l' inciucio si svolge nell'ombra, al riparo da occhi indiscreti. E dunque, paradossalmente, proprio la circostanza che di esso non si abbiano tracce visibili diviene la massima prova della sua esistenza. In questo senso la categoria d' inciucio , nella sua indeterminatezza e nella sua indimostrabilità, costituisce una sorta di versione in tono minore di un'altra ben nota categoria, da decenni ai vertici dei gusti del grande pubblico: la categoria dei «misteri d'Italia» con la connessa tematica del «grande complotto». Ogni vero inciucio , infatti, contiene inevitabilmente un elemento di «mistero», e d'altra parte ogni «mistero» non implica forse chissà quanti inciuci?
Un ulteriore vantaggio che offre poi l' inciucio in termini polemico-propagandistici è che esso, di nuovo, può sottintendere tutto, il fare ma anche il non fare. Agli occhi dei suoi teorici esso è anzi soprattutto questo: è il non fare, il disertare, l'abbandono della posizione di fronte al nemico. Un aspetto, questo, che indica assai bene quale sia l'idea della democrazia che hanno i denunciatori di professione dell' anti inciucio . È un'idea per così dire bellica della democrazia, radicalmente fondata sul concetto di ostilità. Per non essere l'anticamera dell' inciucio (sempre in agguato!), la democrazia deve essere scontro permanente, continua denuncia dell'avversario e dei suoi disegni, illustrazione delle sue indegnità morali, smascheramento; ogni discorso deve sbugiardare, denudare, indicare al pubblico ludibrio.
La massima virtù civica non è la probità, è l'indignazione. Chi non si adegua, chi invece guarda alla democrazia come a quel sistema che si fonda, sì, sulle «parti» e sulla loro contrapposizione, ma anche, specialmente nei tempi difficili, sulla ricerca dell'accordo, sulla tessitura di compromessi, sulla moderazione di toni, sul riconoscimento dell'opinabilità di tutti i punti di vista (compreso il proprio, naturalmente) e della buona fede altrui, ebbene costui è già un potenziale «inciucista», un «traditore», un «venduto», degno di essere consegnato ai dileggi parasquadristici di cui per esempio sono stati vittime gli onorevoli Franceschini e Fassina nei giorni scorsi. Poiché in una tale ottica la mediazione non è il momento inevitabile di ogni prassi democratica; al contrario: ne diviene la più indegna negazione. Naturalmente ordita con i più torbidi scopi.
Inutile dire quanto abbia aiutato a radicare l'idea e la categoria d' inciucio la scoperta della spartizione, concordata per anni dietro le quinte, a opera dell'intera classe politica, di privilegi e benefici di ogni tipo e misura. Cioè la scoperta della «casta». Una realtà verissima e certo scandalosa: se si può muovere un rimprovero all'uso pubblico della quale, però, è di non avere sottolineato abbastanza che l'intera società borghese italiana è in verità una società di caste. Che la radice del male, dunque, non sta tanto nella politica quanto nella cultura, nella mentalità profonda delle classi dirigenti (e non solo) del Paese. Per cui in Italia tendono a essere una «casta» i giornalisti, i giudici, gli avvocati, gli alti burocrati, i professori, i manager, i funzionari dei gabinetti ministeriali, e così via: in vario modo tutti impegnati accanitamente a sistemare i propri figli possibilmente nello stesso mestiere, a impedire l'accesso ai nuovi venuti, ad accumulare privilegi, retribuzioni, eccezioni di varia natura, auto blu, simboli di status, diarie, cumuli pensionistici, trattamenti speciali, ope legis , e chi più ne ha più ne metta. Viceversa, declinata unilateralmente la categoria di «casta» porta a conseguenze strabilianti. Per esempio a quella di proclamare «un uomo al di fuori della politica» (Beppe Grillo) una persona certo degnissima come Stefano Rodotà, ma che comunque nei suoi ottant'anni è stato deputato dal 1976 al 1994, deputato europeo per un altro periodo, presidente del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, vicepresidente della Camera, ministro nel governo ombra Occhetto, presidente del Pds, e infine presidente di un'Authority, carica notoriamente di strettissima nomina politica. Qual è insomma, viene da chiedersi, il criterio d'inclusione nella «casta»? Forse non essere nelle grazie degli «anticasta»?
Ma il punto decisivo - lo sappiamo benissimo, senza che ce lo ricordino i professionisti dell' anti inciucio - è che nella politica italiana c'è Berlusconi. Vale a dire il bersaglio di un'indignazione obbligatoria - del quale, a dire di costoro, bisogna a ogni occasione chiedere l'ineleggibilità, la revoca dell'immunità, l'incriminazione, e quant'altro - mentre il solo evitare di farlo, non parliamo dell'avere un qualsivoglia rapporto con lui o con la sua parte, significherebbe, sempre e comunque, l' inciucio più vergognoso. Quando si discute di Berlusconi o con Berlusconi, infatti, se non si vuole passare per collusi il sistema è semplice: ogni sede pubblica deve divenire l'anticamera di una Corte d'assise. Il fatto che da vent'anni egli abbia un seguito di parecchi milioni di elettori (spesso la maggioranza) appare ai custodi della democrazia eticista un dettaglio irrilevante. Non già l'espressione di un problema della storia italiana, di suoi nodi antichi che solo l'iniziativa, le risorse e le capacità della politica, se ci sono, possono sciogliere. No: solo un problema di codice penale o poco più. E in ogni caso, male che vada, un'occasione d'oro per lucrare un po' di consenso mettendo sotto accusa chi si trovasse a pensare che le cose, come spesso capita, sono invece un po' più complicate.
«Corriere della Sera» del 24 aprile 2013

