29 settembre 2013

La guerra e il giusto mezzo

(senza indicazione d'autore)
Ci sono libri di storia drammaticamente attuali. Per esempio, questo denso volumetto di Giovanni Scirocco, dedicato a Norberto Bobbio e al concetto di "guerra giusta": un tema oggi tornato alla ribalta dopo le stragi siriane. Come qualcuno ricorderà, in Italia la prima guerra del Golfo (17 gennaio-28 febbraio 1991) segnò una dolorosissima frattura tra Bobbio e buona parte dei suoi amici e allievi. Da un lato stava il filosofo torinese, per il quale l'intervento imposto da Bush senior contro Saddam Hussein, reo d'aver invaso il Kuwait, rappresentava «un caso esemplare di guerra giusta», fondata sul principio di legittima difesa. Dall'altro, c'era chi gli contestava che nell'età delle armi di distruzioni di massa non esistevano più guerre giuste. L'elenco dei suoi spiazzati interlocutori comprendeva i nomi di Gian Mario Bravo, Angelo d'Orsi, Luigi Ferrajoli, Cesare Luporini, Costanzo Preve, Marco Revelli, Gianni Vattimo, Danilo Zolo e diversi altri.
Ma Scirocco non s'è limitato a ricostruire i risvolti di quel serrato confronto, sulle pagine dei quotidiani e nel privato delle lettere, rintracciate nel ricchissimo archivio di Bobbio (ora sistemato a Torino nella sede del Centro studi Piero Gobetti, che ne offre online l'inventario analitico). Ha voluto impegnarsi anche in un'esposizione diacronica delle riflessioni di Bobbio sul «problema della guerra e le vie della pace», come recita il titolo del suo più celebre saggio sull'argomento (in origine uscito nel 1966 su «Nuovi Argomenti», al termine di un pluriennale carteggio con il direttore Alberto Carocci, qui riprodotto per la prima volta).
Il punto di partenza è dunque il 1961, quando il filosofo firmò la prefazione al libro di Günther Anders Essere e non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki e, qualche mese più tardi, partecipò alla "Marcia per la pace" organizzata ad Assisi da Aldo Capitini. Invece, il termine ad quem è il 1999, con la guerra del Kosovo: che Bobbio giustificò, pur negandone la legalità (a differenza di quanto aveva fatto con il precedente iracheno), trovandosi comunque smarrito di fronte alle nuove guerre asimmetriche e "umanitarie", figlie del disordine mondiale. Ormai molto anziano (morirà il 9 gennaio 2004, a 94 anni), il filosofo non scriverà più nulla di significativo sulle campagne belliche contro il terrorismo, germogliate dall'«11 settembre».
Dal lavoro di Scirocco emerge un Bobbio forse un po' diverso da quello canonizzato a sinistra. Un Bobbio più realista che utopista, più liberale che socialista, più attratto dal pessimismo di Hobbes che dal cauto ottimismo di Kant. Un conto, infatti, è ragionare in linea di principio sull'orrore del fungo atomico, com'era d'uso negli anni Sessanta, ai tempi delle grandi marce per la pace. Un altro, invece, schierarsi dinnanzi a un conflitto convenzionale, quale fu la prima guerra del Golfo, in cui Bobbio rifiutò di diventare il «bersaglio comodo di tutti i pacifisti da strapazzo». Il filosofo era, anagraficamente, un figlio dello spirito di Monaco e del cedimento al Führer, e nel Rais di Bagdad pensò di scorgere, a torto o a ragione, l'ombra di un nuovo Hitler. «Possibile – scrisse al suo allievo Enrico Peyretti – che non venga mai in mente al pacifista assoluto che il rifiuto totale della violenza contribuisca a far prosperare la razza dei violenti?».
Sia chiaro. Bobbio era senz'altro meno "barricadero" di quasi tutti i suoi discepoli ed estimatori (Voi estremisti, io moderato, s'intitola un'intervista rilasciata al «manifesto» il 28 maggio 1991). Però non aveva nulla da spartire con i guerrafondai musclé che cominceranno ad affiorare proprio nel '91 (da noi Giuliano Ferrara e Lucio Colletti, ma anche un irriconoscibile Giorgio Bocca), per poi proliferare nel decennio successivo, in coincidenza con le fallimentari crociate occidentali contro il terrorismo. È anzi facile immaginare che avrebbe manifestato perplessità verso la dottrina della "guerra preventiva", nonché insofferenza per i toni apocalittici di Oriana Fallaci. Tanto più che nei suoi tormentati giudizi degli anni Novanta non mancava mai di sottolineare la stretta connessione, in una guerra, fra la legittimità e l'efficacia: senza di che le popolazioni civili avrebbero pagato prezzi pesantissimi, come in effetti è sempre avvenuto nell'ultimo ventennio.
Resta indubbio, d'altra parte, che dal '91 in poi il discorso sulla guerra "calda" (un'opzione di nuovo praticabile, dopo la lunga parentesi della guerra fredda) è stato egemonizzato da intellettuali privi d'ogni esperienza sul campo. Le foto che ritraggono insigni interventisti della Grande Guerra, da Prezzolini a Salvemini, immersi nel fango delle trincee, fra topi e scarafaggi, appartengono a un passato ormai ingiallito. E sarebbe impensabile, oggi, il caso di un Berto Ricci, promettente scrittore e amico fraterno di Montanelli, morto volontario in Libia nel '41. La guerra odierna è invece sviscerata nel chiuso di felpati think tank. Ve lo figurate un Giuliano Ferrara che, in divisa d'ordinanza, spedisce cartoline postali dal fronte?
Un'ultima considerazione. Non c'è nulla di più scivoloso di un conflitto armato. Dopo essere deflagrato, sfugge di mano ai suoi promotori. L'esito finale non coincide mai con quello preventivato. Eppure, pochi intellettuali hanno riflettuto su questa elementare verità, enunciata fra l'altro da conservatori realisti ben lontani da ogni irenismo, quali Benedetto Croce e Sergio Romano. Molto più gratificante, per i chierici, è stato sovrapporre alla guerra reale una guerra immaginata, proiettandovi il proprio ego. Ecco perché, riletti dagli storici, i loro interventi spesso non colgono il bersaglio. È significativo che l'unica guerra davvero "giusta", quella condotta dagli Alleati contro Hitler, abbia registrato un vuoto di partecipazione nel mondo della cultura italiana. Molti rimasero fino all'ultimo dalla parte sbagliata, altri s'eclissarono nella torre d'avorio e soltanto pochi compresero, sin dall'inizio, la portata dello scontro. Del resto, come ammetterà lo stesso Bobbio nel '92, «all'uomo di studio non si addice il mestiere di profeta».

Giovanni Scirocco, L'intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la "guerra giusta", prefazione di Pietro Polito, Biblion Edizioni, Milano,
pagg. 126, € 10,00
«Il Sole 24 Ore» del 29 settembre 2013

La storia compromettente del "compromesso storico"

Quarant'anni fa Enrico Berlinguer rilanciò l'idea (che fu di Togliatti nel dopoguerra) della collaborazione fra Pci e Dc. Ma il flirt durò poco. E indebolì entrambi i partiti
di Francesco Perfetti
La proposta di un «compromesso storico» fra cattolici e comunisti la lanciò l'allora segretario del Pci Enrico Berlinguer tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre 1973 dalle pagine di Rinascita, la rivista ideologica del partito fondata da Palmiro Togliatti, in tre articoli pubblicati con il titolo generale Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile.
Nel Paese latino-americano si era appena consumato il colpo di Stato del generale Pinochet contro Salvador Allende: era stata interrotta traumaticamente la «via cilena al comunismo».
Divenuto segretario del Pci nel marzo 1972 dopo esserne stato vice-segretario, Berlinguer si era formato ed era cresciuto politicamente all'ombra di Togliatti e durante la lunga segreteria di Luigi Longo si era rafforzata la sua autorevolezza. Aveva portato avanti la linea del «dissenso» dall'Urss dopo l'invasione della Cecoslovacchia del 1968, ma al tempo stesso aveva negato la possibilità di un abbandono dell'internazionalismo e di una posizione di rottura nei confronti dell'Unione Sovietica.
I fatti cileni suggerirono a Berlinguer una proposta politico-strategica che egli rese nota attraverso quegli articoli senza che fosse prima discussa dagli organismi dirigenti del partito. Ciò anche se in maggio sulla rivista Il Contemporaneo, supplemento mensile di Rinascita, era apparso un ampio dibattito sulla «questione democristiana», in cui Alessandro Natta aveva accennato alla necessità di una intesa fra socialisti, comunisti e cattolici e Gerardo Chiaromonte aveva osservato che sarebbe stato difficile per i comunisti governare anche ottenendo la maggioranza assoluta dei voti a causa della estensione e della influenza delle forze avversarie. Ciò non toglie, peraltro, che la paternità dell'idea del compromesso storico, così come venne presentata, sia senza dubbio attribuibile a Berlinguer.
Il caso cileno offriva una lezione importante. Dimostrava che l'unità delle sinistre, da sola, non era sufficiente a garantire la governabilità e che bisognava puntare alla collaborazione fra tutte le forze popolari, partito comunista e democrazia cristiana in primis, e quindi a un sistema di alleanze sociali che coinvolgesse ceti diversi. Al fondo, c'era la convinzione che solo così sarebbe stato possibile sbloccare il sistema politico italiano che, di fatto, anche per la sua collocazione internazionale, non consentiva una alternanza. La formulazione della proposta era chiara: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie, e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». In altre parole, Berlinguer metteva in soffitta l'idea della «alternativa di sinistra» e la sostituiva con quella di una «alternativa democratica» che avrebbe consentito riforme radicali evitando il pericolo di derive reazionarie.
La proposta poteva sembrare una novità. E come tale alimentò il dibattito politico. Ma non era così. Il filosofo cattolico Augusto Del Noce osservò che essa era «condizionata interamente dalla linea gramsciana» tanto che, riferita al pensiero di Gramsci, si configurava come «offerta» frutto della «constatazione della “maturità storica” per il passaggio dell'Italia al comunismo e per il transito dalla vecchia alla nuova Chiesa». D'altro canto lo stesso Berlinguer precisò che l'offerta di compromesso storico non era una «apertura di credito alla Dc», ma doveva intendersi come «sollecitazione continua» per una trasformazione radicale della stessa Dc che ne valorizzasse la «componente popolare» a scapito delle «tendenze conservatrici e reazionarie». A ben vedere, il discorso di Berlinguer riprendeva, con altre parole e in un contesto diverso, il progetto che, all'indomani del secondo conflitto mondiale, Palmiro Togliatti aveva sintetizzato nella celebre espressione «democrazia progressiva» fondata sulla collaborazione fra le «grandi forze popolari», ovvero comunisti, socialisti e cattolici. Esisteva, per dirlo con Del Noce, una «continuità Gramsci-Togliatti-Berlinguer e delle formule della via “nazionale” e “democratica” e dell'accordo dei partiti di massa».
Nella visione berlingueriana il compromesso storico avrebbe dovuto rappresentare lo strumento per «sbloccare» il sistema politico italiano che - in virtù della tacita ma accettata conventio ad excludendum nei confronti del Pci per i suoi legami con Mosca e per la sua monolitica struttura interna di tipo leninista - precludeva ai comunisti l'ingresso nelle stanze del potere. Le opposizioni, più che le perplessità, furono numerose sia all'interno del Pci, dove molti pensavano ancora all'ipotesi della trasformazione del Paese in una «democrazia popolare», sia all'interno della Dc, del Psi e dei partiti laici minori, preoccupati, non a torto, che il compromesso storico si risolvesse nell'incontro fra due «religioni secolari».
Comunque sia, alla prova dei fatti il compromesso storico non si realizzò. Gli anni fra il 1974 e il 1978 furono, sì, quelli della grande avanzata elettorale del Pci e del suo ingresso nell'area di potere con l'appoggio esterno al governo monocolore di «solidarietà nazionale» di Andreotti. Ma, al tempo stesso, furono anni - particolarmente difficili anche per l'offensiva del «partito armato» delle Brigate Rosse - che mostrarono come la «strategia dell'attenzione» nei confronti del Pci teorizzata da Aldo Moro fosse sostanzialmente velleitaria. Alla fine proprio il rapimento e l'assassinio di Moro chiusero traumaticamente la strada al compromesso storico. E aprirono una nuova stagione della politica italiana dominata dalla figura di Bettino Craxi e destinata a sua volta a esaurirsi con la fine ingloriosa della prima repubblica sotto i colpi di maglio della «rivoluzione giudiziaria» di Tangentopoli.
«Il Giornale» del 27 settembre 2013

