23 agosto 2014

I diritti umani sono figli del sacro, non dei Lumi

di Hans Joas
Uno dei dibattiti più frequenti, ma anche più sterili, verte sulla domanda se i diritti umani siano da ricondurre a origini religiose oppure umanistico-secolari. Un’opinione convenzionale, non tanto nella letteratura scientifica, quanto nel vasto pubblico sostiene che i diritti umani siano emersi dallo spirito della Rivoluzione francese, e che questa a sua volta sia l’espressione politica dell’Illuminismo francese, il quale era per lo meno anticlericale, se non apertamente anticristiano o nemico della religione. Secondo questo modo di vedere, i diritti umani evidentemente non sono il frutto di una qualche tradizione religiosa, ma assai più la manifestazione di un’opposizione contro l’alleanza di potere tra Stato e Chiesa (cattolica) o contro il cristianesimo nel suo complesso.
Tra questa visione convenzionale e un umanesimo secolare c’è una sorta di affinità elettiva, come tra le convinzioni dei pensatori cristiani, principalmente cattolici, del XX secolo e una grande narrazione alternativa. I sostenitori di questa visione si concentrano su tradizioni intellettuali e religiose che risalgono molto indietro nel tempo. Essi affermano che la strada per i diritti umani è stata aperta dall’idea della persona umana come ci viene presentata dai Vangeli, e dall’elaborazione filosofica di questa ispirazione religiosa in connessione con un concetto personalistico di Dio avvenuta fin dai tempi della filosofia medioevale [...].
Va da sé che le due rappresentazioni della storia ora menzionate non sono le uniche possibili, come anche non esistono soltanto l’umanesimo secolare e un’interpretazione auto-incensatoria e trionfalistica del cattolicesimo, l’uno di fronte all’altra. Esiste anche una sorta di posizione di compromesso, laddove si afferma che certamente nell’Illuminismo può avere prevalso un’auto-comprensione anticristiana, ma i suoi motivi più profondi non sono altro che una conseguenza dell’enfasi cristiana sull’individualità, la sincerità e l’amore del prossimo (o la compassione). Ma da questa prospettiva non si arriva a tenere conto delle ulteriori varianti che assumono maggiore rilevanza in certi ambiti nazionali o confessionali. È molto più fecondo aprire una nuova via, che si allontana da questa situazione del dibattito, da definirsi infruttuosa [...]. Tuttavia, benché distorca la realtà storica, soprattutto quella del XVIII secolo, essa ha almeno il vantaggio di voler spiegare un’innovazione culturale a partire dalle condizioni dello stesso periodo storico in cui tale innovazione ha concretamente avuto luogo. Al contrario, il resoconto alternativo non riesce a spiegare in modo convincente perché un determinato elemento della dottrina cristiana, che nel corso dei secoli si è accordato con i più diversi regimi politici – i quali non erano basati sull’idea dei diritti umani – improvvisamente avrebbe dovuto diventare la forza dinamica dell’istituzionalizzazione di tali diritti. La maturazione nel corso dei secoli non è una categoria sociologica. E anche se passiamo dalla considerazione dei precursori nell’ambito della storia dello spirito al piano delle tradizioni istituzionali – campo in cui la tesi suona piuttosto plausibile – non possiamo dimenticare che le tradizioni non si perpetuano da sole, bensì soltanto attraverso le azioni degli uomini.
Anche volendo ammettere, almeno retrospettivamente, che l’idea dei diritti umani può essere intesa in una certa misura come ri-articolazione moderna dell’ethos cristiano, dobbiamo essere in grado di rispondere a una domanda: perché ci sono voluti 1700 anni affinché il Vangelo, sotto questo aspetto, fosse tradotto in forma giuridicamente codificata? Inoltre, io sono molto diffidente nei confronti della suddetta posizione di compromesso. Appare un po’ come un gioco di prestigio il rivendicare una certa cosa come una conquista della propria tradizione, quando al momento del suo sorgere i rappresentanti della stessa tradizione l’avevano invece condannata.
siste un’alternativa a tutto questo confuso intreccio. Propongo d’interpretare la fede nei diritti umani e nell’universale dignità umana come il risultato di uno specifico processo di sacralizzazione. Si tratta di un processo in cui ogni singolo essere umano viene sempre più, e in modo sempre più fortemente motivante e sensibilizzante, considerato sacro. E questa comprensione viene istituzionalizzata nel diritto. Il termine “sacralizzazione” non può essere inteso come se avesse esclusivamente un significato religioso. Anche contenuti secolari possono assumere le qualità caratteristiche della sacralità: evidenza soggettiva e intensità affettiva. La sacralità può essere attribuita a contenuti nuovi; può migrare o essere trasferita, anzi l’intero sistema della sacralizzazione valido in una cultura può essere sovvertito. La tesi chiave è che la storia dei diritti umani sia appunto la storia di un processo di sacralizzazione, e precisamente una storia della sacralizzazione della persona [...].
Se i diritti umani si rifanno certo a tradizioni culturali come quella cristiana, ma pongono tali tradizioni entro un nuovo quadro di riferimento, allora valori come quello dell’universale dignità umana e diritti come i diritti umani non sono “rinchiusi” in una tradizione determinata. Sono accessibili anche a partire da altre tradizioni ed entro nuove condizioni, nella misura in cui a tali tradizioni riesca un’analoga reinterpretazione creativa di sé stesse, come indubbiamente è riuscita a quella cristiana. Perciò queste tradizioni religiose o culturali possono anche trovare nuovi elementi in comune tra loro, senza lacerarsi al loro interno.
«Avvenire» del 14 agosto 2014