Tutti aggrappati alla Rete

Così la nuova politica finisce in balìa dei tweet
di Aldo Cazzullo
I followers stanno sostituendo i sondaggi
La «democrazia on line» non esiste. È un ponte sospeso sul vuoto. Ma è anche una suggestione irresistibile, una forza che sta cambiando la storia. Può distruggere la democrazia tradizionale, quella rappresentativa. Ma può concorrere a costruire una democrazia nuova, davvero partecipata. Purché la si usi con discernimento e con rispetto reciproco. Senza cedere all’esaltazione e alla paura. Insomma, senza ripetere quel che è accaduto in questi giorni. Non è negativo che l’opinione pubblica entri nel Palazzo, anzi. Purché non si confondano i 4 milioni di italiani che twittano con l’insieme dell’opinione pubblica. E si trovi la serenità di decidere da uomini non sordi ma liberi.
Il totem della Seconda Repubblica furono i sondaggi. Berlusconi orientava le sue scelte in base alle rivelazioni di Pilo o di Crespi. Le rare volte in cui indulgeva a passeggiare in Transatlantico, ai suoi deputati o a quelli pronti a passare con lui sussurrava in un soffio: «Sapessi, i sondaggi... ». I capi della sinistra, che andavano maturando i rancori culminati venerdì nel killeraggio di Prodi, trovavano sempre sondaggisti che li davano in netto vantaggio, fino all’apertura delle urne.
Il totem della Repubblica che sta nascendo in questi giorni è la Rete. E il fenomeno non riguarda solo i Cinque Stelle, nati senza soldi e senza l’appoggio dei media, come nella conferenza stampa di ieri (una delle prime) Grillo ha ripetuto spesso. Si è parlato molto dei grillini, e poco dei giovani del Pd. Che appartengono
alla stessa generazione, passano anche loro molto tempo davanti a Facebook e agli altri social network, e
rendono conto non a capipartito mai così screditati ma a poche centinaia di amici, che li hanno votati alle primarie e li influenzano via web.
Si spiega anche così non solo la bocciatura di Marini, ampiamente annunciata,ma pure l’incredibile affondamento di Prodi. Considerato l’uomo di maggior statura che la sinistra potesse mettere in campo (Napolitano a parte). Votato anche da Vendola (che il giorno dopo diceva: «Ho verificato di persona che in Cina Romano è una star, come faccio a spiegarlo alla Rete?»). Ma visto dalla generazione del web come un antico democristiano. Tra i 101 franchi tiratori ci sono certo anche i vindici dei vecchi capi. Ma ci sono anche, se non soprattutto, i terminali di un movimento per cui Prodi ha il fascino che per un sessantottino aveva Rumor.
Il fenomeno non è reversibile. Ma può essere indirizzato nella giusta direzione. L’epoca interconnessa è una straordinaria opportunità, che ha già sconvolto non solo la politica. Aziende abituate ai porti tranquilli degli oligopoli si sono trovate a navigare in mari tempestosi. Soloni avvezzi a pontificare senza contraddittorio si sono dovuti calare in un gioco che ha incrinato le loro sicumere (anche se talora non il loro narcisismo). L’importante è non scambiare un fenomeno di avanguardia con l’intera società, le opinioni frammentate e volubili con la complessità degli interessi economici e sociali.
Il problema non è solo l’esclusione di chi la Rete non la usa, o non ha il tempo di usarla. Riguarda anche la formazione del personale politico. Il mondo invecchia, e ai disastri della sinistra non è estraneo il fatto che nella segreteria dove un tempo si confrontavano Amendola, Ingrao, Pajetta, Terracini — uomini temprati dalle carceri fasciste, dall’esilio, dalla guerra di liberazione, dal condizionamento terribile di Stalin — oggi siedono personaggi il cui spessore si deve soprattutto alle amatriciane. Colpiva vedere in Transatlantico, in una folla di parlamentari fissi sul tablet o sullo smart-phone, due deputati quasi sempre soli, senza che gli altri rivolgessero loro la parola, forse intimiditi dall’intensità delle loro storie di formazione. Uno era Antonio Boccuzzi, l’operaio scampato al rogo della Thyssen. L’altro era Mario Tronti, uno studioso che ha scritto più libri di quanti un deputato medio abbia letto, che nel ’68 esercitava il potere sulle anime e che i ribelli di oggi non sanno chi sia.