La Sinistra impicca pure con le parole

di Giuliano Ferrara
Avrete notato che con il caso di Guido Barilla è emerso il lato autoritario, prescrittivo, del politicamente corretto. Tu industriale della pasta non puoi dire alla radio che per te, con rispetto per tutti, quel che conta, quel che importa ai fini dello sviluppo, dell'investimento, dell'immagine, del marketing, è la famiglia tradizionale biparentale, maschio e femmina e bambini al seguito.
Il Mulino bianco, lo spaghetto, i biscottini entrano nello spettro delle cose scorrette e discriminatorie se non si combinano con uno spot gay o «favorevole all'integrazione», secondo il linguaggio edulcorato o eufemistico scelto da Dario Fo, già testimonial della pubblicità Barilla. Guido Barilla viene aggredito, non solo in Italia, non solo dai militanti della cultura gay, non solo dai progressisti cosiddetti: ormai il linguaggio della correttezza ideologica è unificato, lo condividono le grandi maggioranze conformiste, è una seconda pelle della nostra cultura. L'aggressione punta a risultati umilianti e li ottiene, Barilla è costretto a scusarsi, anche con i suoi dipendenti, perché certe opinioni sono o stanno per diventare crimine di legge, alla faccia del diritto di pensiero e di parola, alla faccia delle libertà liberali. È un caso Buttiglione undici anni dopo. Ci fu almeno un principio di controversia, si sentirono voci discordanti, quando fu fatto fuori da commissario il politico cattolico che al tribunale della coscienza laica di Bruxelles, fattosi organo della caccia alle streghe sul tema dei diritti gay, rispose di conoscere la differenza tra diritto e morale, ma che in termini di morale la sua cultura cattolica gli suggeriva un giudizio negativo sul comportamento omosessuale. Ora non c'è più nemmeno la controversia, Barilla se lo sono cucinato in pochi istanti, il tempo di cottura di mezzo chilo di fusilli.
Intanto in Francia sono tornati i giacobini. Il ministro dell'Istruzione vuole scristianizzare la società e la scuola, formula decaloghi per l'indottrinamento anticattolico, si cancellano le feste religiose, si tolgono di mezzo i santi, si predica apertamente la religione dello Stato laico come l'unica religione ammessa, con i suoi dogmi, le sue certezze, il suo autocontraddittorio farsi dottrina valida per tutti. I politici cattolici e democristiani in giro per l'Europa se ne impipano, i vescovi parlano d'altro, magari interpretano le frequenti interviste e gli interventi di Papa Francesco come un via libera: non giudicare è evangelico, credere è evangelico, avere fede è meglio di niente, ma il diritto all'espressione razionale, la libertà di dire e di pensare quel che sembra giusto non è disponibile, o non dovrebbe esserlo. Eppure un certo grado di autoritarismo repressivo si affaccia come una necessità se si intenda riformare e riaggiustare dalle radici la società e il set più o meno tradizionale di opinioni che la riguardano.
La tecnica è quella dei totalitarismi democratici moderni, che sono cosa diversa dai fascismi e dal nazismo. Si procede negando la realtà, il fatto, e dando tutto il potere alle formule verbali che edulcorano o deformano in modo anche grottesco ciò che è. Il caso Berlusconi non è così diverso. Il politicamente corretto, che costituisce un regime culturale, non può sopportare lo sguardo del reale, del senso comune. È stranoto che c'è un conflitto tra politica e giustizia, che questo conflitto dura dall'epoca in cui furono liquidati i partiti politici, che il partito dei pm e dei giudici ha surrogato gli altri poteri abrogando la divisione dei poteri, che lobby mediatiche e finanziarie e civili importanti hanno costruito sulle avventure della giustizia politicizzata le loro fortune. È tutto lì squadernato davanti agli occhi del pubblico, solo che si voglia guardare: magistrati che fondano partiti o si buttano con risultati mediocri in politica, pm che fanno secco una volta un governo Berlusconi e la volta dopo un governo Prodi in un circuito senza controllo di prepotere e di uso politico della giurisdizione, l'alleanza con i media manettari all'insegna della violazione sistematica del segreto investigativo, e si potrebbe continuare a lungo.
Ma bisogna resistere alla realtà, evitare di confrontarsi l'evidenza. E allora si ricorre al linguaggio, al conformismo del linguaggio interpretativo. Bisogna tenere separata la questione della condanna di Berlusconi dalla politica, oops, ma come si fa se da vent'anni il centrodestra denuncia una manovra mediatico-giudiziaria ai danni della politica e del suo capo politico? Eppure con questi espedienti ideologici fatti di formule si fomenta un'aggressione vasta e aspra all'Arcinemico, accusato di eversione perché protesta contro quella che considera un'ingiustizia capace di svuotare lo Stato di diritto e la democrazia del suo contenuto e della sua forma. Qui non è in questione un cambio di governo o di maggioranza, l'obiettivo dei politicamente corretti è l'instaurazione di un regime mentalmente carcerario, di una grande prigione culturale.
«Il Giornale» del 29 settembre 2013

Da “hashtag” a “rottamatore” ecco la nuova lingua degli italiani

Il vocabolario Zingarelli nell’edizione 2014 propone 1500 new entry, che arrivano da mondi diversi. Tecnicismi, parlate dialettali e persino slang americano entrano nella vita quotidiana
di Raffaella De Santis
Dopo aver inflazionato la cronaca politica e le pagine dei giornali, ora il “rottamatore” entra tra le nuove voci dello Zingarelli 2014 con il significato figurato di “colui che si propone di allontanare e sostituire un gruppo dirigente considerato antiquato” (fino a ieri si riferiva a chi si occupa della rottamazione delle auto).
In genere le parole trovano posto nei vocabolari dopo tanti anni di rodaggio tra la gente, stavolta sono bastati tre anni a sdoganare la formula di Matteo Renzi. Ma se la scelta di inserire “rottamatore” non stupisce, altri vocaboli registrati tra le 1500 new entry del dizionario suonano meno familiari, come ad esempio “adultescente”, neologismo usato per indicare i giovani trentenni le cui condizioni di vita (studio, lavoro, casa) e la cui mentalità sono considerate simili a quelle di un adolescente. Un’evoluzione della sindrome di Peter Pan, malattia inguaribile dell’Occidente: gli anglosassoni li chiamano “kidult”, i bambini adulti (kid+adult) e i francesi “adulescent” (contrazione dei termini “adult” e “adolescent”).
Ma come vengono selezionate le nuove voci? Massimo Arcangeli, direttore dell’Osservatorio linguistico Zanichelli, spiega: «Le parole sono simili ai fenomeni carsici, esplodono, si inabissano e poi magari si ripresentano. È importante tenerle a lungo sotto osservazione, valutarne la frequenza d’uso e anche il peso qualitativo e culturale. I mutamenti della lingua sono molto veloci, è naturale che a volte si arrivi in ritardo, come nel caso di “videointervista” o “self-publishing”, in circolazione già da un po’».
Colpisce che i “cocoprò” siano entrati solo ora, mentre è cosa nota che il “posto fisso” ha fatto il suo tempo, nonostante la Lonely Planet continui a menzionarlo tra le caratteristiche dell’italian way of life, insieme al cornetto al bar e al cappuccino. «Le parole sono pesanti, rappresentano il reale», continua Arcangeli. Alcune ci ronzavano intorno da anni come il termine “rosicone”, diffuso soprattutto nell’Italia centrale per dire “invidioso” in una maniera più tormentata. L’aveva usato una volta Ilary Blasi affermando di essere “una tipa un po’ rosicona” e poi però se ne era appropriato un calabrese come Rino Gattuso dando dei “rosiconi” agli avversari della nazionale francese.
Altri modi di dire sembrano invece rinverdire il vecchio burocratese, sempre in agguato: da “pedaggiare” (sottoporre a un sistema di pedaggio) a “asteriscare” (contrassegnare con un asterisco), da “profilazione” (descrizione sintetica del profilo di una persona) allo “sbigliettamento” (emissione dei biglietti per uno
spettacolo). «Un dizionario registra la densità dei cambiamenti, dunque anche la rinascita del burocratese, per il quale ci sarà un ritorno di fiamma», spiega Arcangeli che cura sul sito Zanichelli il Dizionario del parlar chiaro.
Certo, l’identikit dell’italiano che viene fuori dallo Zingarelli 2014 non è confortante: siamo “iperattivi”, vestiamo “bling bling”, cioè “in modo vistoso e ostentato” e sembriamo affetti da un crescente “nostalgismo”. Segno che nonostante la velocità dei cambiamenti, preferiamo vivere di rimpianti.
«La Repubblica» del 12 settembre 2013

27 settembre 2013

Guardarsi in faccia al festival

Ci si interroga sul successo dei raduni letterari e filosofici. Anche se non è un fenomeno nuovo. Molti giovani sono stanchi della superficialità che dilaga. E poi la socializzazione virtuale mostra tutti i suoi limiti
di Umberto Eco
In questo scorcio d'autunno proliferano i festival letterari-filosofici. Ogni città, pare, vuole avere il proprio, emulando le fortune originarie del festival di Mantova; ogni città cerca di avere le menti migliori esistenti sul mercato; in alcuni casi alcune menti migrano da festival a festival, ma in ogni caso il livello dei partecipanti è piuttosto alto. Ora quello che sta eccitando giornali e riviste non è tanto il fatto che questi festival siano organizzati, perché potrebbe trattarsi della pia illusione di qualche assessore alla Cultura, ma che attraggano folle quasi da stadio, in gran parte giovani che arrivano da altre città e spendono uno o due giorni per ascoltare scrittori e pensatori. E in più a gestire questi eventi concorrono squadre di volontari (anche qui giovani) che vi si dedicano come un tempo i loro padri andavano a disseppellire dal fango i libri dopo l'alluvione di Firenze.
Quindi mi pare superficiale e stolta la riflessione di alcuni moralisti che prendono sul serio l'interesse alla cultura solo quando è praticato da un esiguo numero di loro simile, e vedono in questi eventi un esempio di McDonald's del pensiero. Il fenomeno è invece degno di interesse e bisogna chiedersi perché i giovani vadano lì invece che in discoteca; e non si dice che è la stessa cosa, perché non ho ancora udito di auto piene di ragazzi in ecstasy che si schiantano alle due di notte tornando da un Festival della Mente.
Vorrei solo ricordare che il fenomeno, anche se è negli ultimi anni che è esploso in misura massiccia, non è nuovo, perché è dagli inizi degli anni Ottanta che la biblioteca comunale di Cattolica aveva iniziato a organizzare serate (a pagamento!) su "Che cosa fanno oggi i filosofi", e il pubblico arrivava anche in pullman da un raggio di almeno cento chilometri. E già allora qualcuno si era domandato che cosa stesse succedendo.
Né credo che si possa assimilare la faccenda al fiorire di bistrot filosofici intorno a Place de la Bastille a Parigi, dove alla domenica mattina, mentre si sorseggia un Pernod, si fa della filosofia spicciola e terapeutica, una sorta di psicoanalisi meno costosa. No, in questi raduni il pubblico ascolta per ore dei discorsi da aula universitaria. Ci va, ci sta, ci torna.
E allora rimangono solo due ordini di risposte. Di uno si era già parlato sin dai primi raduni di Cattolica: una percentuale di giovani è stanca di proposte d'intrattenimento leggero, di recensioni giornalistiche ridotte (salvo pochi casi eccellenti) a finestrelle e stelloncini di una decina di righe, di televisioni che, quando parlano di un libro, lo fanno solo dopo la mezzanotte. E dunque danno il benvenuto a offerte più impegnative. Si parla per i pubblici dei festival di centinaia e talora di migliaia di partecipanti e certo sono una percentuale assai bassa risetto alla maggioranza generazionale, corrispondono a quelli che frequentano le librerie a più piani, sono certamente un'élite; ma sono un'élite di massa, vale a dire quel che può essere un'élite in un mondo da 7 miliardi di abitanti. E' il minimo che una società può chiedere al rapporto tra autodiretti ed eterodiretti, non si può averne statisticamente di più, ma guai se questi non ci fossero.
La seconda ragione è che questi raduni culturali denunciano l'insufficienza dei nuovi modi di socializzazione virtuale. Puoi avere migliaia di contatti su Facebook ma alla fine, se non sei completamente drogato, ti accorgi che non sei davvero in contatto con esseri in carne e ossa, e cerchi allora occasioni per stare insieme e condividere esperienze con gente che la pensa come te. E' come raccomandava Woody Allen non ricordo dove: se vuoi trovare delle ragazze devi andare ai concerti di musica classica. Non a quelli rock, dove urli verso il palco ma non sai chi ti sta accanto, ma a quelli sinfonici o da camera, dove nell'intervallo intrecci qualche contatto. Non sto dicendo che si vada ai festival per trovare un partner, ma certamente lo si fa per guardarsi in faccia.
«L'Espresso» del 20 settembre 2013