22 agosto 2014

Scienza e teologia, punti fermi del dialogo

La discussione
di Andrea Galli
Il dialogo tra scienza e fede? Possibilissimo come dimostra la storia, necessario come richiede ancor di più l’attuale momento culturale. Ma a due condizioni: un certo "scientismo" deve lasciar cadere la tesi secondo cui soltanto quella scientifica, fondata su fatti sperimentalmente accertati, è conoscenza certa. Così come «il teologo deve rinunciare alla pretesa di piegare in senso apologetico i risultati della ricerca sperimentale». Lo ribadisce il gesuita Giandomenico Mucci sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica, in un lungo intervento che ha comunque di mira la prima delle due condizioni e difatti si intitola “Le critiche degli scienziati alla teologia”. Padre Mucci passa in rassegna alcune delle voci che si occupano di scienza sui media italiani e ne stigmatizza l’approccio segnato da un «fastidioso atteggiamento di supponenza e di superiore saggezza» rispetto al mondo credente. Quell’atteggiamento che liquida l’esperienza religiosa come un insieme di «suggestioni evocative e autoconsolatorie» che frenano «le migliori predisposizioni morali dell’uomo» (Gilberto Corbellini), o che arriva a vedere nel magistero papale l’idea «che è la scienza in sé a essere pericolosa» (Armando Massarenti).
Una mentalità «provinciale», pungola Mucci, se si guarda per esempio al contesto angloamericano. E qui il riferimento va in primis a quanto formulato da uno dei massimi biologi evoluzionisti degli ultimi decenni, Stephen J. Gould (1941-2002), con la sua proposta di considerare due «insegnamenti non sovrapponibili», quello della scienza che si interessa della «scena dell’essere e dell’esistere», e quello della teologia che si occupa del «fondamento».
A questa disamina un filosofo della scienza come Giulio Giorello ribatte che «si fa sempre bene a richiamare un nucleo di idee come quelle di Gould, anche per sgomberare il campo da argomenti di tipo sociologico che io trovo molto deboli. Come quando si prova a impostare il dialogo tra scienza e fede sul numero di scienziati credenti o non credenti censiti in un determinato Paese». E se Mucci richiama il fatto che la scienza dovrebbe essere «un’attività antidogmatica», anche qui Giorello conviene, «anche se preferirei chiamarla atteggiamento critico, che è il modo in cui funziona l’impresa scientifica. Certo, alcuni scienziati possono essere condizionati dalle passioni più diverse, ma sono d’accordo con quanto ha scritto il primatologo Frans De Waal ne Il Bonobo e l’Ateo, rispondendo a chi sostiene cheanche la scienza ha i suoi "dogmi". De Waal dice che comunque, su lungo periodo, le obiezioni e l’anticonformismo in ambito scientifico vengono premiati. Anche se talvolta con fatica. Basti pensare alle puntigliose obiezioni mosse da Einstein alla meccanica quantistica e a Niels Bohr in particolare, che alla lunga hanno migliorato il livello di ricerca della stessa fisica quantistica. Io ho la sensazione che se c’è un contrasto tra scienza e fede non è perché parlano di due mondi diversi o dello stesso mondo cercando cose diverse. Ma nasce dal tipo di argomentazione che viene adottato. Nella scienza non c’è spazio per alcun principio di autorità, nessuna forma di sapere infallibile. Mentre la questione dell’infallibilità caratterizza, a partire dalle Sacre Scritture, diverse religioni».
Padre Mucci cita i «dolci lumi» evocati dalla filosofa Roberta De Monticelli e alla luce dei quali sarebbe possibile la soluzione delle conflitti tra scienza e fede. Ancora Giorello: «Concordo con De Monticelli sull’importanza dell’Illuminismo, ma è sul "dolci" che non sono d’accordo. Sono per valorizzare, come il grande studioso Jonathan Israel, quello che è chiamato "illuminismo radicale", che ha la sua radice in Spinoza e Hume, che è stato un illuminismo rigoroso e soprattutto che non ha avuto paura delle forti polemiche. Il non aver paura delle polemiche è il nerbo della libertà filosofica. Se la religione è capace di essere coraggiosa nel difendere le proprie posizioni e nel rendere il valore cristallino della fede, ben venga. La considero un arricchimento».
Detto questo, Giorello non concorda comunque con la tesi di fondo del gesuita: «Non trovo che in Italia ci sia un rischio di "scientismo", trovo invece che ci siano stati diversi movimenti antiscientifici. Non c’è bisogno di tornare al caso Galileo: pensiamo ai danni fatti dalla vulgata dell’idealismo italiano, con le teorie scientifiche viste come un insieme di pseudoconcetti, o a esponenti del marxismo che sono arrivati ad applicare il materialismo storico financo alla teoria della relatività».
Da parte di un epistemologo e storico della scienza come Giorgio Israel c’è invece ab initio una presa di distanza dalla proposta di Gould, vista con simpatia da Mucci: «Non la condivido, perché il pensiero non può essere diviso in zone d’influenza come un territorio mediante una transazione politico-diplomatica. Non può che finir male. Nel passato, l’intolleranza religiosa ha perseguitato un libero pensiero che di per sé non aveva alcun elemento strutturale di ateismo o di riduzione del ruolo della ragione ai "meri fatti". Oggi, si rischia la prepotenza di un pensiero ateistico-positivistico che, spacciandosi come portavoce della scienza, mira a dichiarare come irrazionale e illegittimo il pensiero religioso. Occorre ridare spazio a forme di pensiero che non s’identificano con il razionalismo "ridotto" e che non sono rappresentate dalla sola teologia».
E sul pregiudizio anti-religioso di non poca pubblicistica scientifica italiana, così commenta lo studioso: «Penso che andrebbe introdotta nelle scuole la lettura commentata dei brani in cui Edmund Husserl – che di scienza ne capiva più di molti "scienziati" di oggi – spiegava come la scienza moderna faccia parte di un progetto complessivo di comprensione razionale, una scienza onnicomprensiva della totalità dell’essere che riguarda tutti i problemi della ragione, e quindi non solo anche quelli metafisici, ma anche il "problema di Dio come fonte teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del senso del mondo". Husserl ha spiegato come alcuni fraintendimenti e oscurità irrisolti in questo progetto siano all’origine di un concetto positivistico della scienza come "concetto residuo" che ha accantonato tutto ciò che non appare come "mero fatto". Il caso più evidente è dato dalla trasformazione del dualismo cartesiano in una forma di monismo materialistico. Ed è ironico costatare che, tanto è forte il legame della scienza con la metafisica – che il positivismo fa credere di poter escludere – da riemergere nel tentativo di difendere una metafisica materialistica. Altro che mera aderenza positivistica ai fatti!».
«Ne è testimonianza – prosegue ancora Israel – l’interesse spasmodico che molti scienziati hanno più che nei temi specifici delle loro ricerche, nel dimostrare che il libero arbitrio non esiste, che tutto si riduce a Dna e neuroni. Beninteso, è legittimo coltivare una metafisica ateistica: a condizione di non spacciarlo come risultato della scienza. È un grave errore accettare una simile contraffazione e pensare di trovare terreni di transazione teorica entro discipline come la "neuroteologia", che oltre a essere inconsistenti sono strutturalmente atee. Ed è un grave errore accettare l’idea che scienziato sia, per definizione, chi propugna quelle visioni. Se si ripartisce il terreno in questo modo – da un lato i teologi, dall’altro la scienza e gli scienziati, tutti positivisti e atei – non c’è da stupirsi che i media selezionino in un certo modo commentatori e divulgatori e gli altri non esistano. E allora di che stupirsi se questo alimenta toni sprezzanti da parte di chi si sente legittimato come unico rappresentante della "scienza"?».
«Avvenire» del 13 agosto 2014

