17 novembre 2013

Laogai, i «laboratori» della rieducazione

La svolta a Pechino
di Stefano Vecchia
Tra i primi a provarne la realtà terribile fu l’ultimo imperatore della dinastia mancese, Pu Yi, richiuso dal 1950 al 1959 nel centro per criminali di guerra di Fushun. Dai campi di rieducazione attraverso il lavoro si calcola siano passati 50 milioni di cittadini della Repubblica popolare cinese. Un intero popolo in parte dissidente verso il potere comunista, in parte alla ricerca di uno stile di vita o di valori difformi da quelli imposti dalla propaganda del regime. E in parte finiti all’inferno senza alcuna colpa o ragione. Una infinità uomini e donne che i Laogai hanno trasformato e, in molti casi, ucciso.
Wang Ruowang, saggista e irriducibile guastafeste del partito, espatriato negli Usa negli ultimi anni prima della morte nel 2001, ha testimoniato l’acquiescenza che colpiva la maggior parte degli “ospiti” nei campi, che li induceva alla collaborazione, alle delazione anche verso colleghi, amici, familiari, addirittura all’autolesionismo se non si consideravano all’altezza degli aguzzini.
Harry Wu, tra i più conosciuti dissidenti, ha passato 19 anni in un campo di lavoro perché si era espresso contro l’appoggio cinese all’invasione sovietica dell’Ungheria. Oggi a capo della Laogai Foundation, che da cinque anni ha aperto a Washington un museo per documentare gli orrori di questa istituzione, Wu ha scoperchiato vent’anni fa per il mondo questo inferno cinese, ma ha potuto farlo solo dopo un lungo tempo di rielaborazione, fino a ritrovarsi lui stesso incredulo di quella esperienza.
Alla fine la funzione dei Laogai non è stata di punizione ma di dissuasione. Riempiti per rieducare generazioni di cinesi che dovevano convincersi che i mandarini con libretto rosso e giacca senza collo fossero diversi e migliori da quelli con le insegne e i ranghi imperiali.
In un certo senso, anche durante le sbandierate riforme di Deng Xiao Ping e fino a oggi i Laogai sono rimasti affollati, pronti a ricordare che le libertà – se tali – erano solo concesse. Insomma, per contrasto rendevano più grandi le riforme, più nobili gli ideali di apertura e, in qualche modo, più sopportabile la vita nelle manifatture congestionate della Cina del miracolo economico.
Ancora prima delle stupefacenti Olimpiadi di Pechino del 2008, si stimavano a milioni gli ospiti involontari di centinaia di campi. Oggi la Cina non ha più bisogno di Laogai, non servono più perché non possono più essere segreti o ignorati. Ha altri strumenti di controllo e di manipolazione, anche di repressione, senza che il mondo accusi o sanzioni.
«Avvenire» del 16 novembre 2013

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