Qualcuno ci liberi dai commenti alle notizie online

di Francesco Costa
Tra le molte discussioni che si fanno in questi anni riguardo al giornalismo e internet, ce n'è una che si fa molto nei giornali – tra le redazioni, i direttori, gli editori – e poco sui giornali: cosa fare con i "commenti", cioè gli interventi pubblicati direttamente dai lettori in calce agli articoli.
Gli addetti ai lavori ne discutono spesso, soprattutto quando ai direttori o agli editori capita di dare un'occhiata a quello che succede nella sezione dei commenti dei loro siti, ma non è uno dei classici temi su cui si organizzano tavole rotonde e dibattiti con esperti: un po' perché è sicuramente una questione minore, all'interno della svolta epocale che sta coinvolgendo i giornali di tutto il mondo, e un po' perché parlarne in pubblico è complicato e delicato. Ma il problema esiste.
Da settembre sull'edizione statunitense dell'Huffington Post non è più possibile commentare gli articoli in forma anonima: bisogna fornire nome e cognome. L'Huffington Post non è il Financial Times, serioso, elegante e di nicchia: è una specie di mega-tabloid che ha costruito le sue fortune su una tecnologia formidabile e sulla costruzione di grandissime masse di contenuti e di utenti, senza preoccuparsi della loro qualità. Nonostante questo, e nonostante il controllo e la supervisione di 40 persone (!), ha ritenuto di dover intervenire. I disturbatori e i violenti sono diventati «sempre più cattivi, aggressivi e ingegnosi», hanno spiegato, trasformando la sezione dei commenti «in uno dei luoghi più oscuri di internet». L'Huffington Post aggiunge che questa deriva è evidente guardando cosa accade in calce ai loro articoli «ma anche a quelli di altri siti di news», e che tre quarti dei commenti che riceve (!) non vanno online perché spam o perché «contengono livelli impubblicabili di vetriolo».
Su una cosa quelli dell'Huffington Post hanno ragione: le sezioni dei commenti sui siti di news molto frequentati contengono nel migliore dei casi luoghi comuni, banalità fuori tema e umorismo di quarta categoria. L'equivalente delle interviste ai passanti trasmesse dai telegiornali. Nel peggiore dei casi, che purtroppo è anche il più frequente, contengono violenza, insulti, aggressività, sessismo, razzismo, diffamazioni e calunnie: tutto ripetuto a grandissima frequenza e tutto destinato a rimanere per anni visibile e accessibile attraverso i motori di ricerca. Su un'altra cosa, però, quelli dell'Huffington Post hanno torto: il problema non è l'anonimato nei commenti. Il problema sono i commenti.
La diffusione dei commenti in calce agli articoli online è un retaggio dell'esplosione dei blog e del cosiddetto "web 2.0". Nel frattempo sono passati più di dieci anni – su internet praticamente un'era geologica – ed è cambiato tutto: come si fanno i siti, chi li legge, come vengono letti, cosa ci trovi dentro. I commenti sono rimasti.
Quello che sappiamo è che persino siti con milioni di lettori al giorno hanno poche centinaia di commentatori fissi: niente che allarghi gli orizzonti e il pubblico del giornale, niente che influisca in alcun modo sui dati di traffico, niente che migliori la qualità delle pagine su cui scrivono. Anzi, spesso la qualità precipita. I commenti non attirano nuovi utenti e lettori: spesso li respingono. Piuttosto che "creare community" – un mantra dell'internet del secolo scorso – nella nostra epoca le nicchie di commentatori distruggono le community (questa è la conclusione a cui è arrivato Gawker, altro sito americano di news di grande successo). L'idea che basti supervisionare i commenti per renderli utili è illusoria, come mostra la decisione dell'Huffington Post – e non c'è giornale in Italia che considererebbe utile assumere 3 persone, figuriamoci 40, per controllare i commenti.
Acclarato che la decisione sul pubblicare o no i commenti non ha a che fare con la costruzione di un sito di news letto e apprezzato, né col mantenimento di una comunità di lettori numerosa e partecipe, il grande equivoco è pensare che c'entri invece con la libertà d'espressione. La libertà di espressione non garantisce il diritto di scrivere qualsiasi cosa in calce a un articolo né obbliga i giornali a pubblicare qualsiasi cosa sulle loro pagine. Nessuno lo pretenderebbe o lo considererebbe normale su un giornale di carta, e non solo per ragioni di spazio: perché non avrebbe senso. Quello che avrebbe senso per i siti di news sarebbe, paradossalmente, quello che fanno già i giornali di carta: invitare i lettori a inviare i loro commenti via e-mail, cosa che già ridurrebbe moltissimo il rumore di fondo, e pubblicare i pochi davvero interessanti, i migliori. Il posto degli altri non è sui giornali, ma sui social network: hanno molto a che fare con la chiacchiera, niente con l'informazione.
«Il Sole 24 Ore» del 27 settembre 2013

Cervello immaturo, pena ridotta

di Arnaldo Benini
Con minorenni responsabili di gravi crimini, la giustizia degli Stati Uniti è più severa che qualunque altro paese industrializzato. Le condanne a morte di minorenni sono state rare, ma fino al 2012 erano in carcere da quand'erano minorenni, senza poter abbreviare la detenzione, circa 2.500 ergastolani. Con quattro sentenze fra il 1988 e il 2012 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha mitigato le pene per minorenni. Sebbene la Corte non renda pubbliche le motivazioni, Laurence Steinberg, psicologo dell'Università di Temple a Filadelfia, dopo aver esaminato i protocolli dei dibattimenti, ritiene che nella svolta abbiano giocato un ruolo importante gli studi delle neuroscienze dello sviluppo del cervello. La Corte avrebbe tenuto conto delle prove scientifiche che giovani e adolescenti non sono responsabili del loro comportamento come gli adulti a causa dell'immaturità psicologica e biologica. Qualcuno ha motteggiato che per arrivare a quel che è evidente a ogni genitore non ci voleva molta scienza. In vicende tanto delicate è in ogni caso d'aiuto che la scienza confermi il senso comune.
In considerazione dell'ottavo emendamento della Costituzione, che proibisce punizioni crudeli, la Corte Suprema nel 1988 dichiarò incostituzionale la pena di morte sotto i 16 e nel 2005 sotto i 18 anni. Nel 2010 fu giudicato incostituzionale il carcere a vita senza possibilità di sconto della pena in minori di 18 anni, a eccezione degli omicidi. Una sentenza del 2012 annullò l'eccezione. Quel che è crudele, e quindi incostituzionale, per un adolescente, non lo è per un adulto normale. Nel 2002 la Corte giudicò incostituzionale la pena di morte in ritardati mentali di qualunque età, anche se consapevoli della differenza fra lecito e illecito. Il ritardo mentale ne compromette la capacità di decidere e quindi ne attenua la responsabilità. Come l'immaturità (molto individuale), il ritardo mentale è una diagnosi comportamentale, neuropsicologica e neurobiologica. Tribunali di livello inferiore hanno tenuto in considerazione, specie a partire dall'anno 2000, gli studi sullo sviluppo del cervello degli adolescenti e sulla particolare suscettibilità dei cervelli immaturi alle influenze esterne. Per questo sono frequenti negli ultimi anni differenze di pena motivate con indagini neuro-scientifiche per lo stesso delitto (ad esempio gettare un sasso da un ponte sulla strada mentre passa un'auto, con conseguenze gravi o mortali) fra bambini, ad esempio di 6-8 anni, e adolescenti.
Le neuroscienze (con tutti i supporti tecnici) stanno acquisendo negli Stati Uniti un ruolo importante nello stabilire la legittimità delle sentenze in crimini di bambini, adolescenti e giovani adulti. È verosimile che questa pratica si applichi anche fuori degli States. Steinberg se ne rallegra, ma mette in guardia, a ragione, da errori ed esagerazioni. Nelle aule dei tribunali le scienze comportamentali dovrebbero conservare il ruolo determinante, perché la legge giudica il comportamento degli imputati e non il funzionamento del loro cervello. Per aver la licenza di guida, dice Steinberg, non basta dimostrare con la neuroimaging di avere il cervello a posto. Bisogna dar prova di saper guidare. È opportuno che le neuroscienze siano sempre più considerate nelle aule di giustizia come supporto dei dati comportamentali, e non come guida delle sentenze. Esse sono più plausibili se esami comportamentali e neuroscientifici coincidono. Le neuroscienze cognitive acquistano sempre più responsabilità civile e sociale. Ciò deve imporre ad autori ed editori di saggi e libri di neuroscienze la scrupolosa aderenza alla realtà. Annunciare, ad esempio, che con le tecniche della neuroimaging si può leggere il pensiero degli altri è sensazionale, ma non è vero. Con quelle tecniche si fanno studi straordinari e s'aiutano in modo decisivo molti ammalati. Leggere il pensiero non è possibile ora, e non lo sarà mai.

Laurence Steinberg, The influence of neuroscience on US Supreme Court decisions about adolescents' criminal culpability, Nature Review Neuroscience Vol. 14, July 2013, pagg. 513-518
«Il Sole 24 Ore» del 22 settembre 2013

24 settembre 2013

“La legge sull’omofobia? Come i processi di Mao”

Parla Scruton
di Giulio Meotti
“Si sta creando una neolingua come contro l’anticomunismo ai tempi della Guerra fredda. Una lingua di legno”
“George Orwell ha già detto tutto nei suoi famosi ‘due minuti di odio’ del romanzo 1984”, dice al Foglio il filosofo e commentatore inglese Roger Scruton. “La questione omosessuale è complicata e difficile, ma non puoi imprigionare il pensiero con leggi sulla cosiddetta ‘omofobia’ come quella al Parlamento italiano, che altro non è che la criminalizzazione della critica intellettuale sul tema del matrimonio gay. E’ un nuovo crimine intellettuale, ideologico, come lo fu l’anticomunismo durante la Guerra fredda”.
Settantenne docente di Filosofia alla St. Andrews University, autore di trenta libri che ne hanno fatto il più noto filosofo conservatore inglese (è stato definito dal Sunday Times “the brightest intellect of our time”), Scruton commenta così la legge in discussione al Parlamento per la criminalizzazione dell’“omofobia”. Anche Amnesty International si sta spendendo a favore della norma. “A me questa legge sull’omofobia ricorda i processi farsa di Mosca, e quelli della Cina maoista, in cui le vittime confessavano entusiaste i propri crimini prima di essere giustiziati. In tutte queste cause in cui gli ottimisti accusano gli oppositori di ‘odio’ e ‘discorso dell’odio’ ci vedo quella che il filosofo Michael Polanyi nel 1963 definì ‘inversione morale’: se deplori il welfare manchi di ‘compassione’; se ti opponi alla normalizzazione dell’omosessualità sei un ‘omofobo’; se credi nella cultura occidentale sei un ‘elitista’. L’accusa di ‘omofobia’ significa fine della carriera, specie per chi lavora all’università”.
Scruton sostiene che la manipolazione della verità passa attraverso la distorsione del linguaggio, come nell’opera di Orwell, sotto il nome di “Neolingua”. “La neolingua interviene ogni volta che il proposito principale della lingua, che è di descrivere la realtà, venga sostituito dall’intento opposto: l’affermazione del potere sopra di essa. Qui l’atto linguistico fondamentale solo superficialmente coincide con la grammatica assertiva. Le frasi della neolingua suonano come asserzioni in cui la sola logica sottostante è quella della formula magica: mostrano il trionfo delle parole sulle cose, la futilità dell’argomentazione razionale e il pericolo di resistere all’incantesimo. Come conseguenza, la neolingua ha sviluppato una sua speciale sintassi che, sebbene strettamente connessa a quella normalmente usata nelle descrizioni ordinarie, evita accuratamente anche solo di sfiorare la realtà o di confrontarsi con la logica dell’argomentazione razionale. E’ quello che Françoise Thom ha cercato di illustrare nel suo studio, ‘La langue de bois’ (la lingua di legno). Alcune delle peculiarità sintattiche sono state messe in rilievo da Thom: l’uso di sostantivi al posto di verbi diretti; la preferenza della forma passiva e della costruzione impersonale; l’uso di comparativi al posto di predicati; l’onnipresenza del modo imperativo”.
Con la legge sulla omofobia, dice Scruton, “si tratta di instillare nella mente del pubblico l’idea di una forza maligna che pervade tutta l’Europa, albergando nei cuori e nella testa della gente che può essere ignara delle sue macchinazioni e dirottando sul sentiero del peccato anche il progetto più innocente. La neolingua nega la realtà e la indurisce, trasformandola in un qualcosa di estraneo e resistente, un qualcosa ‘contro cui lottare’ e che deve ‘essere vinto’. Il linguaggio comune riscalda e ammorbidisce; la neolingua raggela e indurisce. Il discorso comune genera, con le sue stesse risorse, i concetti che la neolingua proibisce: corretto-scorretto; giusto-ingiusto; onesto-disonesto; tuo-mio”.