Richard Dawkins: "Partorire un bimbo down è immorale". Ed esplode la polemica

"Abortisci e ritenta": è scandalo in Inghilterra per alcuni controversi tweet del celebre studioso britannico, autore di "L'illusione di Dio". Le associazioni: "Anche i bambini affetti dalla Sindrome hanno diritto di vivere"
di Antonello Guerrera
Bufera su Richard Dawkins. Il celebre studioso e biologo britannico, già coinvolto in passato in varie polemiche e controversie, ha scandalizzato molti suoi connazionali ieri su Twitter. Dawkins, "orgogliosamente ateo" e autore di libri che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, come il famoso L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere o l'ultimo Il gene egoista, ha scritto sul celebre social network che i nascituri cui è stata diagnosticata la sindrome di Down dovrebbero essere tutti abortiti perché sarebbe "immorale" partorirli. A una donna che definiva "un dilemma" il fatto di portare in grembo un bambino affetto dalla sindrome, Dawkins ha risposto: "Abortisci e ritenta. Sarebbe immorale metterlo al mondo, visto che hai la possibilità di evitarlo".
"Ma gli autistici no". Frasi di agghiacciante stampo eugenetico che ovviamente hanno generato un putiferio oltremanica. L'account Twitter di Dawkins, che ha oltre un milione di follower, è stato travolto da proteste e critiche. Ma questo non ha spaventato affatto lo scienziato britannico. Che ha continuato nei suoi messaggi per molti utenti deliranti. A un'altra domanda della stessa donna sull'opportunità di partorire bambini cui durante la gravidanza vengono diagnosticati problemi legati all'autismo, Dawkins ha risposto di sì, perché gli autistici possono offrire "un grande contributo al mondo, in quanto alcune loro facoltà sono superiori alla norma. Non così per coloro affetti dalla Sindrome di Down", ha aggiunto spietato Dawkins.
Senza freni. Su Twitter, le proteste contro Dawkins sono ovviamente continuate, sempre più veementi. Tanto che, poco dopo, lo studioso si è reso protagonista di un altro tweet, in cui ha rivendicato tutto ciò scritto fino a pochi minuti prima, rincarando anzi la dose: "Quindi io sarei un orrido mostro solo per aver consigliato di fare ciò che accade realmente alla maggior parte dei feti affetti dalla Sindrome di Down. E cioè: vengono abortiti". L'Associazione Sindrome di Down britannica (Dsa) ha subito risposto a Dawkins, dicendo che anche i bambini affetti dalla malattia "hanno il diritto di vivere".
Il caso Gammy. Non è la prima volta che Dawkins finisce sotto il fuoco delle polemiche per le sue frasi al vetrolio. In passato aveva detto che "tutti i musulmani del mondo hanno vinto meno premi Nobel degli studenti del Trinity College di Cambridge", infiammando la comunità islamica. Ma anche che "alcuni tipi di stupro o pedofilia sono peggio di altri". Questa volta, invece, le sue frasi molto controverse hanno fatto venire alla mente un caso molto recente, e cioè quello di Gammy: il bambino scartato da una coppia australiana, a differenza del gemellino sano, proprio perché affetto da Sindrome di Down.
«la Repubblica» del 21 agosto 2014

21 agosto 2014

La decapitazione: i mostri dell’orrore e la scelta di non essere complici

Il video e la Rete
di Beppe Severgnini
Mostrare o non mostrare il filmato dell’esecuzione di James Foley? I limiti della condivisione, il diritto alla libertà e il gioco dei terroristi
La decapitazione di James Foley, recitata come la scena di un film, è sconvolgente: attori goffi, orrore vero. Un giornalista quarantenne, insaccato in una veste arancione, scannato nel deserto da un uomo - definizione che non merita - bardato di nero. Gesto mostruoso e preistorico; strumenti sofisticati e nuovi. Colori, luce, inquadratura, movimenti, tempi: tutto appare studiato per essere visto e diffuso. Se così fosse - e così è, quasi certamente - perché aiutare i carnefici? Gli abbiamo già fornito la tecnologia. Vogliamo diventare i loro portavoce? Questa è la domanda che si pongono molti in queste ore: i governi occidentali, i macchinisti della rete (Google per YouTube, Twitter), le grandi testate, le televisioni, chiunque abbia un collegamento internet veloce. #ISISMediaBlackout è diventato virale.
La dichiarazione recita così: «Quando terroristi o criminali di guerra disperatamente pubblicizzano i loro crimini, non aiutateli. Quando i social media, giornalisti e osservatori condividono immagini macabre per riportare i fatti, svolgono lavoro di PR per costoro. Descrivete i loro crimini, non pubblicate la loro propaganda».
Molti hanno aderito, altri hanno protestato: in nome della libertà. Libertà assoluta di sapere, di vedere, di esprimersi, di decidere. Chi ha ragione?
«Che i terroristi di Isis, da tempo abili nell’uso dei social network, possano contare su piattaforme gratuite per rilanciare i loro tremendi messaggi, e lo facciano sfruttando il passaparola degli utenti, è una distorsione terribile», scrive Marta Serafini sul blog «6 Gradi» di Corriere.it . E aggiunge: «Certo si lascia ad aziende e società commerciali una responsabilità enorme». E’ così, ma è inevitabile: strumenti nuovi, fenomeni nuovi, decisioni nuove. Scappare non serve: la realtà è più veloce di noi, e ci costringe ogni volta a scegliere.
Alcune testate di lingua inglese (New York Times, Wall Street Journal, Financial Times) hanno messo la notizia della decapitazione in basso, carattere piccolo, con foto d’archivio? Sembra un eccesso di zelo, e una curiosa scelta giornalistica. YouTube e Twitter hanno rimosso il filmato dell’esecuzione? E prima che ciò accadesse diversi media - tra cui il Corriere della Sera - hanno evitato di pubblicarlo? E’ giusto. Non perché lo ha chiesto la Casa Bianca. E’ giusto perché diffondere quel video è l’obiettivo dei carnefici: ostacolarli è un dovere. Le foto del massacro nella scuola di Beslan (2004)? Le immagini dei resti delle vittime dell’aereo abbattuto sull’Ucraina il 18 luglio? Sconvolgenti: ma servivano a raccontare due follie, e a evitarne altre.
I libertari assoluti non ci stanno: bisogna guardare/ascoltare/leggere tutto per poter decidere! Rimuovere quel video? Una censura. Domanda: condividiamo forse filmati pedopornografici prima di condannare la violenza sessuale sui bambini? Saremmo contenti se le immagini strazianti di un nostro familiare venissero date in pasto alla morbosità del mondo? Perché di questo si tratta, parliamoci chiaro. Assuefatti al sangue e alla violenza cinematografica - che l’America vezzeggia e vende senza scrupoli, non dimentichiamolo - vogliamo di più: sangue e coltello veri, non succo di pomodoro e lame di gomma. Anni fa a Los Angeles ho conosciuto Judeah Pearl, uomo dolce e mente finissima (studioso della causalità, ha vinto nel 2012 il Turing Prize, il Nobel dell’informatica). E’ il padre di Daniel, il giornalista americano decapitato in Pakistan nel 2002 da al-Qaeda. Chiediamo a lui se è nobile e utile, in nome della libertà d’espressione, scambiarsi il filmato dell’esecuzione di James Foley.
Leggo tra i commenti su Corriere.it : «Mostrare, assolutamente mostrare anzi da far vedere in TV in fascia protetta, che tutti vedano cosa vuol dire decapitare un uomo usando un coltello, che sentano le urla, il rumore gorgogliante dei fiotti di sangue che zampillano, e lo sguardo lucido e soddisfatto del carnefice che tiene per le mani la testa sgocciolante e che soprattutto si rendano conto di quanto tempo ci vuole e di quanto sia lungo l’orrore, e poi vediamo quanti simpatizzanti restano».
Resterebbero e aumenterebbero, vorrei dire al lettore. Tra di noi, infatti, non ci sono solo Di Battista inadeguati e presuntuosi («Quando non hai mezzi per combattere una guerra regolare, resta solo il terrorismo»). Ci sono persone che, davanti a problemi complessi, s’accontentano di risposte semplici e orrende (il mondo è ingiusto? Un genocidio lo purificherà!). Perché, noi che impediamo la propaganda nazista, dovremmo tollerare - anzi, sostenere - quella dell’estremismo islamico?
«L’orrore, l’orrore!», evocato dal protagonista di «Cuore di tenebra», aleggia sempre sul mondo: sta agli uomini liberi portare, faticosamente, la luce. Decidendo cosa fare e cosa non fare; cosa dire e cosa non dire; cosa ascoltare e cosa non ascoltare; anche cosa guardare e cosa non guardare. Papa Francesco ha ragione. E’ in corso «una terza guerra mondiale a puntate», e non è finita. Ma la vinceremo, anche questa volta.
«Corriere della Sera» del 21 agosto 2014

