30 luglio 2014

Distanze grandi, disciplina feroce. Leoni in battaglia agli ordini di asini

Milioni di caduti e generali spesso crudeli, incapaci e ignari della modernità
di Paolo Rastelli
L’esercito britannico nella Prima guerra mondiale? «Leoni guidati da asini», secondo lo storico Alan Kenneth Clark. E Lloyd George, primo ministro di Sua maestà nella seconda parte del conflitto e fino alla vittoria finale, disprezzava i generali e i loro «cervelli pieni di inutili cianfrusaglie». Più o meno le stesse cose sono state scritte anche in Francia e in Germania. Per non parlare dell’Italia, che, anche per reazione alla santificazione delle trincee operata in epoca fascista, in un secondo tempo ha potuto aggiungere senza sforzo alle critiche e alla sfiducia nei confronti dei comandanti della Grande guerra i disastri avvenuti nel Secondo conflitto mondiale coinvolgendo nel disprezzo tutte le gerarchie militari.
A favore di questo modo di pensare milita prima di tutto la lugubre contabilità dei caduti: le cifre più accreditate danno 5,14 milioni di morti per le potenze dell’Intesa (su un totale di 22,2 milioni di perdite conteggiando anche feriti, prigionieri e dispersi), 3,38 milioni per gli Imperi centrali (su 15,4 milioni). In Italia il dato più certo è quello dell’Albo d’oro dei caduti realizzato negli anni Venti, ora digitalizzato e riorganizzato nell’ambito dei grandi progetti di recupero della memoria storica del conflitto ad opera del Centro studi storico militari sulla Grande guerra «Piero Pieri» (presieduto dal colonnello Lorenzo Cadeddu) e dell’Associazione WW1 – Dentro la Grande guerra. Furono 529.025 i soldati, marinai e aviatori caduti su un totale di 4.872.213 combattenti che presero parte al conflitto. Ma lo stesso Centro studi «Piero Pieri» stima che un 15-20% di caduti non sia stato riportato nell’Albo d’oro. Una carneficina che impoverì a tal punto le Forze armate da costringere al richiamo di quasi un milione di riformati.
La cattiva fama dei capi militari nacque anche dalla pubblicistica pacifista negli anni tra le due guerre, dai poeti della «generazione perduta» come Siegfried Sassoon ai romanzieri come Erich Maria Remarque, che raccontano di comandanti ciechi a ogni pietà e di soldati spinti come pecore al macello e sottoposti a una disciplina inumana. Infine c’è stata un’intera generazione di storici, militari e non (il caposcuola fu Basil Liddell Hart), che ha descritto i generali come bruti selvaggi che con tenaglie sempre più grosse cercano di estrarre da una tavola di legno una vite, senza capire che basterebbe girarla. Negli ultimi anni, però, si assiste a un certo revisionismo, almeno in campo militare (di cui è un buon esempio il libro Mud, Blood and Poppycock, «Fango, sangue e scemenze», di Gordon Corrigan). È vero, tentare di sfondare le trincee tedesche e austriache scatenando loro addosso bombardamenti sempre più pesanti e soldati sempre più numerosi (le famose tenaglie) sembra tuttora un esercizio futile e sanguinoso.
Ma che alternative avevano i comandanti dell’epoca? La possibilità di superare i difensori senza perdere slancio e quindi ottenere uno sfondamento definitivo che rimettesse in movimento i fronti congelati alla fine del 1914 era al di là delle capacità dell’epoca: niente carri armati (i primi, rudimentali, apparvero nel 1916) per sfondare, niente paracadutisti ed elicotteri per un aggiramento verticale. E soprattutto nessuna capacità di controllo del campo di battaglia. Banalmente i progressi della tecnologia militare, la capacità di uccidere delle armi, la quantità di uomini che si potevano trasportare, nutrire e rifornire sul campo di battaglia avevano di gran lunga superato la capacità dei comandanti di incanalare e guidare le forze che avevano a disposizione.
Nel 1815 a Waterloo il duca di Wellington aveva mantenuto una salda presa sulla battaglia cavalcando lungo i 4-5 chilometri dello schieramento alleato e mandando i suoi ordini con gli aiutanti di campo che in pochi minuti raggiungevano ogni punto dello scontro. Il 1° luglio 1916, sulla Somme, gli anglo-francesi attaccarono su un fronte di 40 chilometri, ma le loro possibilità di comunicare, una volta cominciata l’avanzata, con i cavi telefonici spezzati dall’artiglieria e in assenza di radio portatili o almeno montate sugli aerei, in mezzo al fumo e alle esplosioni, erano più o meno quelle di Wellington, staffette e piccioni viaggiatori, ma in un ambiente infinitamente più ostile e mortale. Così qualunque successo non poteva essere sfruttato e qualunque ostacolo non poteva essere superato dall’azione di comando.
Sempre sulla Somme, racconta lo storico inglese John Keegan, si calcolò che ci volevano in media otto ore perché un messaggio raggiungesse il fronte dal quartier generale di divisione e lo stesso tempo era necessario per il percorso inverso. Il che voleva dire 16 ore tra la segnalazione di una forte resistenza sul fronte e le disposizioni di un comandante per superarla. E in 16 ore i difensori avevano il tempo di rinsaldare le linee. Così i generali non potevano fare altro che lanciare offensive su offensive, cercando di logorare le forze del nemico più di quanto logorassero le proprie. Un onere che ricadeva sugli alleati, visto che i tedeschi a ovest combattevano in suolo francese e non avevano nessun interesse ad attaccare finché non avessero regolato i conti con i russi.
Ma, si dirà, e gli austro-tedeschi contro gli italiani nel 1917, a Caporetto? Sfondarono e quasi sconfissero l’esercito italiano. Per loro queste limitazioni non valevano? Il problema fu prima di tutto che le truppe italiane erano schierate male e non per la difesa: il generalissimo Luigi Cadorna voleva al più presto riprendere gli attacchi e non ritenne di dover rettificare lo schieramento. Poi i tedeschi, rinforzati dopo la rivoluzione russa, utilizzarono per la prima volta una tecnica di infiltrazione lungo le valli che sconcertò i comandi e prese sul rovescio il fronte italiano. E soprattutto il nostro esercito, dopo 11 battaglie offensive sull’Isonzo, era tremendamente logorato, con centinaia di migliaia di vite consumate nelle offensive del 1915-17 su un terreno che era il più difficile tra tutti i fronti di combattimento e in un regime di disciplina che era in assoluto il più duro tra le forze belligeranti. Ogni esercito ha il suo punto di rottura, come scoprirono anche i francesi, con gli ammutinamenti del 1917. Noi l’avevamo raggiunto.
Comunque alla fine gli austro-tedeschi, anche in Italia, non vinsero. E anche l’Italia partecipò così a quel ridisegno dell’Europa per il quale aveva scelto di combattere, portando a casa Trento, Trieste e Istria. Un’Europa dalla quale erano spariti i grandi imperi, il tedesco, l’austro-ungarico, il russo, l’ottomano. Dove erano sorti nuovi stati fondati sul principio di nazionalità (Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Austria, Ungheria, Finlandia, Repubbliche baltiche), all’interno dei quali però erano ospitate minoranze oppresse e riottose. Fonte di altre guerre, come si sarebbe visto nel 1939. Tanto che anche la nuova Europa, come il poeta che ricordava gli anni prebellici, nel 1919 avrebbe potuto ripensare «con affetto a ciò che ero».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

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