Una forma di “rieducazione”
Scruton dice che c’è una paura dell’eresia che si espande nei paesi europei. “Un sistema ragguardevole di etichette semi ufficiali sta emergendo per prevenire l’espressione di punti di vista ‘pericolosi’. La minaccia si diffonde così rapidamente nella società che non c’è modo di evitarla. Quando le parole diventano fatti, e i pensieri sono giudicati dall’espressione, una sorta di prudenza universale invade la vita intellettuale. La gente modera il linguaggio, sacrifica lo stile per una sintassi più ‘inclusiva’, evita sesso, razza, genere, religione. Qualsiasi frase o idioma che contenga il giudizio su un’altra categoria o classe di persone può diventare, dal giorno alla notte, l’oggetto di una stigmatizzazione. Questo politicamente corretto è una censura soft in cui si manda la gente al rogo per i pensieri ‘proibiti’. Le persone che hanno un ‘giudizio’ sono condannate con la stessa violenza di Salem”. Quello del processo alle streghe nel Massachusetts. La lettera scarlatta.
“Chi si angustia per tutto ciò e vuole esprimere la sua protesta dovrà lottare contro potenti forme di censura. Chi dissente da ciò che sta diventando ortodossia nei ‘diritti dei gay’ è regolarmente accusata di ‘omofobia’. In America ci sono comitati, preposti alle nomine di candidati, che li esaminano per sospetta ‘omofobia’, e vengono liquidati una volta che sia stata formulata l’accusa: ‘Non si può accettare la richiesta di quella donna di fare parte di una giuria in un processo, è una cristiana fondamentalista e omofobica’”.
Secondo Scruton, si tratta di una operazione ideologica che ricorda appunto quella durante la Guerra fredda: “Allora erano necessarie definizioni che stigmatizzassero il nemico intestino e ne giustificassero l’espulsione: era un revisionista, un deviazionista, un sinistrorso immaturo, un socialista utopista, un social-fascista. Il successo di queste ‘etichette’ nell’emarginare e condannare l’oppositore ha corroborato la convinzione comunista che si può cambiare la realtà cambiando il linguaggio: per esempio, si può inventare una cultura proletaria con la parola ‘proletkult’; si può scatenare la caduta della libera economia semplicemente gridando alla ‘crisi del capitalismo’ ogni volta che il tema venga sollevato; si può combinare il potere assoluto del Partito comunista con il libero consenso della gente definendo il governo comunista un ‘centralismo democratico’. Quanto si è rivelato facile uccidere milioni di innocenti visto che non stava succedendo niente di grave, era solo la ‘liquidazione dei kulaki’! Quanto è semplice rinchiudere la gente per anni in campi di lavoro forzato fino a che non si ammala o muore, se la sola definizione linguistica concessa è ‘rieducazione’. Adesso c’è una nuova bigotteria laica che vuole criminalizzare la libertà d’espressione sul grande tema dell’omosessualità”.
Da ultimo, dice Scruton, è lo scontro fra il “pragmatista” e il “razionalista”: “Non c’è alcuna utilità nelle vecchie idee di oggettività e verità universale, l’unica cosa che conta è che ‘noi’ si sia d’accordo. Ma chi siamo ‘noi’? E su cosa ci troviamo d’accordo? ‘Noi’ siamo tutti per il femminismo, liberali, sostenitori del movimento di liberazione dei gay e del curriculum aperto; ‘noi’ non crediamo in Dio o in qualunque religione tramandata, e le vecchie idee di autorità, ordine e autodisciplina per noi non contano. ‘Noi’ decidiamo il significato dei testi, creando con le nostre parole il consenso che ci aggrada. Non abbiamo alcun vincolo, a parte la comunità alla quale abbiamo scelto di appartenere, e poiché non c’è verità oggettiva, ma solo un consenso autogenerato, la nostra posizione è inattaccabile da qualsiasi punto di vista al di fuori di essa. Non solo il pragmatista può decidere cosa pensare, ma si può anche proteggere da chiunque non la pensi allo stesso modo”.
«Il foglio» del 24 settembre 2013

Zoomarine, protesta animalista: tensione con i visitatori

ESERCIZIO: riscrivi la notizia in forma di racconto breve, assumendo la focalizzazione interna a due dei personaggi della vicenda
Spintoni tra le famiglie e i manifestanti che si sono incatenati al cancello di ingresso del parco acquatico di Torvajanica impedendo l'accesso
(senza indicazione di autore)
Tensione a Zoomarine per una protesta animalista. Alcuni manifestanti si sono incatenati stamattina ai cancelli del parco acquatico di Torvajanica.
Sul posto sono intervenuti i carabinieri di Pomezia ma tra gli animalisi e i visitatori del parco, impossibilitati ad entrare, si è sfiorata la rissa.
Zoomarine in un comunicato ha attaccato i manifestanti che "hanno bloccato i tornelli di ingresso impedendo ai visitatori di accedere alla struttura, con un comportamento violento che ha spaventato le famiglie e i bambini presenti". "I manifestanti hanno eluso la sorveglianza e si sono posizionati all'ingresso, bloccando i tornelli e cercando di impedire ai visitatori l'accesso al Parco. La direzione di Zoomarine è stata costretta a far entrare il pubblico da altri accessi per evitare disagi", sottolinea la nota.
Zoomarine ha poi affermato che "tutti gli animali presenti nel parco sono nati in ambiente controllato all'interno della struttura o in altri acquari e giardini zoologici europei, anche da più generazioni. Gli standard qualitativi di mantenimento degli animali sono riconosciuti da associazioni internazionali a livello medico-veterinario e scientifico, come Eaza, Ammpa, Eaam, Iaaam e Imata".
Il parco, inoltre, si legge nel comunicato, "sigla accordi e convenzioni con le principali università italiane per favorire lo sviluppo di progetti di ricerca sulla
salute e sulla tutela degli animali e di sensibilizzazione sulla salvaguardia dell'ambiente". "Ne è prova anche il fatto - sottolinea il parco tematico - che Zoomarine mette il proprio know how scientifico al servizio di enti e di istituzioni competenti nella gestione e nella salvaguardia di specie protette, come nel caso degli spiaggiamenti dei delfini sulle nostre coste, attività per la quale collabora con la Regione Lazio".
«La Repubblica» (edizione romana) del 22 settembre 2013

Salvato cagnolino agonizzante: era nell'auto parcheggiata sotto il sole

ESERCIZIO: riscrivi la notizia in forma di racconto breve, assumendo la focalizzazione interna a due dei personaggi della vicenda
(senza indicazione di autore)
A dare l'allarme una ragazza di un ristorante in via Cavour, dove l'auto era parcheggiata. Il cane aveva difficoltà respiratorie
ROMA - Un cagnolino agonizzante chiuso nell'auto sotto al sole con i finestrini chiusi. La bestiolina è stata salvata da una fine certa: è stata notata da una ragazza di un vicino ristorante e salvato dall'intervento dei Carabinieri e dei Vigili del Fuoco. Il cane che aveva difficoltà respiratorie era chiuso a chiave in una macchina con targa straniera parcheggiata in via Cavour.

IL SALVATAGGIO - I Carabinieri, viste le condizioni del meticcio aggravarsi minuto dopo minuto, hanno immediatamente attivato i Vigili del Fuoco che, dopo alcuni tentativi, sono riusciti ad aprire una portiera dell’utilitaria e a soccorrere la bestiolina.

IMPACCHI DI ACQUA - Il cane, che inizialmente reagiva a stento anche agli stimoli sonori, ha superato il momento di grande sofferenza grazie agli impacchi con acqua fresca fatti dai soccorritori e, soprattutto, dopo una bella bevuta. Per i proprietari del cagnolino, due turisti spagnoli di 23 anni che sono arrivati sul posto nel corso delle operazioni, è scattata la denuncia a piede libero con l’accusa di maltrattamento di animali. Il piccolo meticcio è stato affidato al personale veterinario dell’Asl “Roma A” i quali, dopo averlo visitato e dichiarato fuori pericolo, ne hanno curato il trasporto al canile della Muratella di via della Magliana.
«Corriere della Sera» (edizione romana) del 23 settembre 2013

Campagne elettorali del futuro chi non è interconnesso è perduto

Incontro con Michael Slaby e Betsy Hoover, artefici del successo digitale di Obama: così cambierà la comunicazione politica
di Marco Bardazzi
Se le ultime due campagne elettorali americane vi sono sembrate tecnologiche, aspettate di vedere le prossime. Chiunque siano i candidati che si sfideranno nel 2016 per la successione a Barack Obama alla Casa Bianca, lo scenario digitale su cui si muoveranno farà sembrare archeologia le innovazioni introdotte dal presidente nel 2008 e 2012. Le parole d’ordine? Non più soltanto «social» e «partecipazione», ma anche «reti delle reti», «mappe relazionali», «interconnessioni».
Le direttrici dell’evoluzione della comunicazione politica made in Usa si intuiscono conversando con Michael Slaby e Betsy Hoover, due tra i principali artefici del successo di Obama in campo digitale. Lui è stato alla guida dello staff digitale del futuro presidente nel 2008, «quando eravamo - racconta - una sorta di start-up politica, gli sfidanti trasandati che nessuno si aspettava potessero vincere». Poi ha fatto il bis nel 2012, come capo dell’innovazione e dell’integrazione nel quartier generale obamiano a Chicago. Lei ha guidato l’organizzazione digitale dello staff di Obama for America 2012. Su quelle esperienze hanno costruito carriere da consulenti di strategie politiche, non solo negli Stati Uniti. In questi giorni girano l’Italia e ieri erano in visita a La Stampa, per uno scambio d’idee sul futuro digitale con il direttore Mario Calabresi e la redazione.
Per Slaby e Hoover è ormai chiaro che la politica, come tanti altri ambiti umani, in futuro sarà preclusa a chi non abbia almeno una consapevolezza di base su come mutano le relazioni nell’era del web. Ma organizzare le comunità e coinvolgere più gente attraverso i social media, come Obama ha fatto nel 2008 e poi su larga scala nel 2012, non basta più. «La frammentazione con cui avevamo a che fare in quegli anni - spiega Slaby - ora è sfociata in nuove interconnessioni. Dobbiamo ripensare completamente le modalità con cui raggiungere le persone. Non c’è più il messaggio da diffondere in stile broadcast, come se fosse comunicazione aziendale. Siamo di fronte a nuovi scenari di partecipazione che richiedono nuove mappe».
Come esploratori che si avventurano per la prima volta in terre ancora sconosciute, gli strateghi americani associano l’attività politica alla cartografia: le piattaforme social stanno creando reti di cui ciascuno di noi è un nodo, e queste realtà vanno mappate per capire quali rotte seguire. Uno staff elettorale efficiente dovrà essere in questo senso un equipaggio capace di muoversi in un mare di rapporti personali, per trovare i soggetti da coinvolgere in una campagna elettorale. Ovviamente, avvertono i consulenti digitali di Obama, ciò che funziona negli Usa non può essere replicato acriticamente dovunque. Ma le regole di base sono le stesse.
«A chi decide di candidarsi a una carica e pensa a una strategia digitale - spiega Betsy Hoover - suggerisco in primo luogo di fare un passo indietro e riflettere sul fatto che l’obiettivo di fondo deve essere coinvolgersi con gli elettori, trovarli e restare in rapporto con loro nel tempo. Con questo in mente, occorre cominciare a pensare a che tipo di linguaggio serve, quali piattaforme usare. Occorre poi investire nel proprio programma digitale. Costruire una squadra, trovare le persone giuste per eseguire la strategia».
Le tecnologie, i social come Facebook o Twitter in questo scenario divengono «moltiplicatori di forze», dice Slaby, come lo sono stati nel progetto «Narwhal», il nome in codice che era stato dato all’apparato tecnologico messo in campo nel 2012 nel quartier generale di Obama. «Lo scopo, ieri come nelle prossime elezioni, deve essere quello di dare più potere agli elettori, perché giochino un ruolo di primo piano nell’organizzazione elettorale». Comprendere le nuove mappe delle relazioni, i rapporti tra i «nodi» delle reti di reti, serve a raggiungere in modo più efficiente questo traguardo.
Ricette che funzionano anche in Italia? Slaby pensa di sì. Lo scenario politico italiano lo conosce abbastanza da poterlo giudicare. L’anno scorso ha tenuto a Montecitorio una lezione di comunicazione ai politici di casa nostra. All’inizio di settembre era a Cernobbio, seduto al fianco di Gianroberto Casaleggio, a parlare a una platea dove lo ascoltava anche il premier Enrico Letta. «C’è molta innovazione interessante in Italia», spiega. «L’esistenza e il successo del Movimento 5 Stelle sono la prova che la gente è interessata e anche affamata di avere nuovi modi per essere coinvolta». Un discorso simile vale per il fenomeno Matteo Renzi, che Slaby ha incontrato e che considera un’altra novità positiva per il Paese. Se uno poi gli chiede se lavorerebbe come consulente per il sindaco di Firenze, o magari per Letta, l’ex stratega di Obama sorride divertito e non esclude nulla.
Ma i due giovani esperti americani mettono in guardia chiunque pensi che la politica nell’era digitale sia solo una faccenda di tecnologia, organizzazione, risorse. «L’interconnessione ci rende più appassionati che mai alle cose che stanno davvero a cuore», dice Slaby. E più abili nello smascherare chi si serve dei social solo per fare le classiche promesse da politico.
«La Stampa» del 24 settembre 2013