Corti e quella bellezza nata da verità e amore

di Cesare Cavalleri
Accostarsi alla letteratura, al romanzo, significa incontrare una persona, lo scrittore. Accostarsi al Cavallo rosso, significa incontrare Eugenio Corti che si è riversato nella narrazione. Louis Aragon ha spiegato la differenza tra la letteratura e le altre forme di comunicazione: quando ascoltiamo musica, o navighiamo in internet, musica e rete sono fuori di noi, ma quando leggiamo un libro, dopo poche righe già pensiamo con il pensiero dell’autore. Il pensiero redatto nella forma del libro diventa il nostro pensiero. Noi sogniamo, per così dire, il sogno dell’autore e, nel caso di Corti, questo sogno è veritiero, coinvolgente, incessante perché il Cavallo rosso è un romanzo di più di mille pagine costruito magistralmente con piccoli stacchi, brevi sequenze e quando si comincia a leggerlo non ci si stacca più. E il lettore pensa con il pensiero dell’autore. [...] Quelli che i filosofi chiamano i trascendentali dell’essere, ovvero l’Unità, la Verità e la Bontà, vengono coagulati e resi interdipendenti da un altro trascendentale, che non tutti qualificano come tale: la Bellezza. La bellezza ha in sé l’unità del soggetto, la verità (non esiste bellezza senza verità) e la bontà (non può esserci bellezza senza bontà). Eugenio Corti ha compiuto un’esperienza di bellezza che è coagulo di verità e di bontà nell’unità dell’essere umano.
Il cardinale Carlo Maria Martini una volta disse che noi siamo abituati a parlare del Buon Pastore ma per una più corretta esegesi dovremmo parlare del Bel Pastore. Il Pastore è bello perché nella sua Bellezza c’è anche l’Unità della sua Bontà e della sua Verità.
Corti esprime la Bellezza con uno stile semplice, apparentemente semplice, perché nasce da un lavoro di correzioni straordinario, di riscritture.
Il Cavallo Rosso è un romanzo “vero” perché contiene situazioni veramente vissute da Corti o da lui sentite raccontare dai protagonisti; e brulica di personaggi, talvolta con il loro vero nome, che Corti ha conosciuto direttamente o attraverso testimoni diretti. Il romanzo, dunque, è “vero”, ma non di una verità semplicemente trasposta sulla pagina, bensì di una verità interpretata dall’arte del narratore.
La semplicità non è mai un punto di partenza, è un punto d’arrivo. Le cose veramente semplici hanno richiesto una lunga elaborazione. Si racconta che un imperatore cinese chiese a un pittore di disegnargli un gallo. Il pittore chiese al re un anno di tempo. L’anno passò ma il pittore non era ancora pronto, e chiese all’imperatore altri tre anni. Passati i tre anni, l’imperatore reclamò il disegno. Il pittore prese un foglio e disegnò un gallo magnifico. L’imperatore domandò: «Se era così facile, perché mi hai fatto aspettare quattro anni?». E il pittore: «Se non mi fossi allenato per quattro anni, non sarebbe stato così facile realizzare adesso il capolavoro». [...] Corti è un autore che racconta la sua vita, le vite delle persone che ha conosciuto, inquadrandole in una storia che è sempre storia sacra. Vorrei anche sfatare una specie di leggenda parzialmente alimentata dallo stesso autore, per la quale Corti sarebbe stato boicottato in Italia e molto amato all’estero. In realtà Corti è conosciutissimo sia in Italia sia all’estero.
Il Cavallo Rosso è alla trentesima edizione, Le Figaro ha scritto per la morte di Corti che «è uno degli immensi scrittori del nostro tempo, uno dei più grandi, forse il più grande».
Quello che però stava davvero a cuore a Corti era il contatto col suo pubblico: incontrava tantissimi giovani che lo ascoltavano come maestro di vita. Nell’archivio di Corti, destinato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, ci sono faldoni e faldoni di lettere dei lettori. Ne leggo due. La prima è di una suora: «Lei è della generazione di mio padre: il primo frutto del suo libro è stata la piena riconciliazione con quella generazione; io amo molto mio padre, ora però è stato colmato, grazie a lei, un fossato che separava “noi” e “voi” e so che lei comprende bene cosa voglio dire».
Questo è un punto fondamentale: i giovani non devono stare solo tra di loro, devono dialogare con gli adulti e gli adulti devono stare con i giovani. Solo col trapasso generazionale si può costruire una civiltà, una società autenticamente umana.
L’altra lettera è di una professoressa che dopo essere stata sessantottina, comunista, e nei comitati per il divorzio e l’aborto, ha ritrovato la fede proprio leggendo Il Cavallo Rosso: «Leggendo il suo libro, mi sono sentita piombare addosso di nuovo tutti i miei sbagli, gli anni di dolore, di disperazione, ma mi è servito per ringraziare ancora una volta il nostro Dio. L’ultimo capitolo, quello della morte di Almina, mi ha fatto piangere e gioire perché lì è racchiuso tutto ciò che noi cristiani crediamo: che siamo figli di Dio, amati e perdonati anche se compiamo brutalità; che i nostri Angeli non ci abbandonano mai; che la nostra vera vita è colma di pace, di gioia e di luce e che vi ritroviamo tutti i nostri cari; che le nostre sofferenze di quaggiù non vanno perdute e, soprattutto, non va perduto l’amore che si dà, che si lascia ». Questo è Corti, queste sono le reazioni dei suoi lettori.
«Avvenire» del 21 agosto 2014