Ma la tenuta e la sagacia di un uomo politico non si possono ridurre all’arte di indignare e divertire on line. Lo stesso Grillo non è certo un prodotto dei computer, che un tempo distruggeva in scena così come dileggiava Rodotà per la sua pensione. Il capo - con Casaleggio - dei Cinque Stelle deve la sua popolarità alla tv, e la sua presa sulle folle alla lunga pratica dell’Italia maturata nelle discoteche. Fin dai primi Anni Ottanta Grillo non arrivava sul palco all’ultimo momento, come fanno quasi tutti gli artisti. Passava volentieri un po’ di tempo con la gente del posto. Si faceva raccontare curiosità, proverbi dialettali, tic linguistici. Chiedeva: «Come si dice qui “vaffa”? Come fate per mandar qualcuno a quel paese?». Poi impostava il primo quarto d’ora di spettacolo su quel che aveva imparato, davanti a un pubblico estasiato dalla star televisiva che parlava la loro lingua, si metteva al loro livello. Nei decenni successivi Grillo ha affrontato a teatro i temi che ora ha portato in politica, dalla corruzione ai beni comuni, e cominciava lo show facendo l’appello di coloro che avevano ottenuto biglietti omaggio: «Dov’è l’onorevole? Si vergogni! Lei è l’assessore? Almeno si alzi in piedi per ringraziare!». Stava già mettendo a punto i meccanismi del suo successo, di cui i (vergognosi) privilegi castali rappresentano il detonatore ma la cui essenza è la rivolta contro le élite, e il retrotesto è: i vostri guai non dipendono da voi, dai ritardi italiani nel mondo globale, ma da loro; tagliati i loro vitalizi, estirpate le loro tangenti, ci saranno banda larga e decrescita felice per tutti.
È lo stesso Casaleggio a sostenere che la Rete vada orientata, per non dire manipolata. Siti, blog, profili degli agitatori diventano discariche di odio e frustrazione, in cui ogni intervento comincia con un insulto. Questo deturpa un’opportunità meravigliosa, e trasforma Internet in una piazza elettronica dove tutti parlano, molti gridano, qualcuno inveisce, e nessuno ascolta. Non c’è da stupirsi se si cerca di sfuggire al vuoto ancorandosi ad approdi saldi, rivolgendosi a uomini davvero autorevoli perché giunti al vertice dopo un lungo e tormentato percorso. Si spiega anche così l’innamoramento collettivo per papa Francesco, e la credibilità che Giorgio Napolitano si è guadagnato non solo nell’establishment internazionale ma anche tra la gente. Anche la sua rielezione è stata criticata on line. Ma è davvero questa l’attitudine prevalente nell’opinione pubblica? Non c’è anche il sollievo per la fine di una vicenda così distruttiva? Gli italiani desiderano cambiamenti perché sono indignati dagli scandali, offesi dai privilegi, angosciati dal futuro. Paradossalmente, il presidente rieletto avrà più forza di qualsiasi altro candidato per fare le riforme rinviate da troppo tempo. Tra le quali ci potrebbero essere il ritorno ai collegi uninominali e l’elezione diretta del capo dello Stato. Per riportare la «democrazia on line» al suo ruolo naturale di stimolo e di controllo. E restituire la parola a tutti i cittadini che non sanno cosa sia What’s App, ma hanno comunque a cuore il bene comune.
«Corriere della Sera» del 22 aprile 2013

