14 maggio 2013

Aleksandr Solzenicyn: La dura scuola del comunismo

Inediti
di Aleksandr Solzenicyn
Era uscito allora un romanzo intitolato Avanti, tempo!, e perfino il Piano Quinquennale si dispiegava, tra rulli di tamburo, in Quattro Anni. E all’Istituto pedagogico inculcavano ai futuri insegnanti che la letteratura sovietica – e quindi anche loro – non dovevano rimanere indietro rispetto alle esigenze del Periodo della Ricostruzione.
Neanche a farlo apposta, nel mese in cui Nastja stava per dare le sue prime lezioni in classe, l’Associazione russa degli Scrittori proletari aveva adottato e resa pubblica una risoluzione: riguardava il modo di rappresentare i personaggi in letteratura e lanciava un appello ai «lavoratori d’assalto» dei cantieri a farsi essi stessi scrittori, affinché l’arte riflettesse in tempo reale le esigenze della classe operaia. E prese corpo anche una nuova concezione: la letteratura veramente rappresentativa dei tempi nuovi è quella che passa per il giornale murale o il manifesto di propaganda e assolutamente non quella dei romanzi.
Beh, un po’ troppo precipitoso, no?, c’era da restare senza fiato; come sarebbe «non quella dei romanzi»? e i romanzi che fine facevano? [...]
Ad Anastasija Dmitrievna vennero assegnati cinque gruppi di quinta, di dodicenni, con l’incarico di insegnante principale nella quinta A.
La sua prima lezione! Ma era la prima anche per gli scolari, che si erano appena lasciati alle spalle le classi iniziali per entrare al secondo livello: erano ormai «grandi» e ne potevano andar fieri! Quel primo settembre fu una radiosa giornata di sole.
Uno dei genitori aveva portato in classe dei fiori. Anche Anastasija Dmitrievna si era messa un vestito chiaro di seta grezza, le ragazze avevano degli abitini bianchi e anche molti dei ragazzi la camicia bianca delle feste. E questi musetti, questi occhi raggianti le davano la carica: finalmente, finalmente il suo sogno si era realizzato e poteva procedere per la stessa via di Marija Feofanovna… (E, di più, poteva adoperarsi affinché in questi tempi di imperante volgarità, quei ragazzi, crescendo, diventassero degli uomini di nobili sentimenti, non come quelli d’oggi). Si riprometteva, con molte, molte lezioni, di trasfondere nelle loro teste tutto ciò che lei stessa aveva preservato della grande e munifica letteratura russa!
E invece no!, nessuna possibilità, almeno adesso, di avviarsi in quella direzione: il programma di studio era rigidamente definito; in quattro parole: «Le gru rombanti / Davanti agli scavi…» e ad ogni momento ti poteva capitare un ispettore mandato dalle autorità scolastiche della provincia a controllare lo svolgimento delle lezioni. Bisognava cominciare dalla Turksib – allora in via di completamento, e far imparare a memoria come i treni s’erano messi a percorrere il deserto «… avanti e indietro, a spaventare / Uomini e armenti, / E a non farli andare / Per le lor vie carovaniere».
Poi, da programma, si doveva continuare con Magnitogorsk, quindi il cantiere della grande diga sul Dnepr’ e, appunto, il poema di Bezymenskij, dove si metteva in ridicolo un professore candidato al suicidio, in quanto esponente delle classi «uscenti» e superate. E ancora il poema sul ragazzetto indiano che ha sentito parlare di Lenin, la guida luminosa di tutti gli oppressi del mondo, e che va a piedi dall’India a Mosca per vederlo. [...]
Il programma del secondo anno contemplava il «nocciolo duro» della letteratura sovietica: La disfatta, Pietre da levigare (sulla collettivizzazione), Cemento (spaventoso, perché vi si proponevano a bambini di tredici anni impressionanti scene di possesso sessuale).
Tuttavia, ad esempio, nel Torrente di ferro venivano restituite con notevole laconicità ed efficacia le azioni delle masse nel loro insieme; e c’era forse mai stato qualcosa di simile nella letteratura russa? E ne La settimana il personaggio di Robejko suscitava simpatia quando, sforzando la voce minata dalla tubercolosi, esortava i contadini ad abbattere un boschetto appartenente al monastero, per potere col legname così ottenuto alimentare la locomotiva che avrebbe trasportato le sementi sui campi. (Solo un dubbio: l’anno precedente avevano dunque loro confiscato per l’ammasso tutte le riserve di sementi?).