12 agosto 2014

Cardarelli, favole d'Etruria

di Massimo Onofri
Primo maggio 1887: nasce Nazareno Caldarelli (il nome autentico di Vincenzo Cardarelli). Pensate a una casa «esposta a mare, nel punto più alto del paese», allora Corneto, oggi Tarquinia, alta Tuscia, in provincia di Viterbo. Immaginatevi il povero buffet della stazione. Il gerente di quel locale è Antonio Romagnoli, commerciante di origini marchigiane, il padre di Vincenzo: che, abbandonato dalla compagna, Giovanna Caldarelli, si trovò a crescere un figlio offeso da una menomazione al braccio sinistro. A badare a Vincenzo con grande tenerezza sarà la nuova moglie del genitore, una donna del Nord: per pochi anni soltanto però, perché una morte crudelissima gliela strappò.
Solo un bambino ipersensibile, un poeta di natura, così precocemente punito dalla vita, avrebbe potuto scrivere, nella sua altrettanto amara maturità, l’incipit di una delle più belle poesie d’amore del Novecento.
Sto parlando di Attesa: «Oggi che t’aspettavo / non sei venuta. / E la tua assenza so quel che mi dice, / la tua assenza che tumultuava, / nel vuoto che hai lasciato, / come una stella. / Dice che non vuoi amarmi». Si potrebbe aggiungere che sta forse proprio qui, in questo idillio subito infranto dell’infanzia («precoci tristezze e indefinibili nostalgie»), la radice dell’ambivalente rapporto che Cardarelli ebbe col natio borgo selvaggio: vagheggiato– e mitizzato – come la capitale di un’Etruria favolosa, struggente e civilissima; odiato per i suoi concittadini, sino al risentimento e all’invettiva. E così profondo, come rapporto, che non riuscirà a privarsi quasi mai della gioia del ritorno, ogni anno per il suo compleanno. Poteva essere diversamente, del resto, per uno che aveva sempre detto di rispettare, sopra ogni cosa, “il limite” e, nello stesso tempo, di non conoscere alcun limite?
Ecco: una Tarquinia amata come nessun altro posto del mondo, ma sempre a ridosso d’un binario su cui sferragliare lontano e velocemente, «come un ignoto, come un traditore». Favoleggiata, Tarquinia, dentro un’ipotesi genetica – di genesi della civiltà, vorrei dire – che è stato il modo letteratissimo, per Cardarelli, di reinventarsi quell’identità che gli era stata rubata da subito: e di reinventarsela antica e nobile, come quella di tutto un popolo, bello e misterioso, ma estinto. Sentite qua; son parole degli inizi degli anni Venti, una volta citatissime, ma che oggi non ricorda quasi più nessuno: «Qui rise l’Etrusco, un giorno, coricato, cogli occhi a fior di terra, guardando la marina. E accoglieva nelle sue pupille il multiforme e silenzioso splendore della terra fiorente e giovane, di cui aveva succhiato il mistero gaiamente, senza ribrezzo e senza paura, affondandoci le mani e il viso». Finché, rapaci e violenti, uomini di guerra spicci e senza gentilezza, non giunsero i Romani che l’Etrusco presero alle spalle, mentre lavorava senza sospetto, per rimanere «come seppellito nella propria favola luminosa».
Ora, nell’entroterra, alle spalle del paese turrito edificato nel Medioevo, «urbano e campagnolo », affacciato sul mare, si estende e allarga la necropoli che di quel popolo custodisce il segreto, serbandone, coi suoi colori tenui, il ricordo “soave”, mentre la terra, quando la sfiorano in primavera certe “ariette” di settentrione, «non fiorisce più che di asfodeli».
È da quel pianoro di morti disertato dagli uomini, che Cardarelli contemplava, qualche volta ferocemente irridendola, la vita che formicolava nel suo paese maremmano, quella che si svolgeva intorno agli «ariosi e secolari palazzacci pontifici carichi di stemmi e di sacre chiavi», ormai «ridotti a caciare e magazzini», là dove, subito fuori le mura castellane, nella «campagna atra e disabitata», «il bifolco, arando e cantando alla pianura, lamenta la sua porca vita». È così, che su straducole sempre polverose, le rade e villiche casupole, gli orti le vigne le fienare e i cannati, le officine (facocchi, magnani, maniscalchi), e poi le donne che stendono il bucato sui prati, trovano quella che Cardarelli chiama la sua “deserta poesia”. Sotto quei cieli azzurri e straziati in cui svariano, d’estate, rondoni e colombi, o i gabbiani di una sua memorabile lirica, un’altra declinazione del bisogno di fuga, di libertà: «Non so dove i gabbiani abbiano il nido, / ove trovino pace. / Io son come loro, / in perpetuo volo. / La vita la sfioro / com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo. / E come forse anch’essi amo la quiete, / la gran quiete marina, / ma il mio destino è vivere / balenando in burrasca». Già, la perpetua burrasca della sua vita: che gli lasciò, irreparabile, il sentimento che tutto si fosse svolto troppo rapidamente, che tutto gli fosse troppo rapidamente sfuggito di mano: «Ride l’infanzia un attimo e già ha qualche cosa da rimpiangere e dimenticare. Gli inganni della vita, dalla gioventù in poi, non sono che rimedi, sempre meno efficaci, finché l’uomo non arrivi al punto da trovarsene sazio e disgustato».
«Avvenire» del 12 agosto 2014

