23 luglio 2014

Matrimonio, divorzio e decristianizzazione

L'orizzonte di uno scontro antropologico
di Gabriella Cotta
​Su questo giornale sono apparsi autorevoli commenti attorno alla questione del divorzio, a quarant’anni dalla vicenda referendaria che ne suggellò la definitiva introduzione in Italia nel 1974. In uno di questi Francesco D’Agostino sottolinea giustamente, con toni amari, la connessione della modifica dell’istituto matrimoniale con il processo di dematrimonializzazione e con la drammatica denatalizzazione che ne è il risultato. Senza entrare nel merito del pensiero degli antidivorzisti che quarant’anni fa ne orientò l’impegno, di cui ha dato conto in modo più ampio anche una precedente analisi di Giuseppe Dalla Torre, vorrei portare ancora qualche riflessione su questa complessa questione. L’introduzione del divorzio in Italia, infatti, ha avuto un significato del tutto particolare poiché ha rappresentato la caduta di un caposaldo della cultura cristiano-cattolica proprio nel suo luogo d’elezione, facilitando legislazioni simili in Spagna, Portogallo, Colombia, Irlanda, Argentina, Cile: in pratica quella parte del mondo cattolico che ancora non aveva l’istituto del divorzio.
Perché sottolineare questo aspetto della questione dopo aver detto in tutti i modi – e con ragione – che la battaglia referendaria fu condotta a suo tempo per motivi del tutto laici? La contraddizione sembra palese e sembra svelare finalmente, al di là di pudichi veli argomentativi, quale fosse la vera intenzione dei referendari: mantenere l’Italia nel suo brodo di cultura cattolico, sotto l’ombrello protettivo della Chiesa, rallentandone così il processo di modernizzazione e laicizzazione.
A questo fu, di fatto, ridotta – bon gré, mal gré – la sostanza ideologica dello scontro tra le due parti e non solo da parte laica, poiché senza dubbio anche da parte degli antidivorzisti – non tra i promotori, tuttavia – ci fu una componente clericale e tradizionalista la cui posizione non era lontana da quella su accennata. Il nodo che rimase oscurato allora dalla violenza dello scontro – e che rischia di rimanere anche oggi del tutto, e volontariamente, celato – è la vera portata di tale opposizione che, formalizzata in quella fase intorno alla difficile questione del matrimonio, continua puntualmente e nascostamente a riproporsi nei diversi progetti legislativi a sfondo bioetico e biopolitico.
Per sintetizzare il senso culturale dello scontro emerso con brusca rudezza all’epoca del referendum – ma in corso già da lungo tempo nel mondo occidentale – si deve dire che si trattò, e si tratta, del contrapporsi di due visioni opposte. La prima, nata e cresciuta in ambito protestante, ispirata alla volontà di una decristianizzazione completa dell’orizzonte sociale e civile – per coerenza precisamente con le premesse religiose del protestantesimo – al cui centro sta una visione antropologica ontologicamente individualistica. La seconda, quella cristiano-cattolica, convinta della bontà della proposta antropologica del cristianesimo, giudicata valida ed esportabile anche per chi credente non sia, dunque in assenza di una adesione di fede, e accettabile senza alcuna forma di sudditanza culturale. Ricordando quanto già sottolineato da D’Agostino, il fulcro della proposta antropologica cristiano-cattolica è riducibile a una visione dell’uomo come originariamente, ontologicamente, in relazione, nato cioè "in" e "da" una relazione e destinato a vivere in un "sistema di relazioni" essendo costituito da e per queste.
Le due prospettive appena richiamate non disegnano i profili, rispettivamente, di un uomo automaticamente malvagio, né di uno automaticamente buono, ma certamente aprono orizzonti culturali profondamente diversi. La prima, orientata dal principio individualistico, appare destinata a ordinarsi, coerentemente con i suoi presupposti, in prospettive – traducibili in legislazioni, prassi, comportamenti, orientamenti economici – ispirate all’esaltazione delle libertà del singolo e, in definitiva, al principio utilitaristico, più che al senso della responsabilità e della coesistenzialità.
La seconda inscritta in un orizzonte culturale che, qualora sia ispirato realmente a un’antropologia ontologicamente relazionale, dovrebbe dar luogo a legislazioni, prassi, comportamenti, indirizzi economici orientati dal principio della coesistenzialità. Fondata, questa, sulla convinzione inestirpabile dell’uguaglianza tra individui costitutivamente relazionati agli altri per realizzare pienamente se stessi. Che la posta in gioco – con implicazioni ben più vaste di quelle cui qui si può dar conto – sia quella, epocale, del decisivo orientamento della cultura occidentale intorno ai contenuti antropologici del cristianesimo, o della loro espunzione, lo aveva ben chiaro già Nietzsche, conscio dell’auspicabile - per lui - ma comunque tragico evento della "morte di Dio". Tra gli altri, lo ripetono oggi, in modo significativo da sponde opposte, due laici: Jean-Luc Nancy nel suo "La dischiusura. Decostruire il cristianesimo", e Alain Badiou nel suo bel libretto dedicato a San Paolo e alla fondazione dell’universalismo.
«Avvenire» del 18 luglio 2014

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