30 luglio 2014

Diclorodietilsolfuro (iprite). Il gas letale soffosca le trincee

La storia della conquista del Belgio (come la Polonia del 1939) e della sua resistenza
di Luigi Offeddu
Uno chiffon de papier, un brandello di carta. Alla sera del 4 agosto 1914, andava considerata così la promessa di neutralità garantita al Belgio dalle cinque potenze europee, fra cui la Germania. Lo disse chiaro e tondo il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg, nella lingua dei diplomatici, all’ambasciatore britannico a Berlino, sconvolto da quelle parole. Perché la promessa fatta a Bruxelles era un patto solenne che risaliva al 1830, anno di nascita del Belgio indipendente. Era la parola d’onore di un continente intero. Ma fu stracciata lo stesso. Una manciata di ore dopo, il piccolo Belgio fu invaso dalla grande Germania, che da anni con il suo «piano Schlieffen» puntava alle Fiandre e al mare per poi accerchiare la Francia e subito dopo affrontare la Russia zarista. Poi si mossero gli eserciti degli altri giganti, da Parigi a San Pietroburgo e a Londra.
Era l’inizio della Grande guerra, un secolo fa, lo scontro atteso fra il mondo germanico, quello anglosassone, quello franco, quello slavo, quello italico-mediterraneo. E fra grandi strateghi, o eroi nascosti: come si vide quando, travolti dall’impeto degli invasori, i belgi risposero a colpi di alta marea, aprendo le chiuse di Nieuwpoort sulla costa e allagando le campagne dell’Yser, che per i tedeschi si trasformarono in paludi invalicabili: un episodio quasi sconosciuto, raccontato da Ian F.W. Beckett nel suo libro La prima guerra mondiale. Dodici punti di svolta (Einaudi). La Grande guerra fu anche uno scontro di dominatori idealisti, secondo (pochissimi) storici, o di colossi industriali in fase di sovrapproduzione, secondo altri. Ma lo chiffon de papier stracciato dalle mani del Belgio non sarebbe rimasto il solo, nella storia d’Europa.
Venticinque anni dopo, si rivelarono un «brandello di carta» anche le promesse fornite da un altro cancelliere tedesco, Adolf Hitler, a un altro Paese fragile, la Polonia. Il 1° settembre 1939, una sbarra di confine in un bosco fu sollevata da un manipolo di soldati tedeschi, che una foto catturò per sempre nel loro gesto: il sigillo della pace stuprata, dell’Europa dimentica di se stessa; e di qualcos’altro ancora, un Male mai prima concepito, la strage del popolo ebraico. La Polonia come il Belgio, micce di un incendio che divorò poi tutto: poche ore dopo il levarsi della sbarra, ricominciò l’Apocalisse. E in Belgio, come in Polonia, tutto questo non è mai stato dimenticato. La sensazione del colpo alle spalle non è mai sbiadita nella memoria nazionale, seppure divisa nelle due comunità di lingua e storia diversa, i fiamminghi e i valloni francofoni. Anzi, ha continuato ad acuire vecchie ferite: perché se per l’ultima guerra mondiale è storicamente accertata l’esistenza di un forte collaborazionismo vallone (Léon Degrelle) o fiammingo (Staf De Clercq) al fianco dei nazisti, anche sulle origini del primo conflitto sono sempre circolate voci su frange fiamminghe che avrebbero agevolato l’invasione tedesca, per la tradizionale avversione ai valloni francofoni e alla loro madre, la Francia.
Altre memorie sono sempre lì, da un secolo: il diclorodietilsolfuro, il gas usato per la prima volta — pare — dai tedeschi nel 1915 ha un nome ben più noto, iprite, poiché deriva dalla città belga di Ypres, le cui trincee furono trasformate in atroci luoghi di esperimenti chimici. All’inizio di tutto, fra Belgio e Germania, l’orgoglio del primo e la determinazione bellica della seconda formarono in 48 ore una miscela devastante. E basata, ancora una volta, su due chiffon de papier. Primo documento: «Ore 19 del 2 agosto 1914, Legazione imperiale tedesca a Bruxelles. Estremamente riservato… Le misure prese dai nemici della Germania (i francesi, ndr) l’obbligano a violare il territorio belga…». Poi: se il Belgio non sarà ostile, verrà indennizzato. Se no, sarà considerato un nemico di Berlino. C’era anche qualcosa di non detto: il piccolo Belgio aveva ricche colonie in Africa, come il forziere del Congo, e la Germania — «padrona» del Tanganika o della Namibia — ambiva a divenirne l’erede. L’ultimatum di Berlino celava pure questo, fra le righe. Ma i belgi non potevano accettare. E così, ecco la risposta del 3 agosto: «Se il Belgio accettasse, sacrificherebbe l’onore della nazione e nello stesso tempo tradirebbe i suoi doveri verso l’Europa…».
Bruxelles non poteva sostenere a lungo l’assalto di un esercito così potente. In poche settimane, i tedeschi piallarono villaggi e battaglioni nella loro corsa verso nord. Poi però ci fu la parentesi eroico-geniale di Nieuwpoort, sul Mare del Nord. Come raccontato nel libro di Beckett, un ingegnere e un vecchio battelliere, cui sono dedicati due monumenti sul posto, furono i probabili ideatori dell’operazione. Il generale francese Ferdinand Foch e i capi dell’esercito belga si contesero poi il merito di aver autorizzato l’inondazione. E Gerald Dingens, il guardiano della chiusa di Nieuwpoort, coordinò tutto. Raccontarono più tardi i diari di guerra tedeschi: «La mattina del 30 (ottobre 1914, ndr) le truppe in avanzata si trovarono immerse nell’acqua fino alle caviglie, poi il livello era salito gradualmente e ora si trovava all’altezza delle ginocchia, e a malapena riuscivamo a trascinare i piedi fuori dal terreno argilloso…». L’«auto-inondazione» fermò, almeno in quella zona, le truppe del Reich. Il Davide belga aveva trasformato in un bagno di fango la marcia trionfale del Golia Kaiser.
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

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