08 novembre 2013

Caro Dante, fatti capire

Dibattiti
di Edoardo Castagna
Dante, Petrarca e Boccaccio sono scritti in italiano? Interrogativo paradossale, ma che può nascondere un dettaglio capace di spiegare uno scoglio sul quale tanti studenti – e non solo loro – si arenano. Sono in italiano, ovviamente: ma in italiano antico, una categoria che solo recentemente inizia a farsi strada nella coscienza degli stessi studiosi, rimasti a lungo ancorati a un’idea della nostra lingua come eccezionalmente conservatrice rispetto, per esempio, ai più dinamici inglese o francese. Una delle conseguenze, come ha illustrato su queste pagine la scorsa settimana Maurizio Cucchi, è che, mentre in Francia o in Inghilterra è prassi fornire i classici della letteratura in edizione con traduzione in lingua moderna e testo a fronte, in Italia tale tendenza inizia appena ad affacciarsi. Tra molti dubbi e resistenze. «In effetti – spiega il linguista Luca Serianni – da un lato la distanza che c’è tra il francese moderno e il francese antico è più ampia, paragonabile più a quella che l’italiano ha con il latino che con la lingua di Dante. Dall’altro, va constatato che anche da noi c’è stata una trasformazione significativa, un dinamismo evolutivo, e avvertiamo l’italiano antico come distante da noi. Non sono tanto le singole parole a essere mutate, quando il loro significato». Ma da qui ad arrivare a tradurre i classici in lingua moderna ne corre, per Serianni: «Certo che sono difficili. Ma non tanto da impedire, se sorretti da un opportuno sistema di note e commento, la lettura diretta. Anche perché accanto al valore artistico hanno anche una funzione di riconoscimento identitario, che sarebbe sacrificato con una traduzione moderna. E poi non tutto può essere semplicemente tradotto: Dante o Boccaccio, per essere compresi, hanno comunque bisogno di un apparato di mediazione che aiuti il lettore, giovane o non giovane, a comprendere i riferimenti ai costumi medievali, o al quadro ideale di riferimento».
Ma resta il primo scoglio, quello lessicale. Soprattutto a scuola, come conferma l’insegnante e scrittrice Paola Mastrocola: «Il livello di comprensione letterale da parte degli studenti è bassissimo. E non solo per Dante, ma anche per Svevo o Pirandello. Solo tre, quattro studenti ogni cento riescono a comprendere un romanzo del Novecento. Innanzitutto si arenano sulla lingua, in un’enorme povertà lessicale e sintattica. Poi c’è anche il problema del testo in quanto tale: a loro è sconosciuto il senso stesso della letteratura, il fatto che un autore possa parlare di altri mondi. Con un po’ di fatica magari riescono a penetrare il significato letterale di un’opera di Pavese o di Buzzati, ma poi non comprendono che cosa effettivamente stiano raccontando. Capiscono solo la narrativa contemporanea d’intrattenimento, magari tradotta, come i fantasy. Però io di mestiere faccio l’insegnante di lettere, e il mio compito è trasmettere la tradizione, anche recente. So che molti miei colleghi rinunciano a farlo, e danno in lettura solo testi appena usciti. Ma non possiamo far fuori secoli di letteratura solo perché il livello degli studenti si è abbassato». Tuttavia gli strumenti per tornare ad alzarlo, questo livello, sembrano remoti: «Bisognerebbe partire dalla prima elementare. Sono contraria anche al ripiego sulle traduzioni in italiano contemporaneo dei classici, perché ritengo che le difficoltà debbano essere superate tornando a fare lezione, a spiegare. Ma i programmi ormai non esistono più, capita che dalle elementari fino al biennio del liceo uno studente non abbia mai analizzato un testo letterario. Invece va fatto, va spiegato capillarmente, riga per riga, trasmettendo un metodo che poi potrà essere applicato a qualsiasi altro testo. Tutto è lasciato alla responsabilità individuale dell’insegnante: è triste, ma sta a noi evitare di privare i ragazzi di una grandezza dello spirito».
Anche Serianni è contrario all’ipotesi di tradurre i classici, perché «sarebbe come pretendere di imparare uno sport senza fare fatica. Certo, si può decidere di non svolgere nessuna attività sportiva, così come si può decidere di non leggere mai un classico. Ma se lo si fa un po’ fatica è addirittura opportuna. Poi, con alcune singole iniziative si può anche concordare: per esempio Il principe di Machiavelli è un testo che si rivolge a un pubblico largo e indifferenziato, e tradurlo può essere utile per raggiungerlo meglio. Ma Dante, no: si può decidere di non leggerlo, naturalmente, ma se lo si fa, lo si deve fare in originale. D’altra parte, pensiamo al successo che hanno riscosso le letture non solo di Roberto Benigni, ma anche quelle più tradizionali di Vittorio Sermonti».
Per le traduzioni si apre così uno spiraglio, se riferite a un ben preciso destinatario. Che può anche essere scolastico: «Perché bisogna capire di quale scuola parliamo – osserva Eraldo Affinati, scrittore e insegnante –. Nei licei magari si può anche affrontare direttamente il testo, ma io insegno a ragazzi difficili, a forte rischio di abbandono scolastico. Per loro quella di Dante e Petrarca è quasi una lingua straniera, da conquistare; nel loro caso portare il testo antico in un linguaggio moderno può essere il grimaldello per arrivare poi, in un secondo momento, all’italiano antico. Ma prima ancora di quello linguistico, c’è il problema della concentrazione: riuscire a stare fermi, seduti sui banchi per una mezz’ora, è già una conquista. E anche la lettura lo è. Come ho raccontato nel mio Elogio del ripetente, fino a dieci-quindici anni fa potevo leggere I Malavoglia o I promessi sposi anche in un istituto professionale senza soverchie difficoltà. Oggi non più: questi ragazzi hanno una formazione anche logica differente rispetto alle generazioni precedenti, ragionano in modo più associativo che deduttivo. Abituati dal computer a leggere per frammenti, sono capaci piuttosto di intuizioni – magari folgoranti». Computer che nelle scuole italiane sono ancora merce rara... «Ci stiamo adeguando, ma è chiaro che se potessi avere in una classe un tablet per ogni studente, allora sarebbe molto più facile dialogare con loro. Comunque si possono trovare anche altri strumenti: per esempio, proprio in questo momento sto usando per leggere la Divina Commedia la Guida all’Inferno del dantista e petrarchista Marco Santagata: in pratica un riassunto in prosa che evidenzia per ogni canto temi, personaggi, luoghi, ambienti, motivi. È il primo passo, utile per avvicinarsi al testo vero e proprio. Che è il punto d’arrivo, non di partenza».
«Avvenire» del 31 ottobre 2013

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