12 aprile 2013

I. Calvino, L’amore delle tre melagrane

Tratto da Le più belle fiabe italiane
di Italo Calvino
Un figlio di Re mangiava a tavola. Tagliando la ricotta, si ferì un dito e una goccia di sangue andò sulla ricotta. Disse a sua madre: “Mamma, vorrei una donna bianca come il latte e rossa come il sangue.”
“Eh, figlio mio, chi è bianca non è rossa, e chi è rossa non è bianca. Ma cerca pure se la trovi.”
Il figlio si mise in cammino. Cammina cammina, incontrò una donna: ”Giovanotto, dove vai?”
“E sì, lo dirò proprio a te che sei donna!”
Cammina cammina, incontrò un vecchierello. ”Giovanotto dove vai?”
“A te sì che lo dirò, zi’ vecchio, che ne saprai certo più di me. Cerco una donna bianca come il latte e rossa come il sangue.” E il vecchierello: ”Figlio mio, chi è bianca non è rossa e chi è rossa non è bianca. Però tieni queste tre melagrane. Aprile e vedi cosa ne vien fuori. Ma fallo solo vicino alla fontana.
Il giovane aperse una melagrana e saltò fuori una bellissima ragazza bianca come il latte e rossa come il sangue, che subito gridò:
Giovanottino dalle labbra d’oro
Dammi da bere, se no io mi moro.

Il figlio del Re prese l’acqua nel cavo della mano e gliela porse, ma non fece in tempo. La bella morì.
Aperse un’altra melagrana e saltò fuori un’altra bella ragazza dicendo:
Giovanottino dalle labbra d’oro
Dammi da bere, se no io mi moro.

Le portò dell’acqua ma era già morta.
Aperse la terza melagrana e saltò fuori una ragazza più bella ancora delle altre due. Il giovane le gettò l’acqua in viso, e lei visse.
Era ignuda come l’aveva fatta sua madre e il giovane le mise addosso il suo cappotto e le disse: “Arrampicati su questo albero, che io vado a prendere delle vesti per coprirti e la carrozza per portarti a Palazzo.”
La ragazza restò sull’albero, vicino alla fontana. A quella fontana, ogni giorno, andava a prender l’acqua la Brutta Saracina. Prendendo l’acqua con la conca, vide riflesso il viso della ragazza sull’albero.
E dovrò io, che sono tanto bella,
Andar per acqua con la concherella?
E, senza starci a pensar sù, gettò la conca per terra e la mandò in cocci. Tornò a casa e la padrona: “Brutta Saracina! Come ti permetti di tornare a casa senz’acqua e senza brocca!” Lei prese un’altra brocca e tornò alla fontana. Alla fontana rivide quell’immagine nell’acqua. “Ah! Son proprio bella!” si disse.
E dovrò io, che sono tanto bella,
Andar per acqua con la concherella?
E ributtò per terra la brocca. La padrona tornò a sgridarla, lei tornò alla fontana, ruppe ancora un’altra brocca, e la ragazza sull’albero che fin allora era stata a guardare, non poté più trattenere una risata.
La Brutta Saracina alzò gli occhi e la vide. “Ah voi siete? E m’avete fato rompere tre brocche? Però siete bella davvero! Aspettate che vi voglio pettinare.”
La ragazza non voleva scendere dall’albero, ma la Brutta Saracina insistette: “Lasciatevi pettinare che sarete ancora più bella.”
La fece scendere, le sciolse i capelli, vide che aveva in capo uno spillone. Prese lo spillone e glielo ficcò in un’orecchia. Alla ragazza cadde una goccia di sangue, e poi morì. Ma la goccia di sangue, appena toccata terra, si trasformò in una palombella, e la palombella volò via.
La Brutta Saracina si andò ad appollaiare sull’albero. Tornò il figlio del Re con la carrozza, e come la vide, disse: “Eri bianca come il latte e rossa come il sangue; come mai sei diventata così nera?”
E la Brutta Saracina rispose:
È venuto fuori il sole
M’ha cambiata di colore.

E il figlio del Re: ” Ma come mai hai cambiato voce?”
E lei:
È venuto fuori il vento,
M’ha cambiato parlamento.

E il figlio del Re: “Ma eri così bella e ora sei così brutta!”
E lei:
È venuta anche la brezza,
M’ha cambiato la bellezza.
Basta, lui la prese in carrozza e la portò a casa.
Da quando la Brutta Saracina s’installò a Palazzo, come sposa del figlio del Re, la palombella tutte le mattine si posava sulla finestra della cucina e chiedeva al cuoco:
O cuoco, cuoco della mala cucina,
Che fa il Re con la Brutta Saracina?
“Mangia, beve e dorme” diceva il cuoco.
E la palombella:
Zuppettella a me,
Penne d’oro a te.