I giovani e le vacanze formato famiglia. Per amore (e per l’Italia che non va)

Convivenze prolungate e villeggiature senza alternative
di Beppe Severgnini
L’estate non è una stagione come le altre. È una pausa inevitabile, soprattutto alle nostre latitudini. È tempo di bilanci, personali e collettivi. La vacanza non è un lusso, ma «l’occasione per premere il tasto “reset” del nostro cervello» (Daniel J. Levitin, oggi sull’International New York Times). L’unico, vero capodanno è il 1° settembre (quest’anno cade anche di lunedì). Le altre date sono convenzioni astronomiche e scritte sul calendario. L’estate è il tempo del pensiero, dell’ascolto e della lettura: e non credete a chi si vanta di evitare scrupolosamente ognuna di queste attività. Una spiaggia siciliana, un prato trentino o una discoteca del Circeo sono postazioni eccellenti dove osservare la gente e meravigliarsi della vita.
Anche se le conclusioni, qui e là, possono risultare diverse. Ecco il motivo per cui quest’estate si parla tanto di nuove generazioni, di lavoro, di opportunità, di scenari: perché non se ne può fare a meno. Anche i più superficiali e i più egoisti — di solito le cose coincidono — sanno che il futuro marcia sulle gambe dei nostri ragazzi. Anche i più cinici tra noi sanno che l’Italia andrà avanti grazie a loro; o non andrà da nessuna parte.
Qualche immagine rincuora. È rassicurante cogliere la vitalità degli scout riuniti a San Rossore (se trovate qualcuno che li deride, sappiate di aver conosciuto un cretino). Sarà sorprendente notare l’entusiasmo dei convenuti al Meeting di Rimini (neppure le colpe gravi di alcuni loro leader riusciranno a spegnerlo). È bello vedere la grinta e la fantasia di molti, giovani e meno giovani, nei videodocumentari di Pappi Corsicato per Corriere.it («L’Italia che non ti aspetti»). Ma non usiamo la loro tenacia come nostro alibi.
I nuovi italiani non se la passano bene. Lo sanno gli interessati e le loro famiglie; lo confermano, implacabili, le statistiche (43,7% di disoccupazione giovanile nell’unica economia europea che non si muove). Lo ripetono a intervalli regolari, talvolta con una punta di compiacimento, i media internazionali. Il Wall Street Journal ieri titolava: «In Europa, la protezione della vecchia generazione è una barriera per i giovani lavoratori». Poi, nel pezzo, si legge quasi soltanto dell’Italia, con un’attenzione particolare a un fenomeno: i giovani che non lasciano la casa di famiglia, o sono costretti a ritornarci.
Dieci anni fa il 60% dei connazionali tra i 18 e i 34 anni viveva con i genitori, un record mondiale. Due anni fa la percentuale era salita al 64%. Eurostat non fornisce dati più aggiornati, ma è legittimo ritenere che le cose non siano migliorate: con milleduecento euro lordi al mese, quando ci sono, non si pagano affitto, spese di casa, vitto, trasporti e tutto il resto. Nessuno parla più di «mammoni», una festa di labiali che deliziava i forestieri, confortandoli nei loro stereotipi. Se oggi un trentaduenne resta in casa con i genitori è perché deve, non perché vuole (si spera).
D’estate queste convivenze si complicano, a causa di orari e abitudini (il figlio torna quando la mamma si alza, il papà pranza quando la figlia chiede la prima colazione). Oppure si spostano in vacanza, con conseguenze prevedibili e malinconiche. Il ritorno ai luoghi di villeggiatura dell’infanzia non è una scelta romantica, per molti nuovi italiani; è una necessità, prodotta dalla mancanza di alternative. La villetta al mare o l’appartamento in montagna erano l’investimento di mamma e papà, e il loro fantasticato buon ritiro. Sempre più spesso queste seconde case vengono condivise con figli, nipoti e amici al seguito. L’unica villeggiatura possibile: le altre costano troppo.
Non posso offrire prove né statistiche: non siamo neppure a Ferragosto. Solo osservazioni e sensazioni. Si moltiplicano — nelle auto e sulle spiagge, al ristorante e sui traghetti — le apparizioni di queste famiglie forzatamente allargate. Accampamenti allegri, perché non siamo gente triste. Amore e necessità, in Italia, fanno miracoli: molte di queste vacanze, sono certo, si riveleranno divertenti e serene. Ma si sente, nell’aria d’estate, odore di freni: è l’Italia che rallenta, e non ripartirà senza carburante e strada libera.
«Corriere della Sera» del 12 agosto 2014

09 agosto 2014

Chi dovrebbe insegnare italiano a scuola?