Il Paese senza Scilipoten

di Massimo Gramellini
Viste da qui, le elezioni tedesche sono state un fenomeno paranormale. Alle sei le urne erano chiuse, alle sei e un quarto si sapeva già chi aveva vinto, alle sei e mezza Merkel si concedeva un colpo di vita e stiracchiava le labbra in un sorriso, alle sette meno un quarto il suo rivale socialdemocratico riconosceva la sconfitta e alle sette tutti andavano a cena perché si era fatta una cert’ora.
Qualsiasi paragone con le drammatiche veglie elettorali di casa nostra – gli exit poll bugiardi, le famigerate «forchette», le dirette televisive spalancate sul nulla, le vittorie contestate o millantate e la cronica, desolante assenza di sconfitti – sarebbe persino crudele.
La diversità germanica rifulge ancora di più il giorno dopo. Pur stravincendo, Merkel ha mancato la maggioranza assoluta per una manciata di seggi. Eppure non invoca premi di maggioranza o altre manipolazioni del responso elettorale e si prepara serenamente ad aprire le porte del potere a uno dei partiti perdenti: socialdemocratici o Verdi. I cittadini tedeschi, di destra e di sinistra, paiono accogliere questa eventualità senza emozioni particolari. Nessun giornalista «moderato» grida al golpe. Nessun intellettuale «progressista» raccoglie firme per intimare ai propri rappresentanti di non scendere a patti con il nemico. Nessun Scilipoten eletto con l’opposizione si accinge a fondare un partito lillipuziano per balzare in soccorso della vincitrice. Né alla Merkel passa per l’anticamera del cervello e il risvolto del portafogli di trasformare il Parlamento in un mercato, agevolando il passaggio nelle proprie file dei pochi deputati che le basterebbero per governare da sola.
Nelle prossime settimane, con la dovuta calma, i due schieramenti si incontreranno. Ci sarà una discussione serrata sulle «cose» e si troverà un compromesso nell’interesse del Paese. Nel frattempo il capo sconfitto della Spd avrà già cambiato mestiere, anziché rimanere nei paraggi per fare lo sgambetto al suo successore. E alla scadenza regolare della legislatura si tornerà al voto su fronti contrapposti (e con due ottime candidate donne, probabilmente: la democristiana Ursula von der Leyen e la socialdemocratica Hannelore Kraft).
La saggezza popolare sostiene che i tedeschi amano gli italiani ma non li stimano, mentre gli italiani stimano i tedeschi ma non li amano. Ci deve essere del vero. Ma ieri, oltre a stimarli, li abbiamo invidiati un po’. Qualcuno dirà: troppo facile, loro possono coalizzarsi in santa pace perché nel principale partito del centrodestra hanno una Merkel, mica un Berlusconi, e in quello del centrosinistra gli ex comunisti sono spariti da un pezzo, a differenza dei presunti smacchiatori di giaguari. Anche in questa obiezione c’è del vero. Infatti è sbagliato dire che li invidiamo un po’. Li invidiamo tantissimo.
«La Stampa» del 24 settembre 2013

Alla ricerca del nome di Dio

di Vittorio Possenti
Dio rappresenta la più grande e misteriosa parola del linguaggio umano. In quanto grande si ripercuote in echi infiniti, in quanto misteriosa ci sfugge costantemente tra le mani. Come dire Dio? Come raggiungere con la parola e il concetto qualcuno che abita in un segreto inaccessibile? Come accedere al silenzio in cui egli abita? Appare certamente arduo raggiungerlo attraverso il linguaggio pubblico in cui spesso risuona il "si dice" della chiacchiera quotidiana. Forse queste quasi ovvie considerazioni ci potrebbero condurre a pensare che essere atei sia in fin dei conti la scelta migliore e più agevole, quella più coerente.
Eppure, se assumiamo il termine ateismo nel suo schietto significato, ossia fare a meno totalmente di Dio e innescare una battaglia contro la sua stessa idea (antiteismo), abbastanza curiosamente si può notare che il completo ateismo è una posizione nel complesso rara, ma soprattutto ardua per chi la pratica. Vorrei infatti sostenere che, mentre gli "atei pratici", cioè coloro che vivono come se Dio non ci fosse, sono abbastanza diffusi e nella loro posizione esistenziale non si pongono troppo domande, l’ateismo teorico convinto e direttamente avverso a Dio è infrequente. Esiste certo, ma non è così esteso come talvolta pensiamo: in numerosi casi la posizione atea si palesa piuttosto come negazione radicale e attacco alla religione. I nuovi atei degli ultimi 15 anni (R. Dawkins, D. Dennett, M. Onfray, Ch. Hitchens) sembrano aver preso di mira almeno altrettanto la religione che Dio, e forse più la prima. Il titolo di un noto volume di Hitchens suona: «Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa». Balza agli occhi che nei confronti di Dio si impiega un linguaggio meno violento e sprezzante che nei confronti della religione. Naturalmente può darsi che questa differenza sia introdotta per convenienza, per non "aggredire" troppo violentemente il lettore. Propendo per una risposta diversa, quella per cui i nuovi atei più o meno consapevolmente desiderano lasciare aperta una possibilità: la possibilità di Dio. Forse questo era il senso recondito delle domande sollevate da Eugenio Scalfari, ed è il senso esplicito della lettera di papa Francesco. In essa si dice che la possibilità di Dio è il Verbo incarnato, Gesù di Nazareth, incontrato nella concreta comunione di fede vissuta nella Chiesa. Sovviene una gran frase di Pascal: «Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo; non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo».
La possibilità di Dio rilancia il problema di quali siano i linguaggi migliori per dire Dio e per presentare la realtà e la novità del cristianesimo. Credo che sia necessaria una molteplicità di linguaggi in cui si riflette e si rifrange il mistero divino; e che dunque debbano intervenire il linguaggio concettuale e dichiarativo del pensiero teoretico che percorre le diverse vie che conducono a Dio (prove della sua esistenza), il linguaggio del senso comune, quello dell’etica, della bellezza, dell’agape. Cogliere l’esistenza del bene, l’intuizione che vi sono azioni sempre buone e altre sempre cattive, ossia cogliere gli assoluti morali, è una via e un linguaggio che non pochi percorrono. Tra coloro che sono scampati ai lager nazisti alcuni sono pervenuti alla fede in Dio dicendo a se stessi: poiché esiste l’abisso del male e io l’ho sperimentato, deve esistere l’abisso del bene. O anche: esiste l’abisso dell’odio, e allora deve esistere l’abisso dell’amore, della charitas. Qualcosa di analogo vale per l’esperienza della bellezza, per il sentimento che la pura bellezza che talvolta sperimentiamo non può non rinviare a una Bellezza infinita verso cui tendiamo ardentemente. Così hanno pensato Edgar Allan Poe e Charles Baudelaire.
Secondo il primo quando, spinti dalla Poesia o dalla Musica, ci sciogliamo in lacrime, ciò accade in quanto ci sentiamo incapaci di afferrare interamente, «qui sulla terra, una volta per sempre, quelle gioie divine ed estatiche, delle quali attraverso la poesia o attraverso la musica non attingiamo che visioni brevi e imprecise». Baudelaire aggiunge: «È esso, è questo immortale istinto del bello che ci fa considerare la terra ed i suoi spettacoli come un riflesso, come una “corrispondenza” del cielo». Per tentare di nominare Dio abbiamo bisogno di quasi infiniti nomi, come avverte lo Pseudo-Dionigi nel trattato sui nomi divini, come anche di nessun nome, perché egli sfugge a tutti. L’uomo tenta e ritenta, sin quando si accorge che è vero quanto sosteneva un grande santo e un grande contemplativo come Tommaso d’Aquino, ossia che alla fine della nostra inquieta ricerca noi conosciamo Dio come sconosciuto. Sappiamo che egli esiste, non chi egli sia. In ogni caso per conoscere qualcosa di Lui non possiamo separare la storia dei concetti da quella degli amori. E tra gli amori spicca quello dei mistici che ci danno un volto di Dio più profondo di quello che può provenire dalla sola ragione. I mistici ci parlano di Dio con la molteplicità della loro esperienza del divino. Essi vivono la libertà dei figli di Dio e comunicano con Lui. Se vogliamo entrare in un contatto migliore con Dio, con l’Assoluto, dobbiamo ascoltarli di più. La tradizione cattolica è su questo aspetto un poco esitante. La grande disputa tra Fénelon e Bossuet sul quietismo e sul puro amore di Dio ha gettato un’ombra sulla mistica che tarda a diradarsi.
«Avvenire» del 18 settembre 2013

