23 luglio 2014

I figli dei divorziati divorziano di più?

I quarantenni d’oggi, i primi cresciuti dopo la fine del matrimonio indissolubile, lo dimostrano: separarsi può essere necessario, ma i bambini non dimenticano
di Roselina Salemi
Lo ricordo come fosse ieri. Erano seduti sul divano, vicini, ma con qualcosa di distante, io ero sulla poltrona. Quelle parole. Lia, ti dobbiamo dire una cosa. Io e il papà non siamo più felici assieme. Abbiamo deciso di separarci. Io ho cominciato a gridare. Avevo otto anni, adesso ne ho quarantanove e faccio fatica a parlarne. Il matrimonio dei miei è fallito, e poi è fallito anche il mio».
I figli del divorzio, come Lia, hanno avuto il tempo di divorziare. A quarant’anni dall’approvazione della legge (maggio 1974) sono di sicuro un campione da studiare. Sono i primi ad aver sperimentato la fine della coppia indissolubile, destinata (o costretta) ad amarsi per la vita. Nessuno li ha contati e ogni storia è un caso a sé. Ma il divorzio ha cambiato definitivamente il modo di essere figli, padri e madri. Ha plasmato una generazione concreta e disillusa, meno disposta a credere nel miraggio dell’amore che dura. Una generazione che manifesta i suoi timori meditando a lungo sulla convivenza e sul matrimonio, mantenendo amici e abitudini da single anche in coppia, considerando i sentimenti “provvisori”. La psicologa e psicoterapeuta della coppia Francesca Santarelli la chiama «un’inconscia spending review sentimentale, un mettere le mani avanti: siamo vaccinati, non soffriremo. Alcuni vedono la separazione come un trauma da evitare ai propri figli e cercano di restare dentro un matrimonio in crisi pur di proteggerli, altri diventano ex mariti e mogli ansiosi e carichi di sensi di colpa. Infelici in ogni caso».

Elizabeth Marquard, sociologa che da bambina ha vissuto con dolore l’addio dei genitori, ci ha riflettuto parecchio. Il risultato è Between two worlds: the inner lives of children of divorce, (“Tra due mondi: la vita interiore dei figli del divorzio”, Crown Publishers), uno studio su 1.500 figli di coppie scoppiate. Conclusione: il divorzio può essere necessario, ma non è mai buono. L’unico studio europeo (finlandese, del National Public Health Institute), su 1471 studenti intervistati a 16 e poi a 32 anni, non è incoraggiante. I figli degli amori finiti hanno un tasso alto di separazione, divorzio e comportamenti a rischio rispetto a quelli delle coppie stabili (situazioni critiche nel 65% dei casi). Il prezzo maggiore lo pagano le donne: più sintomi psicosomatici e depressione. Per la ricerca, il divorzio dei genitori costituisce una «base di vulnerabilità». I figli di chi si è lasciato si lasciano con impressionante frequenza.

Gian Ettore Gassani, presidente della Associazione Matrimonialisti Italiani, ha una lunga esperienza con le famiglie cresciute senza padri («Gli uomini se ne andavano, c’erano sanguinose battaglie legali e l’affido, di solito, andava alla madre») ed è convinto che i figli dei divorziati siano «in parte responsabili del calo dei matrimoni, che nel ’74 erano 430mila, e oggi sono 200mila. Le nozze si affrontano con più cautela: non si compra la casa, si opta per la separazione dei beni». Asia Argento, regista di Incompresa, film toccante e personale che parte da una tempestosa separazione (lei ha vissuto quella dei genitori, si è sposata e ha divorziato due volte) dice: «Non credo a chi sostiene di aver avuto un’infanzia perfetta. Nessuno l’ha avuta. Ricostruiamo i ricordi in modo da accettare la nostra vita, li adattiamo, come potremmo, sennò, vivere?». Non potremmo, e i figli delle coppie divorziate hanno faticato più degli altri. «Sono stati costretti a entrare prima nel mondo degli adulti», spiega la psicologa Ilaria Genovesi, «hanno sentito il dovere di proteggere la madre abbandonata o i fratelli piccoli, hanno imparato a maneggiare le parole, attenti a che cosa dire a un genitore o all’altro. Timori che lasciano il segno».