Istruzione
di Claudio Giunta
Premetto che
(1) credo che, in media, i migliori, i più colti e motivati (e, che non guasta, i più umili) tra gli studenti di Lettere, e tra i dottori in Lettere, siano gli studenti e i dottori in lettere classiche;
(2) non sono convinto del fatto che nel curriculum di uno studente di Lettere sia giusto dare all’insegnamento della/e letteratura contemporanea/e tutto lo spazio che gli si dà oggi (cioè da due-tre decenni a questa parte), fondamentalmente perché credo che all’università bisognerebbe studiare cose diverse da quelle che ci si vede intorno ogni giorno, che dovrebbero essere note per altre vie, e che non sempre meritano di essere studiate.
Ora che mi sono coperto le spalle con queste due belle premesse reazionarie, aggiungo una terza opinione che invece può suonare leggermente sovversiva: non credo che i laureati in latino o in greco o in glottologia, e insomma in discipline classiche, dovrebbero insegnare la letteratura italiana nelle scuole superiori.
La ragione è che, nel corso dei loro studi all’università, latinisti e grecisti fanno pochi esami di letteratura italiana e (salvo eccezioni) non ne fanno nessuno di discipline come Filologia romanza, Filologia italiana, Letterature comparate, Letteratura italiana moderna e contemporanea; e danno anche pochi o nessun esame di lingue e letterature straniere. È giusto così: diventare bravi classicisti richiede sforzo e concentrazione, direi più sforzo e concentrazione di quelli richiesti da un’altra laurea umanistica: ma è chiaro che non si può fare e non si può essere tutto, e il giusto approfondimento in questi settori rende impossibile – salvo eccezioni: sulle quali non si può però modellare la regola – l’approfondimento degli altri.
Scrivo questo perché invece una recente decisione del MIUR, dichiarando ‘atipica’ la classe di concorso 051 (italiano e latino nei licei), ha dato anche ai laureati in lettere classiche (classe di concorso 052) la possibilità di insegnare italiano non solo nel biennio (dove già potevano) ma anche nel triennio dei licei (dove non potevano).
Non so se dietro questa decisione c’è, come alcuni malignano, la ‘lobby dei classicisti’ (alla quale m’iscriverei subito, se ci fosse, perché considero l’istruzione classica la parte più importante dell’educazione umanistica), né m’interessa saperlo. Credo solo che, a scuola, le letterature moderne vadano insegnate da chi ha preparazione specifica sulle letterature moderne, e passa il suo tempo a leggere Proust e Gadda piuttosto che Menandro e Ovidio. Si possono fare le due cose insieme? No, non direi, e mi pare che questo pregiudizio favorevole ai classicisti (‘se uno sa bene il latino può insegnare tranquillamente anche letteratura italiana’) abbia un’influenza negativa sia su come s’insegna la letteratura a scuola sia su quale letteratura s’insegna.
Quanto al come, è difficile, per chi si è specializzato in latino o in greco, rinunciare alla tentazione di leggere, nei moderni, l’impronta dei classici. Questo atteggiamento è spesso legittimo, naturalmente, ma altrettanto spesso provoca, specie nei più dogmatici (non ne mancano, tra i classicisti), un tematismo ingenuo e antistorico (genere ‘La figura della donna da Catullo a Sereni’), e insomma rende poco sensibili alle discontinuità e alle specificità del mondo e della letteratura moderna, che per essere ben comprese necessitano, a mio avviso, di strumenti diversi.
Quanto al cosa, chi ha dedicato i suoi studi al latino e al greco sarà, in genere, poco propenso a interessarsi e a dare spazio, nell’insegnamento, alla letteratura contemporanea, che del resto conoscerà solo superficialmente (onde aggiornamenti frettolosi, velleitari e a volte semplicemente stupidi, cioè il salto da Virgilio a «quello che c’è in vetrina da Feltrinelli», senza tappe intermedie). Ma mentre sono del parere che all’università (dove bisognerebbe formare dei letterati, diciamo, ‘completi’) di letteratura contemporanea se ne faccia anche troppa, trovo assurdo che i programmi delle superiori, i programmi svolti, si fermino spesso a Pirandello o agli Ossi di seppia, e che alla domanda ‘mi dica i nomi di un poeta e di un romanziere che le piacciono’ i candidati al TFA (cioè i futuri insegnanti) rispondano, con frequenza allarmante, «Ungaretti e Svevo». Sono del parere che occorra ripensare in toto l’insegnamento della letteratura nelle scuole superiori, e in questo ripensamento (che vuol dire sfrondare, che vuol dire de-retoricizzare, e orientare sull’oggi più che sull’altroieri) i classicisti rischiano di essere più d’ostacolo che d’aiuto.
«Il Sole 24 Ore» del 20 luglio 2014

Calvino, Sciascia, Levi la scuola dei soliti noti

Il canone immutabile dei libri da leggere per l'estate
di Paolo Di Stefano
Niente di nuovo sotto il solleone, da trenta-quarant'anni. Ogni estate che il Signore mandi benevolmente sulla Terra, le classifiche dei libri subiscono la solita stanca respirazione bocca a bocca della scuola. Provate a dare un'occhiata: vedrete lievitare nella narrativa italiana almeno quattro-cinque romanzi di Italo Calvino. Non La giornata di uno scrutatore, ma immancabilmente: Il sentiero dei nidi di ragno, l'intera trilogia a raffica, Le città invisibili. Poi: un paio di Pavese, un paio di Fenoglio, un paio di Sciascia. E Primo Levi. Pochi titoli (da decenni sempre quelli) per pagare lo scotto civile alla Resistenza, alla Shoah, alla mafia; quello di genere, dal neorealismo al fantastico; quello geografico distribuendo le parti tra Nord e Sud. Ce n'è (quasi) per tutti i gusti.
Poi, non mancheranno mai, ogni estate: Il fu Mattia Pascal, La coscienza di Zeno, Il Gattopardo, L'isola di Arturo.
Quest'estate, ovvio, non si può rinunciare alla Grande Guerra, dunque Lussu e Un anno sull'altipiano. È la coazione a ripetere delle letture per le vacanze, consigliate (o imposte) dagli insegnanti. Ha proprio ragione Paolo Di Paolo (La Stampa, 2 luglio), è un canone immutabile, istituzionale, privo di sorprese, di slanci, di coraggio. Se ne ricava un effetto di eterno presente o meglio di eterno passato: come se dagli anni Sessanta non ci fosse stato nessun ricambio generazionale (e culturale) tra gli insegnanti, come se gli studenti di oggi fossero esattamente quelli di trenta o quarant'anni fa, soprattutto come se la letteratura non avesse prodotto alcuna pagina degna di fare timidamente capolino tra i classici del nostro tempo. Sì, qualcosa forse, eventualmente, molto eventualmente, ma sono titoli scelti prima dal mercato e poi a ruota dai professori: troverete infatti, sparso qua e là, qualche libro di Eco, di Benni, di Ammaniti, di Baricco e non molto di più. Saranno gli studenti a essere conservatori andando a sbattere sempre negli stessi nomi, o saranno piuttosto gli insegnanti a caldeggiare con ossessione Calvino, Pavese, Sciascia e poco altro? Perché con loro non si sbaglia mai, sono l'usato sicuro. Anche senza volersi spingere spericolatamente sui viventi, non si capisce perché la scuola tagli fuori da mezzo secolo gente come Ortese, Soldati, Parise, Bianciardi, Morselli, Flaiano? E Fruttero & Lucentini? E Pontiggia? E Bufalino? E Consolo? E Tabucchi? E chissà quanti altri. Non sarebbe ora di rompere le righe dell'abitudine? Domenica sul Sole 24 Ore, Claudio Giunta sosteneva che è sbagliato permettere ai laureati in Lettere classiche di insegnare italiano nel triennio dei licei: per formazione, sono troppo orientati sul passato e poco sul contemporaneo. La vera lacuna però non è nella formazione, ma nella curiosità culturale. Quanti laureati in filologia italiana (e futuri insegnanti) conoscono Gianni Celati e Milo De Angelis? Il contemporaneo spesso è fantascienza: dunque se ne parlerà nel XXII secolo. Semmai.
«Corriere della Sera» del 22 luglio 2014