Storia da manuale, solo errori e censure

di Paolo Simoncelli
Da più di un decennio, intermittenti polemiche politiche denunciano faziosità in molti manuali scolastici di storia; i rimedi proposti (commissioni, verifiche, eccetera) hanno peraltro fatto gridare allo scandalo d’una profilata censura. Il tema, lo ricordiamo all’inizio dell’anno scolastico, è antico e non è solo italiano. Il mutare di circostanze istituzionali, o politico-ideologiche, porta le nuove classi politiche alla riconsiderazione del passato nazionale. Si pensi ai nuovi manuali di storia di Stati dell’ex Urss o del blocco sovietico, della stessa nuova Federazione russa, a quelli giapponesi che tendono a ridurre se non pure a celare responsabilità e atrocità belliche, financo a quelli francesi, posti di fronte a direttive ministeriali ostative di critiche al patrio colonialismo. E poi perché solo di storia e non, ad esempio, di letteratura o di educazione civica? C’è un vortice di sovversioni concettuali e relative codificazioni scolastiche nel diritto pubblico tedesco tra Weimar, nazismo, e dopoguerra; mentre nell’Italia fascista il nuovo diritto corporativo affiancò ma non sostituì il "vecchio" diritto costituzionale-statutario. La questione della manualistica scolastica, su cui richiama l’attenzione un volume antologico di Antonio Gioia (Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimento e dibattito storiografico nei manuali di storia, Rubbettino, pp. 388, euro 22), ha dunque una propria storia con segmenti cronologici sempre utili per polemiche d’ogni provenienza. Per limitarci a questo dopoguerra, esponenti del Partito d’Azione avevano iniziato a porre il problema dei nuovi manuali scolastici ancor prima delle autorità alleate.
Guido De Ruggiero attendeva una «commissione ministeriale» preposta all’esclusione dei testi «che manifestano uno spirito partigiano o settario». Negli anni ’50 fu poi la volta di interventi comunisti diretti a denunciare al ministro della Pubblica Istruzione, Gonella, i contenuti di alcuni manuali di storia come quelli del Silva, Rodolico, Lizier, accusati di sopravvivenze fasciste o nazionaliste. Ma quando nuovi manuali iniziarono a diffondersi, cambiò la direzione delle denunce, e testi famosi come quelli di Spini e di Saitta vennero considerati pericolosi veicoli di marxismo nelle scuole italiane. Il che non impedì nel 1976 alla casa editrice fiorentina La Nuova Italia di censurare il volume di Saitta, in particolare nel giudizio sulla genesi degli anni di piombo e relative responsabilità politiche. Ma c’era stato di mezzo appunto il ’68, che aveva sconvolto la scuola italiana e resa ardua e difficile una libertà di analisi storica difforme dall’imposto dogma ideologico (riducendo con ciò la circolazione dei maggiori manuali "classici"). L’analisi di Gioia offre documenti utili a considerazioni non prive di qualche sorpresa: riservata al solo quinquennio di guerra italiana, 1940-45, è incentrata su 32 manuali scolastici editi dopo il decreto Berlinguer del 1996 che ha concentrato lo studio del solo ’900 nell’ultimo anno di liceo (ma perché non ampliare questa ricerca appunto a tutto il secolo, comprendendo quindi temi altrettanto cruciali, riducendo nel testo non le citazioni ma la loro esondazione?). Se, nel merito, può sorprendere che il manuale di Camera e Fabietti, additato tra i più "sinistri", giunto alle ultime edizioni, abbia almeno toccato il tema delle foibe (tra condanna e giustificazionismo), la sorpresa maggiore e più amara sta nella constatazione d’un diffuso modo aproblematico con cui questioni sensibilissime di quel quinquennio (appunto dall’intervento in guerra dell’Italia, alla caduta del fascismo, Regno del sud e Rsi, eccetera) vengono poste ed esposte con ritualità stancante, non di rado banale e spesso condita da errori, in una narrazione priva della capacità di coinvolgere emotivamente lo studente. Si va dalla solita pugnalata alle spalle della Francia sconfitta (manuali di Colarizi-Banti, Mascilli Migliorini, e altri), all’8 settembre ’43 che non è la data della firma dell’armistizio (Fossati-Luppi-Zanette), ma del suo annuncio e della fuga del re e del governo Badoglio da Roma.
Non è corretto in termini giuridico-istituzionali parlare di dirette annessioni al Reich di Alto Adige, Friuli, Triveneto (Barbagallo); né che la nascita della Rsi fosse voluta dai tedeschi (De Bernardi-Guarracino, e altri): tutt’altro. Eloquente peraltro il sostanziale silenzio della manualistica su uno dei temi di maggior discussione pubblica da oltre un quindicennio: l’8 settembre come «morte della patria», suscitato da Galli della Loggia. Ma ad essere assente è tutto il rapporto tra lo sviluppo accelerato delle ricerche scientifiche su quelle sensibilissime vicende e la relativa fruizione scolastica. L’aggiornamento del manuale, denuncia Gioia, è una semplice variazione editoriale. In merito, un discorso a parte va fatto per l’«eredità» storiografica defeliciana che ha documentato e riletto fuori da schemi preconcetti il quinquennio 1940-45, dalle vere cause dell’intervento in guerra dell’Italia, ai tentativi di pace separata con l’Urss, ai retroscena del 25 luglio, alla realtà numerica della Resistenza; sostanzialmente assente nella manualistica scolastica, appare presente nei suoi punti salienti più nel manuale di De Rosa (che aveva fra l’altro diverse radici metodologiche e politiche) che non di autori, come la Colarizi o Sabbatucci, pur di maggior vicinanza culturale allo storico del fascismo. Ma è un fatto che ci si trovi ormai di fronte alla destoricizzazione della cultura soppiantata dalla "civiltà" mediatico-spettacolare che ha fatto perdere alla storia, anche alla storia contemporanea, ogni appeal presso gli studenti; disinteressati, non portati a leggere il legame tra storia e storiografia, né dunque la proiezione politica della ricostruzione storica. Alle polemiche sulla manualistica faziosa che non hanno quindi colto l’ormai ridotta capacità del manuale come fonte di indottrinamento, andrebbe aggiunta una verifica su quanto quella lamentata faziosità, con la ricomposizione dei grandi gruppi editoriali, abbia determinato una rinuncia di progetti culturali alternativi; perpetuando però lamentele e proteste.
«Avvenire» del 18 settembre 2013

Aldilà, il caso dell’«anima» fra immortalità e/o risurrezione

Idee
di Gianfranco Ravasi
«Tra voi e il cielo non vedete altro che la pala del becchino». Così polemizzava il filosofo russo Piotr J. Caadaev (1794-1856) nei confronti del materialismo ottocentesco. Il guardare oltre la tomba è, invece, insito nel messaggio pasquale cristiano fin da quella significativa interpellanza rivolta dal messaggero divino alle donne nell’alba di Pasqua: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Luca 24,5). Da secoli la teologia cristiana cerca di andare oltre quella pala che seppellisce un cadavere e ha adottato sia la categoria biblica della «risurrezione» sia quella apparentemente alternativa della «immortalità» classica greca. Proprio per la sterminata complessità e articolazione di questa riflessione, ora ci accontentiamo solo di una sorta di nota interpretativa generale.
Infatti, affacciarsi sull’aldilà è possibile, in sede teologica cristiana, solo a patto di «un energico sforzo intellettuale per non mummificare il pensiero in sepolcri concettuali e per cogliere della verità non le morte spoglie, ma la scintilla perennemente vivente», come suggeriva in modo un po’ sontuoso ma efficace Andrea Vaccaro, uno studioso di filosofia e teologia nel suo bel volumetto Perché rinunziare all’anima? (Edb). Sicuramente è necessario e corretto operare una certa "deplatonizzazione" della visione cristiana tradizionale, operazione di pulizia condotta con vigore soprattutto da vari teologi protestanti tra i quali spiccano Karl Barth e Oscar Cullmann.
Di quest’ultimo è significativo il breve saggio, pubblicato nel 1956 e accolto con successo, Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti? (Paideia). Un interrogativo a dilemma, di cui è facile intuire la scelta compiuta dal teologo di Basilea. Tuttavia, non si può dimenticare neppure quello che osservava l’allora teologo Joseph Ratzinger nella sua Escatologia. Morte e vita eterna (Cittadella): «Il concetto di anima, quale è stato usato nella liturgia e nella teologia fino al Vaticano II, ha in comune con l’antichità altrettanto poco quanto il concetto di risurrezione.
Esso è un concetto specificamente cristiano» e, proprio per questo, non può facilmente essere abbandonato o espunto dalla riflessione teologica. Tirando, allora, le fila del lungo itinerario teologico sull’oltrevita cristiano, riconoscendo le difficoltà di una sintesi che riesca a far combaciare prospettive differenti, potremmo tentare un bilancio molto essenziale. L’anima, nella tradizione cristiana, è stata sempre concepita come una realtà personale distinta, ma intimamente vincolata alla corporeità con la quale dà origine alla creatura umana. Neanche nella morte si assiste a una totale cancellazione di questo rapporto con la materia corporale, ma a una sua trasformazione, di difficile determinazione e descrizione.
Il nesso è, infatti, trasferito su un nuovo piano ove cadono spazio e tempo e ci si inoltra nell’oltrevita, nell’eternità e nell’infinito, ove non c’è più né "prima" né "poi". Certo, noi che siamo ancora nell’aldiquà misuriamo tutto secondo queste scansioni successive. Abbiamo, perciò, bisogno di parlare di un giudizio particolare personale e individuale – ove si vagliano le scelte di ogni persona, dotata da Dio della qualità della libertà e, quindi, della responsabilità – al quale segue in molti casi un "tempo" di purificazione ed espiazione (purgatorio) per "poi" accedere al giudizio finale quando tutta l’umanità entrerà nel nuovo ordine delle cose.
In realtà, questa trama successiva è frutto del nostro computo temporale, ed è per questo che il Catechismo della Chiesa Cattolica preferisce parlare di "stati" più che di luoghi o tempi, quando affronta l’escatologia. Oltre la vita terrena, infatti, c’è l’istante eterno e infinito in cui tutta la creazione è accolta e trasfigurata, giudicata e salvata, purificata e liberata. È ciò che con linguaggio poetico e simbolico descrive l’Apocalisse nella sua struttura generale o la Seconda Lettera di Pietro in questo paragrafo di taglio apocalittico: «Attendiamo e affrettiamo la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno.
Poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pietro 3, 12-13). Come si diceva, questo grembo che è l’eternità pervade e supera il tempo e il spazio, in attesa che la storia sviluppi il suo corso temporale e lo porti a compimento. L’anima si apre già all’eternità, il corpo ha già in sé il seme dell’eternità; entrambi, quindi, in forma diversa partecipano di quell’orizzonte luminoso, di quell’istante perfetto, di quel centro che tutto in sé assume e trasfigura. In questa luce potremmo dire che immortalità e risurrezione si compongono e non si contraddicono, corpo e anima si placano secondo il loro ordine e i loro gradi nell’armonia trascendente della nuova creazione, libera dal limite del tempo e dello spazio e, quindi, anche dalla morte. In quell’armonia, l’immersione nella storia e l’appartenenza alla materia, da un lato, e la vicinanza e la partecipazione a Dio e all’eterno, dall’altro, non si oppongono né si respingono, ma si coordinano e si placano.
Ciò che è fondamentale nella visione cristiana è, dunque, la trascendenza a cui è destinata la persona, anima e corpo. Una trascendenza che è un eterno presente in cui noi, legati al tempo, abbiamo l’impressione di entrare quasi per gradi e stadi successivi. Andare oltre nella precisazione di questa realtà è rischioso ed è necessario conservare la cautela e l’umiltà della mente. Come scriveva il famoso teologo Karl Rahner nel suo saggio Sulla teologia della morte (Morcelliana): «Espressioni come "l’anima continua a vivere dopo la morte", "dopo la sua separazione dal corpo" e quelle che parlano della "risurrezione del corpo" non indicano necessariamente realtà diverse, ma sono soltanto modelli di rappresentazione diversi per indicare la medesima cosa, e cioè la definitività della storia dell’uomo portata a termine».
A questa concordanza ci conduce non solo la visione del rapporto tra tempo ed eternità che abbiamo prima abbozzato, ma lo stesso linguaggio biblico, fondamentale per la fede cristiana. Anche se esso può essere illuminato e interpretato attraverso il contributo della cultura greca, la sua realtà rimane autonoma e specifica, come ad esempio ha sottolineato un importante esegeta dell’École Biblique di Gerusalemme, Marie-Émile Boismard nel suo studio La nostra vittoria sulla morte: «risurrezione»? (Cittadella): la vittoria sulla morte avviene in Cristo con un corpo di natura trasfigurata, come suggerisce san Paolo. Interessante a questo punto sarebbe proporre proprio la riflessione paolina la quale supera l’antitesi psyché-sarx, «anima-carne», variante di quella greca psyché e sôma, ossia tra anima e corpo, introducendo la categoria pneuma, «spirito», che è però da intendere in maniera nuova: si tratta, infatti, dello Spirito di Dio effuso nella creatura umana e, quindi, destinato a trasfigurare la realtà umana. Ma su questo tema è necessaria un’analisi specifica.
«Avvenire» del 23 settembre 2013

10 settembre 2013

«Dalla politica più attenzione alla scuola»