Il cuoco le diede un piatto di zuppetta e la palombella si diede una scrollatina e le cadevano penne d’oro. Poi volava via.
La mattina dopo tornava:
O cuoco, cuoco della mala cucina,
Che fa il Re con la Brutta Saracina?

“Mangia, beve e dorme” diceva il cuoco.

E la palombella:
Zuppettella a me,
Penne d’oro a te.

Lei si mangiava la zuppettella e il cuoco si prendeva le penne d’oro.
Dopo un po’ di tempo, il cuoco pensò di andare dal figlio del Re a dirgli tutto. Il figlio del Re stette a sentire e disse: “Domani che tornerà la palombella, acchiappala e portamela, che la voglio tenere con me.”
La Brutta Saracina, che di nascosto aveva sentito tutto, pensò che quella palombella non prometteva nulla di buono; e quando l’indomani tornò a posarsi sulla finestra della cucina la Brutta Saracina fece più svelta del cuoco, la trafisse con uno spiedo e l’ammazzò.

La palombella morì. Ma una goccia di sangue cadde nel giardino, e in quel punto nacque subito un albero di melograno.

Quest’albero aveva la virtù che chi stava per morire, mangiava una delle sue melagrane e guariva. E c’era sempre una gran fila di gente che andava a chiedere alla Brutta Saracina la carità di una melagrana.

Alla fine sull’albero ci rimase una sola melagrana la più grossa di tutte, e la Brutta Saracina disse: “Questa me la voglio tenere per me.”

Venne una vecchia e le chiese: “Mi date quella melagrana? Ho mio marito che sta per morire.”

“Me ne resta una sola e la voglio tenere per bellezza” disse la Brutta Saracina, ma intervenne il figlio del Re a dire: “Poverina, suo marito muore, gliela dovete dare.”

E così la vecchia tornò a casa con la melagrana. Tornò a casa e trovò che suo marito era già morto.

“Vuol dire che la melagrana la terrò per bellezza”, si disse.

Tutte le mattine, la vecchia andava alla Messa. E mentre era a Messa, dalla melagrana usciva la ragazza. Accendeva il fuoco, scopava la casa, faceva da cucina e preparava la tavola; e poi tornava dentro la melagrana. E la vecchia rincasando trovava tutto preparato e non capiva. Una mattina andò a confessarsi e raccontò tutto al confessore. Lui le disse: “Sapete cosa dovete fare? Domani fate finta di andare alla Messa e invece nascondetevi in casa. Così vedrete chi è che vi fa da cucina.”

La vecchia, la mattina dopo, fece finta di chiudere la casa, e invece si nascose dietro la porta. La ragazza uscì dalla melagrana cominciò a far le pulizie e da cucina. La vecchia rincasò e la ragazza non fece a tempo a rientrare nella melagrana

“Da dove vieni?” Le chiese la vecchia.

E lei: “Sii benedetta, nonnina, non m’ammazzare, non m’ammazzare.”

Non t’ammazzo, ma voglio sapere da dove vieni.

“Io sto dentro alla melagrana…” e le raccontò la sua storia.

La vecchia la vestì da contadina come era vestita anche lei (perché la ragazza era sempre nuda come mamma l’aveva fatta) e la domenica la portò con sé a Messa. Anche il figlio del Re era a Messa e la vide. “O Gesù! Quella mi pare la giovane che trovai alla fontana!” e il figlio del Re appostò la vecchia per strada.

“Dimmi da dove è venuta quella giovane!”

“Non m’uccidere!”

“Non aver paura. Voglio solo sapere da dove viene.”

“Viene dalla melagrana che voi mi deste.”

“Anche lei in una melagrana!” Esclamò il figlio del Re e chiese alla giovane: “Come mai eravate dentro una melagrana?” e lei gli raccontò tutto.

Lui tornò a Palazzo insieme alla ragazza, e le fece raccontare di nuovo tutto davanti alla Brutta Saracina. “Hai sentito?” disse il figlio del Re alla Brutta Saracina, quando la ragazza ebbe finito il suo racconto.

“Non voglio essere io a condannarti a morte. Condannati da te stessa.”

E la Brutta Saracina, visto che non c’era più scampo disse: “Fammi fare una camicia di pece e bruciami in mezzo alla piazza.”

Così fu fatto. E il figlio del Re sposò la giovane.

(Abruzzo)
Postato il 12 aprile 2013, dopo la visione del film "Bianca come il latte. Rossa come il sangue" e incontro con Alessandro D'Avenia al cinema Adriano (Roma)