02 luglio 2014

I padroni della memoria

La storia scritta (e riscritta) sempre a sinistra
di Ernesto Galli della Loggia
C'è davvero qualcosa di singolare nel modo in cui è venuta formandosi la memoria della Repubblica, nel modo in cui tale memoria è stata ed è elaborata dalla cultura ufficiale del Paese. Per molti decenni, ad esempio, a quanto accaduto dal 1943 al '45 fu vietato dare il nome che gli spettava, il nome cioè di guerra civile. Parlare di guerra civile era giudicato fattualmente falso, e ancor di più ideologicamente sospetto. Bisognava dire che quella che c'era stata era la resistenza, non la guerra civile; di guerra civile parlavano e scrivevano, allora, solo i reduci di Salò, i nostalgici del regime e qualche coraggioso giornalista o pubblicista di rango come Indro Montanelli, che mostravano così da che parte ancora stavano. Le cose andarono in questo modo a lungo. Finché, all'inizio degli anni Novanta, come si sa, uno storico di sinistra, Claudio Pavone, scrisse un libro sul periodo 1943-'45 che si intitolava precisamente Una guerra civile: solamente da allora tutti abbiamo potuto usare senza problemi questa espressione, ben inteso non cancellando certo la parola resistenza.
Altro esempio: il cosiddetto «triangolo della morte», ovvero le uccisioni indiscriminate di fascisti e non commesse dai partigiani dopo il 25 aprile. Anche qui è valsa fino ad oggi la regola che bisognava negare che quelle uccisioni fossero avvenute, per lo meno che fossero avvenute su larga scala e assai spesso con efferatezza e gratuità spaventevoli. Solo quelli di Salò e i neofascisti ne parlavano, naturalmente si può immaginare come. Il discorso storico ufficiale, invece, al massimo e solo dopo molte riluttanze arrivava alle mezze ammissioni: più in là c' era ancora una volta il divieto del politicamente e dello storiograficamente corretto; finché con il recente libro di un noto e bravo giornalista di sinistra, Giampaolo Pansa (Il sangue dei vinti), il divieto è stato tolto, sicché ora siamo tutti finalmente autorizzati a conoscere e a discutere liberamente gli avvenimenti di quei terribili giorni. Ma mi domando: non è singolare che su due aspetti così significativi della fondazione del nostro presente, la memoria ufficiale del Paese abbia per tanto tempo preferito guardare dall'altra parte? E non è ancor più singolare che a conti fatti su entrambi quei nodi di eventi la versione anche lessicalmente più vicina alla verità non fosse quella della democrazia repubblicana e della sua memoria bensì quella dei suoi nemici? Ma le singolarità non finiscono qui.
C'è anche il non trascurabile particolare che è solo nel momento in cui personalità culturali di sinistra decidono che è giunto il momento di cambiare la versione fin lì consacrata dei fatti, è solo allora che il Paese si sente autorizzato a prendere ufficialmente conoscenza di parti di verità che fino ad allora, viceversa, si riteneva ideologicamente più opportuno far finta di ignorare; è solo allora che giornali, televisioni, opinione pubblica, si sentono in grado di poter discutere liberamente. Non solo, ma, come ha ricordato Otello Montanari in una lunga lettera al Foglio, capita addirittura che proprio l'odierno denunciatore delle stragi del dopo 25 aprile, proprio lui solo una decina di anni fa giudicasse negativamente e con pesante sarcasmo il suddetto Montanari che, pur militando da sempre nel Pci, cercava già allora di sollevare il velo della verità su quelle indiscriminate uccisioni; che cercava cioè di fare in anticipo la medesima cosa che lui stesso fa oggi.
Siamo una democrazia, insomma, che per troppo tempo ha avuto un rapporto problematico con la verità delle sue origini. E che dunque ha avuto un rapporto egualmente problematico con l'anima profonda del Paese che invece quella verità sapeva, o spesso intuiva, ma non poteva né sapeva dire. Una democrazia troppo abituata a praticare innanzitutto sulle proprie stesse vicende il conformismo culturale, l'ossequio alle versioni di comodo, a incensare come maestri gli araldi del primo e i fabbricanti delle seconde. Siamo una democrazia nata con una difficoltà profonda a fare i conti con il passato e che, forse anche per questo, si è poi trovata costretta in sessant'anni ad assistere tanto spesso senza batter ciglio al repentino cambiamento di senso che ha colpito il passato di tante biografie politiche: ieri postlittorie o postmonarchiche, oggi postfasciste, postcomuniste, postcraxiane, domani chissà postberlusconiane o postleghiste. Siamo una democrazia in cui la chiave della memoria pubblica è ancora e sempre nelle mani di una parte sola, non da ultimo a causa dell'incapacità e dell'inconsistenza culturale dell'altra, la quale, trovandosi tagliata fuori dall'elaborazione attiva e riconosciuta del passato collettivo, è come se si trovasse essa stessa senza radici e sempre sul punto di essere espulsa da quel passato medesimo, di vedersi cacciata dalla koinè nazionale.
Fino a quando sarà così non lo sappiamo: sappiamo solo che finché la memoria degli italiani non diverrà finalmente la sua stessa memoria, la Repubblica sarà condannata ad accontentarsi di una memoria sempre parziale e omissiva, a sentire sempre incerto e provvisorio il suo presente proprio come sempre incerto e provvisorio è il suo passato.
«Corriere della Sera» del 1 novembre 2003

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