E ogni giorno quelle quaranta paia di occhi infantili che fissavano Anastasija Dmitrievna, come avrebbe potuto non sostenere la loro fede? Sì, ragazzi, perdite e sacrifici sono inevitabili. Del resto tutta la nostra letteratura ha sempre esortato allo spirito di sacrificio. Qua e là, certo, si verificano atti di sabotaggio, ma l’inaudito slancio industriale in atto porterà a una felicità altrettanto inaudita. Quando crescerete ne potrete godere anche voi.
Ogni episodio, anche il più negativo, dovete considerarlo allo stesso modo del poeta che ne ha tanto giustamente colto la prospettiva. «Non è da meno al tempo che viviamo / E ci è compagno sulla via stessa, / Colui che in ogni dettaglio sa vedere / Della Rivoluzione Mondiale la promessa».
Quindi avevano soppresso anche i nuovi manuali adottati, riconoscendoli erronei e superati dalla realtà. Cominciarono a stamparne del tipo «a fogli volanti», vale a dire testi non rilegati su temi di stretta attualità e validi soltanto nel semestre in corso, che diventavano inutilizzabili già l’anno successivo. Gor’kij pubblicò su un giornale l’articolo «Agli umanisti», dove smascherava i suddetti e li esecrava, articolo che fu immediatamente inserito nel manuale a fogli volanti successivo: «È perfettamente naturale che il potere operaio e contadino schiacci i propri nemici come pidocchi!».
Spavento, sconcerto, senso di soffocamento: come proporre una cosa del genere ai bambini? E a che pro?
Ma Gor’kij era un grande scrittore, un classico russo anche lui conosciuto a livello mondiale, e come puoi pensare col tuo piccolo intelletto di poterti mettere a discutere con una simile autorità? E poi lui stesso scrive qualche riga più in là degli ignavi e dei benestanti: «Che cosa vuole dunque questa classe di degenerati?… unicamente una vita sazia, senza senso, sfrenata e irresponsabile». E ti viene in mente: «Alla larga dalla gente che si compiace delle proprie vacue chiacchiere e non fa nulla…». E non esortava forse Cechov a vigilare ogni giorno, armati di un piccolo martello, sulla nostra coscienza assopita? [...]
Poi arrivò un trimestre in cui non furono distribuiti fogli volanti per il manuale e neppure programmi obbligatori. L’inattesa vacanza di direttive sprofondò nello sconcerto le autorità scolastiche cittadine: significava un cambiamento di linea? E in attesa di chiarimenti ognuno venne autorizzato a insegnare quel che voleva, beninteso sotto la propria responsabilità.
La loro direttrice didattica nonché preposta all’educazione civica si mise a spiegare alle quinte, seste e settime dei passi scelti dal Capitale. Ma allora anche Anastasija Dmitrievna poteva scegliere a suo piacimento qualcosa tra i classici russi? Ma come scegliere la cosa giusta, per non sbagliare? Dostoevskij, no, non si poteva e poi per loro era ancora presto. Neanche Leskov, però, impossibile. Lo stesso per Aleksej Tolstoj – le tragedie La morte del Terribile e Lo zar Fëdor.
E anche di Puškin non tutto, naturalmente. Così come di Lermontov. (E quando i bambini le avevano chiesto di Esenin, aveva cambiato discorso e non aveva risposto, era severamente proibito).
D’altra parte, lei stessa non era più abituata a tanta libertà. Non riusciva più a esprimere i sentimenti di un tempo. L’incrollabile unitarietà e levigata coerenza della letteratura russa ora le appariva come screpolata da tutto ciò che lei stessa aveva letto, conosciuto e imparato a vedere in quegli ultimi anni. Ormai aveva paura a parlare di un autore o di un libro senza darne la caratterizzazione dal punto di vista classista. Compulsava dunque il Kogan e ci trovava «per quali aspetti quest’opera poteva considerarsi cooperante».
Ma al tempo stesso apparivano nuovi numeri delle riviste letterarie sovietiche e i giornali tributavano lodi a questa o quella nuova opera. E lei si sentiva stringere il cuore: non aveva davvero il diritto di far restare indietro degli adolescenti, era in quel mondo che essi avrebbero dovuto vivere e quindi bisognava aiutarli a entrarci.
«Avvenire» del 13 maggio 2013

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