Ogni anno le scuole dell’infanzia paritarie consentono allo Stato di risparmiare oltre 4 miliardi di euro
di Luigi Morgano *
A livello nazionale accolgono 660mila alunni (il 45% del totale) attraverso migliaia di istituzioni scolastiche che sono presenti sul territorio. Ottomila circa aderiscono alla Federazione
Dall’approvazione, nel 2000, della legge sulla parità scolastica, si sono registrati rilevanti passi in avanti da parte della società, della politica, dell’opinione pubblica. La contrapposizione ideologica tra scuola a gestione statale e scuola a gestione non statale sembrava appartenere ormai al passato: la legge riconosce, infatti, che entrambe svolgono un’unica funzione pubblica.
Per questo motivo, molte amministrazioni locali e regionali si sono aggiunte a quelle che già avevano compiuto la scelta di riconoscere specifici provvedimenti amministrativo-economici alle scuole paritarie, in particolare quelle dell’infanzia Fism, che sono no profit, gestite da associazioni, da fondazioni, congregazioni religiose, parrocchie, cooperative di insegnanti e/o di genitori e da altri soggetti del terzo settore, come una irrinunciabile risorsa culturale, sociale e formativa.
La presenza di queste scuole, oltre a consentire alle famiglie una libera scelta educativa, è indispensabile nel garantire la piena scolarizzazione dei bambini nella fascia di età 3-6 anni. A livello nazionale, non è superfluo ricordare, le scuole dell’infanzia paritarie accolgono, infatti, 660mila alunni – circa il 45% del totale – attraverso migliaia di istituzioni scolastiche presenti capillarmente sul territorio; circa 8mila aderiscono alla Fism.
Ciò premesso, il quesito oggetto del referendum di Bologna del 26 maggio scorso, in modo subdolo non nega la liceità che accanto alle scuole statali operino anche scuole fondate e gestite, come prevede la Costituzione, da «enti e privati», ma negare che questi ricevano contributi economici – peraltro legittimi sul piano costituzionale e normativo – perché verrebbero sottratti alle scuole statali.
Un ragionamento stantio e privo di fondamento che non vuol tener conto che la Costituzione, oltre a riconoscere il diritto di libera scelta educativa dei genitori, impegna la Repubblica (Stato, Regioni, Province, Comuni) a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini», impediscono il pieno godimento dei loro diritti, fra cui anche quello della scelta educativa.
Al di là della impossibilità di dividere i bambini tra privati e pubblici in base alla scuola dell’infanzia che frequentano, com’è possibile ignorare che l’inserimento delle scuole paritarie nel sistema nazionale di istruzione italiano, proprio in forza del servizio pubblico che svolgono, comporti equità nell’accesso al sistema per gli alunni, le famiglie, ma anche per il personale che vi opera (nelle scuole Fism sono oltre 45mila le persone impegnate).
Un profilo, questo secondo, troppo trascurato anche nei dibattiti. Inoltre, è verosimile che neanche 500 milioni di euro stanziato nel bilancio dello Stato per le scuole paritarie (non solo le materne) di cui attualmente sono disponibili poco più della metà, non incrementati da tredici anni, risolverebbero tutti i problemi della scuola statale italiana? O è vero che, ad esempio, ogni anno le scuole dell’infanzia paritarie – comunali comprese – come ripetutamente documentato, consentono allo Stato italiano risparmi che superano i 4 miliardi di euro solo considerando la spesa corrente, ricevendo, fino al 2012, circa 300 milioni di euro del finanziamento statale complessivo? Per di più ingenerando una infondata convinzione, in parte dell’opinione pubblica, di essere privilegiate.
Con la crisi economica che attraversa il Paese, si può caricare sulle famiglie, oltre alle difficoltà economiche che già devono affrontare, un ulteriore pesantissimo aggravio di retta, inevitabile in mancanza dei contributi statali, regionali, comunali? O addirittura eliminare il servizio per un pregiudizio ideologico? Tutto ciò mentre insegnanti, genitori, esponenti del mondo della cultura, della politica ai vari livelli ribadiscono che la frequenza alla scuola dell’infanzia è norma dell’itinerario educativo proprio di ogni bambino.
A questo si deve aggiungere, infine, che la presenza della scuola paritaria non solo non crea un aggravio alle finanze pubbliche, ma genera un oggettivo, documentato, rilevante risparmio.

* segretario nazionale Fism
«Avvenire» del maggio 2013

09 settembre 2013

Tutti gli Einstein dell'islam

di Alessandro Zaccuri
Un islam molto diverso da quello che crediamo di conoscere. Un mondo culturale vivacissimo e aperto alla ricerca scientifica, lungo una direttrice che parte dalla riscoperta del sapere greco, passa per la Baghdad degli Abbasidi e alimenta il nostro Rinascimento. A ripercorrere questa vicenda è il fisico Jim Al-Khalili, che i telespettatori britannici conoscono bene grazie ai documentari da lui curati per la Bbc. Nato a Baghdad nel 1962, da padre iracheno e madre inglese, oggi insegna all’Università del Surrey ed è quello che gli anglosassoni chiamano humanist. Un laico, diremmo noi, che però ha dialogato in tutta franchezza con l’arcivescovo emerito di Canterbury, il reverendo Rowan Williams, e che nel suo documentatissimo La casa della saggezza (Bollati Boringhieri) non si stanca di sottolineare il ruolo svolto dalla corrente del mutazilismo nella fioritura scientifica del IX secolo. «È una corrente islamica che offre un esempio di tolleranza per le altre fedi», spiega Al-Khalili alla vigilia del suo intervento al Festivaletteratura, in programma oggi alle 17.45 presso l’Aula magna dell’Università di Mantova. «Questo significa – aggiunge – che fisici cristiani, matematici ebrei e astronomi musulmani lavoravano fianco a fianco. Strano a dirsi, ma il mutazilismo era assai meno tollerante verso le altre sette islamiche di quanto lo fosse nei confronti di cristiani ed ebrei».

Quale fu, secondo lei, il maggior contributo della scienza araba in età medievale?
«L’aver posto le basi del metodo scientifico. Non sarebbe difficile elencare le singole scoperte: la fondazione dell’algebra da parte di Khwarizmi, le opere astronomiche di al-Battani, il grande Canone della medicina di Ibn Sina, il vostro Avicenna. Io però credo che la vera novità sia costituita dall’affermarsi di un modello di pensiero capace di mettere in connessione l’elemento teorico-matematico con quello sperimentale. Il modo in cui facciamo scienza oggi è del tutto analogo al procedimento adottato da Ibn al-Haytham e dagli altri».

Ibn al-Haytham?
«In Occidente lo conoscete come Alhazen: un grandissimo fisico, i cui studi sull’ottica non solo hanno influenzato Galileo e Newton a distanza di mezzo millennio, ma sono stati decisivi anche per la comprensione della prospettiva nell’arte italiana del Rinascimento. Spesso si parla di lui come del primo scienziato in senso moderno. Di sicuro è stato il primo a spiegare correttamente il funzionamento della vista in termini di ottica geometrica».

Al suo fianco chi metterebbe?
«Altri due grandi suoi contemporanei, e cioè Ibn Sina e al-Biruni. Il primo, Avicenna, fu una superstar del rango di Einstein: bambino prodigio, fisico eminente, era conteso dalle corti dell’epoca. Fu il maggior filosofo del mondo medievale e, forse, il pensatore più conosciuto di quell’età. Biruni, al confronto, fu una figura più modesta e quindi meno nota, ma non per questo meno geniale. Per la vastità delle sue conoscenze può essere considerato il Leonardo da Vinci islamico. Dalla storia alla matematica, dalla geologia alla metafisica, non c’è quasi argomento su cui non abbia esercitato la sua influenza».

Ma qual è oggi il rapporto fra l’islam e la scienza?
«Tendo a essere ottimista. Non sono un credente, ma da umanista guardo con fiducia al genere umano e alla sua capacità di arrivare a risolvere ogni problema. Certo, sono profondamente rattristato dalle atrocità e dai gesti d’odio che oggi vengono compiuti nel nome dell’islam. Allo stesso tempo, so che si potrebbe ritenere ingenuo il mio auspicio che la situazione possa migliorare. L’islam ha una lunga strada da percorrere per ritrovare lo splendore del passato, ma non vedo perché questo non debba accadere. La mia convinzione è che la libertà di pensiero e una visione illuminista finiranno per avere la meglio rispetto alla sfiducia nella scienza».

Pensa che un libro come il suo possa anche vincere i pregiudizi dell’Occidente?
«Mi pare che sia una vicenda importante da raccontare. La conoscenza scientifica non rispetta i confini geografici, culturali e linguistici: oggi quella che fu la scienza araba è anche la nostra scienza. Nel contempo, però, mi auguro che ci si convinca di come il mondo islamico non vada guardato con sospetto o disprezzo. Sul piano personale, poi, spero di essere considerato un commentatore abbastanza imparziale: scienziato, ateo, figlio di un musulmano e di una cristiana…».

Non si sente erede della tradizione scientifica araba?
«Durante la mia infanzia in Iraq ho sentito ripetere spesso i nomi di questi grandi scienziati del passato, ma non ero in grado di apprezzarne l’importanza. Attraverso questo libro ho cercato di indurre i giovani e le giovani del mondo arabo e islamico a guardare con orgoglio alla tradizione da cui provengono. Un simile consapevolezza non può che essere positiva per il futuro, ne sono persuaso».
«Avvenire» del 5 settembre 2013

Quelle leggi un po' arbitrarie degli sceriffi di Facebook

Oscurata una pagina di servizio, tollerati bulli e blasfemi
di Gigio Rancilio
Senza le regole non c’è comunità che possa resistere. Lo sappiamo dalla notte dei tempi. Quello che spesso scordiamo è che le regole, senza il buon senso di chi deve farle applicare, possono fare danni o diventare addirittura ridicole. Prendete Facebook, il social network più grande del mondo. Per accedervi bisogna sottoscrivere un regolamento lungo 1.353 righe, diviso in 398 paragrafi, sparsi su tre macro aree diverse, per un totale di 103.549 caratteri. Quasi 60 cartelle dattiloscritte, senza a capo. Se si potesse fare un test che rivelasse quanti tra il miliardo di utenti attivi (gli iscritti sono molti di più) l’hanno letto da cima a fondo, ci sarebbe di che saltare sulla sedia. Eppure, tutti hanno cliccato su «accetto». E quindi, le conoscano o meno, devono attenersi alle regole. La «legge», ci hanno insegnato, non ammette l’ignoranza.
Dovrebbe saperlo bene P.M., che di professione fa l’insegnante. Probabilmente precaria. Qualche giorno fa, ha scritto ai colleghi che frequentano la pagina dei supplenti precari di avere trovato ascolto e soluzione, al problema dei mancati fondi alla scuola dove lavora, presso un ufficio specifico del Ministero dell’istruzione. P.M. era rimasta così contenta dell’aiuto ricevuto che ha voluto condividere il recapito telefonico di quell’ufficio, «così dà consentire ai colleghi di usufruire della stessa disponibilità e gentilezza degli impiegati contattati». Un messaggio positivo e utile. Scritto, a differenza di altri presenti sulla stessa pagina dei precari, senza accenni polemici o toni accesi.
Eppure, per colpa di P.M., Facebook ha bloccato per 10 ore la pagina. Come quando, giocando a Monopoli, si finiva «in prigione», perdendo uno o più giri. A rendere «fuorilegge» il messaggio della precaria è stata la pubblicazione del numero telefonico di quell’ufficio del Ministero. Violazione della privacy, hanno tuonato i cyber sceriffi. Giusto, giustissimo. Nessuno può e deve pubblicare un numero privato su internet. Peccato – si sono difesi i gestori della pagina dei supplenti – «che quel numero sia già su internet, sul sito del Ministero».
Com’è possibile che Facebook punisca un’insegnante e lasci poi liberi migliaia di studenti che quotidianamente insultano i loro compagni (solo ieri, la studentessa di Saluzzo)? E ancora: perché certe pagine innocue vengono bloccate mentre altre blasfeme sono ancora aperte? A questo punto sorgono altre due domande. Chi sono gli «sceriffi» di Facebook? Chi decide chi e cosa deve essere punito? A leggere il regolamento si intuisce che una parte del lavoro è affidato agli utenti stessi, chiamati a segnalare gli abusi, compresi quelli degli stalker, gli atti di bullismo e le pagine che incitano alla violenza. Una parte della vigilanza avviene invece in automatico. Sarebbero quindi i computer a togliere immediatamente fotografie e frasi con termini inappropriati. A vigilare sul tutto, però, ci sarebbe un vero e proprio team di persone. I «garanti» della comunità virtuale. Gli sceriffi dell’ordine pubblico del social web chiamati a decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato; chi sono i buoni e chi sono i cattivi.
Per gli utenti, però, è impossibile capire se una pagina è stata bloccata dalle proteste degli iscritti, da un computer o da un «garante». Così, di fatto, non si può prendersela con nessuno. Ma di questo nel regolamento di Facebook non c’è traccia
«Avvenire» del 5 settembre 2013

04 settembre 2013

Chi ha ucciso il liceo classico?

di Roberto I. Zanini
Tutto è cominciato quando hanno ucciso il liceo classico; quando si è cominciato a pensare che il principale compito della scuola fosse di fornire uno sbocco lavorativo ai giovani e, di seguito, quando si è pensato che la scuola dovesse essere pensata in funzione delle esigenze dei giovani, dei loro gusti, delle loro aspettative. È l’immagine del fallimento del sistema scolastico italiano che emerge leggendo La scuola che vorrei (Bruno Mondadori, pp. 122, euro 15), l’ultimo libro di Adolfo Scotto di Luzio, docente di Storia della Pedagogia all’Università di Bergamo, nonché esperto dei problemi della scuola e dell’insegnamento. E non si tratta di un semplice grido d’allarme. È come se si dicesse che l’intero sistema culturale e formativo italiano è all’ultima spiaggia e se non si cambia registro c’è il più che probabile rischio del fallimento totale della nostra società civile.