Anna, 35 anni, fa stampe per tessuti, è elegante, sicura di sé. Eppure non ha mai comunicato in modo profondo con gli uomini. In tutti vede il padre traditore, capace di rompere con la famiglia e litigare sui soldi. «Ricordo sempre il dolore di mia madre, quando ha scoperto che papà si era innamorato di una donna più giovane», racconta. «L’eredità che mi ha lasciato è la diffidenza. Il mio matrimonio è durato tre anni». Flavia e Alessio, architetti quarantenni, figli di divorziati, sono l’archetipo della coppia “liquida”: case separate, progetti a breve termine, più amicizia amorosa che passione. Dice lei: «Stiamo bene. Tra noi c’è stima, lealtà e l’accordo tacito che non avremo bambini». Dice lui: «Il divorzio dei miei si è trascinato per anni, mi ha avvelenato l’adolescenza. Ho avuto un lungo periodo di canne, sbronze, pessimi voti. Ho impiegato molto per lasciarmi alle spalle quella devastazione». Marco, 42 anni, due figli, sta divorziando da Elena. Pensava che il suo matrimonio fosse solido: «Invece è stato come rivivere la rottura dei miei: stesse recriminazioni, l’ossessivo ripetere “non siamo più d’accordo su niente”. E non capisco ancora come sia potuto succedere».
«Anche se è impossibile tracciare una statistica», dice Gassani, «un elemento che caratterizza i figli dei divorziati c’è. Quando si separano, gli uomini cercano di essere padri migliori di quelli che hanno avuto. Ne ho visti tanti combattere per strappare mezza giornata in più con i figli». E le donne? «Meno angosciate delle madri ed economicamente indipendenti», sostiene Francesca Santarelli, «sanno che possono affrontare il cambiamento». Solo da poco, però, cominciamo a capire le ricadute. «Anche nel più pacifico dei casi, la separazione dei genitori è considerata un abbandono. Ho in cura uomini e donne che portano i segni di ferite lontane nel tempo», ammette Ilaria Genovesi.
Ci saranno sempre più figli del divorzio (+ 75% in 10 anni, dati Istat) ma, conclude Santarelli, «il problema non è più la fine della coppia, è il modo di lasciarsi. Nonostante il pessimismo, riaffiora in chi deve decidere se accettare o no la sfida dell’amore, una voglia di provarci, di non farsi condizionare dalle colpe dei padri, dagli errori delle madri»


Niente alibi, il danno resta
di Umberto Galimberti
Quando due genitori si separano o divorziano pensano al loro rancore, al diritto di rifarsi una vita secondo lo schema che hanno in testa in ordine alla loro felicità, pensano ai soldi e alla divisione dei beni. E ai figli? Di solito ai figli non pensano, quando addirittura non li utilizzano come strumenti di ricatto.
Può essere che certe separazioni siano auspicabili rispetto all’inferno che si viene a creare in una famiglia dove l’odio ha preso il posto dell’amore, ma si abbia il pudore di non pensare che la scelta scivoli indifferente sulla testa e nel cuore dei loro figli senza conseguenze. La ragione è molto semplice: i bambini quando sono piccoli si relazionano ai genitori esclusivamente su base affettiva, e il venir meno di questa base destruttura in maniera radicale la loro identità, che avvertono misconosciuta o almeno messa in secondo piano rispetto a ciò che interessa ai loro genitori. E non avendo strumenti a disposizione per farsi sentire, subiscono il disinteresse genitoriale, iniziando ad assaporare fin da piccini la sofferenza della loro impotenza. Quando invece sono adolescenti, il danno non è minore, nell’età in cui, come vuole la natura, ci si stacca dei genitori ma col bisogno d’essere accompagnati nei primi passi di autonomia, i figli adolescenti si sentono abbandonati e subdolamente invitati a prender la parte del padre o della madre, quando ancora sono incerti circa la loro identità in continua trasformazione. Da piccoli, la separazione toglie loro la fiducia di base essenziale per la costruzione di un’identità sicura di sé. Da adolescenti, mentre devono abbandonare l’identità infantile per guadagnare quella adulta, viene loro meno il modello di riferimento rappresentato dai genitori che, fragorosamente o silenziosamente, fanno assaporare ai figli la sfiducia nell’amore, proprio nell’età in cui si affacciano alle prime esperienze amorose. Già si fa fatica a crescere, e costringerli a sobbarcarsi le scelte sbagliate dei propri genitori in una stagione della vita dove sia i piccoli sia gli adolescenti ancora non sanno chi sono e non hanno strumenti per capire perché vien loro meno la protezione di cui hanno assoluto bisogno, significa caricare di difficoltà la loro crescita.
Detto questo, non dico che non ci si debba separare o divorziare, rammento
solo a chi lo fa di non rimuovere il danno che i figli ineluttabilmente subiscono, anche se con le loro facce un po’ enigmatiche e molto sfiduciate non lo danno a vedere. E i loro genitori non vedono, accecati come sono dalla loro passione d’amore o di odio, di cui i figli non portano alcuna responsabilità.
«La Repubblica - Supplemento D» del 21 luglio 2014

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