28 aprile 2013

Chi si ricorda della scuola?

Le scelte di ragazzi e famiglie e il disinteresse generale per il sistema
di Alessandro D’Avenia
I dati delle iscrizioni alle scuole superiori parlano chiaro: cala la richiesta di formazione umanistica (classico e scientifico tradizionale) e cresce quella applicata e spendibile (scientifico, nella versione scienze applicate senza latino, e lingue).
Questo riguarda quasi il 50% degli iscritti.
L’altra metà continua a guardare alla formazione professionale e tecnica che, per fortuna, rimangono forti (se solo le curassimo di più invece di farne troppo spesso un contenitore di frustrazioni sociali...). Le famiglie italiane e i loro figli si orientano quindi verso ciò che apparentemente dà più certezza di lavoro e quindi di futuro. Non tutti i mali vengono per nuocere. I ragazzi in questa epoca hanno bisogno di maggiore rigore logico. La loro relazione con la realtà è emotiva e reattiva.
L’abitudine al ragionamento astratto, alla logica matematica, potrebbe aiutare ad acquisire maggior raziocinio e dominio di sé. Potrebbe. Resta chiaro che la formazione umanistica è in declino, come la cultura occidentale. I licei classici sono spesso luoghi autoreferenziali in cui ci si lamenta del fatto che i ragazzi non leggono più, non si interessano più, lo schermo del loro smart­phone ​è stranamente più interessante delle declinazioni... Prevale la geremiade senza soluzione. Per carità, la geremiade ha la sua ragion d’essere, ma viene spesso e giustamente da un docente attempato che non ha stipendio e voglia sufficienti a cercare soluzioni totalmente o parzialmente nuove.
E non lo fa perché le soluzioni nuove – diciamocelo chiaro – richiedono più lavoro: più ore di lavoro. Se la scuola si salva è per il volontariato di quei docenti (di qualunque età) che amano lavoro e ragazzi e in qualche modo riescono a realizzare queste nuove pratiche in modo individuale o a piccoli gruppi, ma non riescono poi a farle diventare pratiche virtuose di sistema. Perché? Perché sono oggetto di invidia, pettegolezzo, minacce per il quieto e pigro vivere generale. Non basterebbe chiedere ai professori migliori cosa e come fanno?
Invece continuiamo a fare le nostre lezioni di greco, latino, italiano come si facevano vent’anni fa. Come le ho ricevute io, e allora andavano benissimo. Ma vent’anni fa la motivazione allo studio era implicita: realizzarsi, ripagare i genitori dei loro sacrifici e aspettative, rispettare l’autorità dei professori. Oggi il materiale umano è cambiato. La motivazione non è più implicita, ma va riconquistata con strategie diverse. Alla maggior parte dei ragazzi basta essere promossi, non importa ottenere voti alti, non servono neanche più per le facoltà a numero chiuso. Troppe le distrazioni e gli interessi conflittuali. Esaurite le motivazioni che portavano a certe professioni. È anche mutata la neurofisiologia del cervello: la logica aristotelica dei nessi causa-effetto è sovrastata dalla para-logica, basata su immagini ed emozioni più che su nessi causali.
Alle famiglie stesse sembra interessare relativamente che il figlio vada bene a scuola. L’importante è che non soffra troppo e trovi la facoltà giusta, e magari impari qualcosa che lo aiuti ad avere un lavoro. Il latino a cosa vuoi che serva? Eppure niente come il latino allena al problem solving , più della matematica, se volessimo fermarci a motivazioni puramente funzionali. Ma non è per questo che si studia il latino, piuttosto impara due lingue straniere alla perfezione (due lingue vive valgono una morta?). Ma quella del latino è un’altra storia, su cui nessuno sta ragionando e che quindi finirà come sembra inevitabile finisca: male, perdendo uno dei fiori all’occhiello del nostro curriculum. Il punto è che la prevalenza della geremiade blocca le nuove soluzioni, che devono essere pensate e condivise. Spesso le soluzioni circolano tra le nuove leve di insegnanti, ma per un giovane di 20-30 anni oggi entrare nella scuola è impossibile, a meno che non si tratti di scuola non statale. L’unico criterio meritocratico della scuola italiana attualmente è l’anzianità, e non credo sia più tollerabile, soprattutto a fronte di risultati che lasciano indifferenti solo perché non toccano borse e spread.
La crisi economica che ci troviamo ad affrontare è una crisi antropologica. È stata provocata da manager sconsiderati capaci di creare una bolla finanziaria dodici volte maggiore del Pil mondiale. Erano così bravi ad applicare le loro scienze che si erano dimenticati degli altri uomini.
Forse un po’ più di anima non guasterebbe. La formazione umanistica insegna a non agire solo per profitto, ma anche per gli altri. Famiglie e ragazzi anelano a un lavoro e giustamente cercano il modo più rapido per raggiungerlo. Ma non ho letto tra i punti irrinunciabili delle varie parti politiche qualcosa che riguardi il rinnovamento della scuola. Non interessa. La politica oggi è periferia dell’economia, eppure riguarda il bene comune: e, per realizzarlo, bisognerebbe prima capire cosa è il 'bene' e quando è 'comune'. Così l’economia ritornerebbe parte della politica e dell’uomo, e non viceversa. La scuola italiana ha un curriculum capace di affrontare la crisi dell’anima dell’Occidente, ma chi avrà forza, tempo e coraggio per rinnovarla di fronte alle sfide attuali, senza limitarsi a 'riorganizzarla'? Non basta una mano di vernice, ci vogliono motori nuovi, uno scafo ribattuto, un porto chiaro.
«Avvenire» del 27 aprile 2013

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