Eppure sono decenni che si parla di riforma ...
«Ed è giunto il momento di sfatare questo mito così per come si è costituito. A partire dagli anni ’60 si è cominciata a diffondere l’idea che la scuola fosse in crisi. Un’idea di crisi permanente che è stato l’espediente per smantellare le buone basi sulle quali si era retta la scuola e che si erano andate formando fra l’unità d’Italia e la Riforma Gentile».

Smantellare?
«Sì. Un vero e proprio sovvertimento progressivo, tanto che la scuola oggi è caduta in una crisi di senso, che mette in gioco la sua essenziale funzione politica e civile».

Ma qual è il ruolo della scuola nella società?
«Ciò che conta non è il ruolo nella società, ma la sua funzione politica e civile. La scuola è chiamata ad assolvere un ruolo nel progetto di costruzione della comunità politica».

Può essere più esplicito?
«La scuola deve saper porre le basi della convivenza civile, del nostro essere comunità. Invece si pensa che la scuola serva ad assecondare gli interessi dei singoli, le loro ambizioni di carriera e di guadagno economico creando sbocchi di lavoro. Ma se non c’è la scuola non c’è la nazione e viceversa».

Vuol dire che se il suo obiettivo diventa creare sbocchi di lavoro la scuola fallisce?
«Bisogna distinguere due aspetti. Ogni singolo studente va a scuola perché persegue interessi personali. Ma la scuola non può essere pensata per quegli interessi perché altrimenti perde il suo ruolo di istituzione essenziale che ha a che fare con le ragioni della Polis. Compito della scuola è di educare la persona attraverso la cultura».

In una società come la nostra se ne è perso il significato: cosa significa educare?
«Significa formare la persona, nutrirne la personalità, dare la capacità al giovane di stare autonomamente nel mondo, educandolo al giudizio, cioè a quella capacità che ci permette di distinguere fra ciò che è bello e meritevole della nostra ammirazione e ciò che deve essere senz’altro rifiutato».

Il relativismo dominante impedisce un simile approccio.
«Se nessuno ha più il coraggio di dire quali sono i valori che contano tutto diventa relativo. Ma possiamo senz’altro affermare che la scuola italiana è stata capace di assolvere alla sua funzione fino a quando si è fondata sulla cultura umanistica».

Perso quel punto di riferimento si è persa anche la scuola?
«Una crisi che è cominciata negli anni ’60 e si è acuita con la crisi della Repubblica degli anni ’90, quando sono state messe in discussione le basi culturali della Repubblica tirandosi dietro le eredità che ci venivano dal passato».

Lei scrive che bisogna liberare la scuola dalla tirannia dei giovani.
«In questo Paese i giovani sono diventati un pretesto, un artificio retorico. Ma l’idea che la scuola si debba costruire sulle preferenze dei giovani, su ciò che piace a loro è un vero assurdo che si è trasformato nel pregiudizio ideologico della scuola aperta al nuovo, alla tecnologia. Ma in questo modo non fa che aggravare la sua crisi, perché abdica dalla sua funzione educativa. I giovani vanno educati e sono gli adulti gli unici abilitati a educare».

Ma la crisi educativa parte proprio dall’incapacità di almeno un paio di generazioni di adulti di assolvere a questo ruolo.
«Ed è giunto il momento che gli adulti si assumano la responsabilità della loro crisi culturale, che è spaventosa. Quando si parla di scuola non è in gioco un ingranaggio burocratico, una tecnica pedagogica da mettere a punto, ma occorre partire da una seria riflessione su cosa significhi essere italiani e su cosa significhi educare giovani italiani».

Insomma, manca un progetto culturale.
«Abbiamo mortificato il liceo classico che era il fiore all’occhiello del nostro sistema scolastico e sono nati tanti licei con percorsi di studio sempre più generici. Abbiamo abolito la scuola di eccellenza sostituendola con un’idea vaga e patetica di licealità. Il liceo classico era il frutto di un’idea di scuola alla quale avevano contribuito sia l’identità laica e liberale che l’identità cattolica; un’idea di scuola che garantiva che le élite del Paese si potessero formare sul piano della scuola pubblica e allo stesso tempo consentiva a chiunque non avesse altra ricchezza che il proprio talento di frequentare una scuola di qualità. La falsa ideologia democratica che ha guidato le riforme degli ultimi trent’anni ha tolto ai poveri una scuola di grande valore autorizzando i ricchi a comprarsi la scuola migliore. E il discorso sulla meritocrazia non ha alcun senso perché non ci sono i luoghi dove applicarla, non ci sono i contenuti. Gli stessi docenti venendo da un simile percorso depotenziato finiscono per aggravare la situazione. È il risultato paradossale di un Paese che ha demolito il proprio sistema di istruzione. La riprova sono i flussi scolastici con sempre più giovani del Sud che vanno a scuola e all’università al Nord e i giovani del Nord che se possono vanno all’estero».
«Avvenire» del 3 settembre 2013

02 settembre 2013

La lingua batte dove la politica vuole

In Italia si discute una legge contro l’omofobia, la Russia punisce la «propaganda gay». Ma non è facile guidare dall’alto l’enorme capacità di mediazione culturale delle parole
di Carlo Bordoni
La saggezza popolare ci aveva messi in guardia: quanti proverbi — da «Le parole sono pietre» a «Ne uccide più la penna che la spada» — raccomandavano un uso attento del linguaggio per non offendere la sensibilità altrui? Le parole possono ferire, istigare alla violenza, spingere al suicidio, perché ognuna di esse può nascondere il giudizio sociale, la disapprovazione, il senso di colpa. Mentre il Parlamento italiano avvia la discussione della legge contro l’omofobia, rinviata in calendario dopo la pausa estiva, anche altrove si assiste a una curiosa concentrazione del dibattito sull’uso e l’abuso di termini tendenziosi, scorretti o ingiuriosi e al conseguente tentativo di regolamentarli o contenerli per legge.
La Russia di Putin, con un rigurgito moralista, ha introdotto la censura verso la «propaganda omosessuale» con la pretesa di tutelare i minori: un’omofobia di Stato che, com’era prevedibile, ha scatenato vivaci proteste in occasione dei Mondiali di atletica a Mosca. Per contro, l’Italia si appresta a condannare la propaganda omofoba e a punire con la reclusione fino a un anno e sei mesi chi «incita a commettere o commette atti di discriminazione motivati dall’identità sessuale della vittima e con una pena fino a quattro anni in caso di incitamento alla violenza o commissione di atti violenti». Il campo d’intervento, nei due casi opposti, attiene sempre al linguaggio.
Ma una legge può cambiare il modo di pensare e, di conseguenza, il comportamento sociale? È sufficiente togliere la parola «razza» dalla Costituzione francese, come propone il presidente Hollande, per cancellare il razzismo? Quella che Sarkozy ha definito la «guerra al dizionario» non è solo frutto di un tentativo subdolo di rimuovere freudianamente il problema e nasconderlo alla coscienza: è un atto sociale. Perché, come asseriva il fondatore della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure, «il linguaggio è un sistema di differenze in cui il significato risiede non nei termini stessi, ma nelle relazioni differenziali tra loro».
Con l’evolversi della società le parole si evolvono anch’esse; cambiano senso, si adeguano. Certe perdono l’innocenza e si caricano di un significato odioso. È il caso di «negro», che richiama alla memoria la pratica della schiavitù, sostituito da «coloured», «nero» o «afroamericano» a partire dalla fine degli anni Ottanta in America e poi in tutto l’Occidente. Eppure usato senza sospetto da Martin Luther King nel suo discorso «I Have a Dream» del 28 agosto 1963 (riprodotto sulla «Lettura» #91 del 18 agosto). O come lo spregiativo «nigger», ancor più offensivo di «negro», che Joseph Conrad aveva utilizzato per il romanzo Il negro del Narciso (1897). Proprio «nigger» è stato sostituito da «schiavo» in una versione «purgata» del capolavoro di Mark Twain Huckleberry Finn.
Può succedere che i diretti interessati e i gruppi sociali che si sentono emarginati rifiutino l’uso dei termini eufemistici, dietro i quali si maschera l’ipocrisia sociale, e preferiscano definirsi autonomamente, anche ricorrendo a termini più volgari, come «queer» (checca) piuttosto che gay, «nigga» invece di nero. In America e libertà Furio Colombo conferma che rivolgersi a un gruppo etnico o sociale con i termini che esso ha scelto è una dimostrazione di rispetto, che produce effetti positivi e apre al dialogo.
La sostituzione di un termine politically incorrect avviene per lo più naturalmente, a seguito della maturazione della sensibilità comune o dell’affermarsi di una corrente d’opinione per il riconoscimento dei diritti delle minoranze, come è avvenuto negli Stati Uniti. Ma certe volte è necessario ricorrere allo strumento legislativo per sensibilizzare la comunità e rendere esplicito un aspetto critico che non si limita alla parola, ma dove la parola si fa strumento di violenza. Basta guardare alla storia recente, o anche solo alla cronaca degli ultimi anni, per trovare casi in cui l’aggressività contro le minoranze è accompagnata da slogan, segni, simboli e parole usati allo scopo di giustificare culturalmente il gesto, gridati per eccitare gli animi. Eliminando la parola violenta si toglie violenza anche al comportamento umano.
Ogni censura linguistica rischia tuttavia di limitare la libertà di opinione: su questo registro si muove gran parte delle obiezioni di chi non è favorevole alla legge contro l’omofobia. «Famiglia Cristiana» e varie organizzazioni cattoliche (tra cui i Giuristi per la Vita, autori di un appello ai parlamentari) temono di incorrere nel reato d’opinione esprimendosi contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso e le adozioni gay, ma anche di non poter più sostenere pubblicamente affermazioni del tipo «gli atti omosessuali sono contrari alla legge di natura».
D’altra parte l’obbligo per legge di usare o meno un determinato linguaggio ha sempre il carattere di una censura preventiva. Ricorda da vicino le disposizioni fasciste contro i termini stranieri, un’italianizzazione con risultati esilaranti («calciobalilla», fiumi di «sciampagna», ricchi premi e «cotiglioni»). Ma qui non si tratta di formalismi o di eccessi del politically correct per sostituire termini in disuso — povero con «non abbiente», bidello con «non docente» — che in genere rispondono a una prassi eufemistica. E neppure di mascherare una realtà troppo cruda o scomoda: nessuno parla più di guerre, ma solo di «missioni di pace»; i morti e i feriti rientrano tra i «danni collaterali». Qui si tratta del diritto a non essere discriminati (o colpevolizzati, o emarginati) per l’orientamento sessuale, così come accade per la razza, la religione, il genere il credo politico.
Qui il linguaggio fa la differenza, dimostra una valenza di mediazione sociale. Ha il potere di scatenare odio, paura, aggressività. Il cervello associa le parole a sensazioni, angosce, emozioni e provoca reazioni: la relazione tra il pensiero e la mano — lo ha dimostrato Leroi-Gourhan in un testo fondamentale di etnologia, Il gesto e la parola (1964-65) — passa attraverso il linguaggio. Per questo, e non per ipocrisia, il National Cancer Institute americano ha proposto di sostituire la parola «cancro», che provoca terrore in chi riceve la diagnosi, con «neoplasia», termine meno minaccioso che non evoca subito la morte. Una sostituzione che Umberto Veronesi sostiene da tempo. Mentre nella bozza del nuovo codice deontologico i medici italiani sostituiscono «paziente» con «persona assistita».
Perché anche le parole possono curare (lo sappiamo dalla psicanalisi) e perdere la loro carica dolorosa, oppure offensiva o discriminante. Come è sparita dall’uso comune «matrigna», per definire la donna che prende il posto della figura materna; come sono scomparsi «nullafacente » per disoccupato, «vucumprà» per ambulante extracomunitario, «zitella» per la donna nubile, «mongoloide» o «storpio» per il diversamente abile, così possiamo liberarci di «invertito», «pervertito» o «frocio», senza preoccuparci troppo se, al riguardo, le Sacre Scritture parlano di «grave depravazione». Il mondo cambia di continuo e con esso le relazioni sociali. È la dimostrazione della vitalità dell’unica razza a cui apparteniamo (come diceva Einstein): quella umana.
«Corriere della sera» dell'agosto 2013