I libri delle vacanze. Come imparare a odiare i classici

Alla fine dell’anno scolastico i professori assegnano le letture secondo un «canone» immutabile che privilegia autori del ’900: perché non cambiare?
di Paolo Di Paolo
Questo articolo è stato commentato da Paolo Di Stefano (22 luglio 2014) e da Roberto Carnero (5 agosto 2014)

C’è un fenomeno curioso che si ripete intorno al solstizio d’estate, ma non riguarda l’astronomia. A giugno, nelle classifiche dei libri più venduti – solitamente prive di sorprese – si affacciano regolarmente tre o quattro titoli di Italo Calvino, sempre gli stessi, e Se questo è un uomo di Primo Levi. Che succede? Niente di speciale: letture consigliate (o imposte) dalla scuola per le vacanze. Se compaiono fra i best-seller, è segno che la scelta degli insegnanti italiani è di massa: la trilogia degli Antenati – Il barone rampante, Il visconte dimezzato, Il cavaliere inesistente – e il grande e terribile romanzo testimoniale di Levi sulla Shoah costituiscono da più di quarant’anni le punte del canone scolastico.
Non sarà arrivata l’ora di aggiornarlo? Suggerire una lettura agli adolescenti è una responsabilità: quando si azzarda, si corrono parecchi rischi. Come ha dimostrato nei mesi scorsi il caso Mazzucco – al liceo Giulio Cesare di Roma sollevò un vespaio la scelta del romanzo Sei come sei, storia d’amore omosessuale – è facile urtare la sensibilità dei ragazzi e ancor più delle famiglie. Oltre a quella, naturalmente sempre viva, degli ipocriti. Ma bisogna mettersi nei panni dei professori: condizionati dalla missione pedagogica, cercano testi, se non rassicuranti, sicuramente non ambigui, rodati da una lunga tradizione di lettura. In una parola, inattaccabili.
Dopo il 1865, a ogni libro che entrasse in aula doveva essere riconosciuta l’«utilità per le scuole». La discussione sul canone era accesa; la triade ideologico-pedagogica a cui ispirare le scelte, solenne: Dio Patria Famiglia. Nomi di autori che oggi non ci dicono più niente – Pandolfini, Alberti, Segneri, Lambruschini, Abba – erano considerati essenziali per illustrare ai ragazzi le virtù della famiglia e il buon costume. L’accigliato Girolamo Tagliazucchi pubblicò nel 1882 un saggio intitolato Della maniera d’ammaestrare la gioventù nelle umane lettere, nel quale invitava a sottoporre agli studenti soltanto opere «nette da ogni scostumatezza». La Mazzucco non sarebbe stata ammessa. Sembrano toni arcaici, ma non è così: la sfortuna postuma di Alberto Moravia non è forse dovuta al suo mancato ingresso nel canone scolastico? Troppo sesso. Per fortuna ci pensano gli americani a rivalutare un autore omaggiatissimo in vita e poi accantonato. La rivista «Publishers Weekly» ha inserito nella sua lista di consigli per l’estate 2014 Agostino in una nuova traduzione inglese. Cento pagine perfette, assicura la rivista – ed è vero. Il libro di Moravia ha settant’anni esatti – uscì nel ’44 – ma non li dimostra, e dubito che questa storia di iniziazione sessuale, tutto sommato casta, possa turbare un giovane lettore di oggi.
Sarebbe tuttavia sciocco ridurre il discorso del canone scolastico a una questione di rossori e pruderie. C’è in gioco molto altro. Compresa una domanda sibillina: a uno scrittore, entrare nel canone scolastico fa bene o fa male? Si direbbe faccia bene, giudicando dai numeri. Lavorando sui dati di circa 400 librerie indipendenti italiani, un giovane studioso, Gabriele Sabatini, ha fatto alcune scoperte interessanti. Se nel 2012, in proiezione, Agostino di Moravia aveva venduto intorno alle 2 mila copie, Il barone rampante di Calvino ne aveva vendute oltre 21 mila. È l’effetto compiti delle vacanze, confermato dal fatto che un libro fuori dal canone scolastico come Palomar ha venduto molto meno. Il povero Gadda dell’ardua Cognizione del dolore si ferma sotto le 2 mila copie annue. Certo è che la consacrazione sui banchi non ha solo effetti positivi: inevitabilmente porta con sé una patina istituzionale, un po’ grigia, che rischia di trasformare anche il più godibile dei romanzi in un obbligo indigesto. Accade così che, usciti da scuola, si pensi a Calvino come a un autore per ragazzi e all’opera di Primo Levi come qualcosa di inavvicinabile. Assegnare Se questo è un uomo per l’estate è un errore: senza un sostegno, una guida, una discussione, è tutto tranne che una lettura da fare a sedici anni, di corsa e svogliatamente, negli ultimi giorni di vacanza. Non si potrebbe osare di più? Fare una sorta di assemblea di classe a inizio giugno, scegliere insieme agli studenti da una rosa di titoli meno prevedibile. Oppure organizzare una spedizione in libreria dei singoli ragazzi: che siano loro a proporre. E ancora: siamo sicuri che d’estate gli studenti debbano leggere esclusivamente narrativa? E se scegliessero un saggio su un tema che li appassiona? Un saggio scientifico, filosofico, un testo giornalistico; qualunque cosa – in formato digitale, volendo – che metta in moto il pensiero e tenga la lingua allenata non solo per i baci.
Il vecchio e sterile slogan sul «piacere della lettura» non ha nessun effetto: è ora di abbandonarlo, e di concentrarsi sulle ragioni per cui vale la pena leggere. Non in generale, ma in particolare: quel libro, quel testo, quell’autore. Ricominciamo dai perché più infantili. Se ai professori chiedessimo perché leggere Il barone rampante, saprebbero dare risposte convincenti? Ripartiamo da lì, e i ragazzi a settembre tornino in classe senza riassunti e commenti. Pronti solo a contraddire o a confermare quei «perché», e magari – sarebbe una sorpresa – a proporne di nuovi.
«La Stampa» del 2 luglio 2014

Cari ragazzi, d'estate meglio leggere i classici

La discussione
di Roberto Carnero
Negli ultimi anni si è diffusa l’abitudine, da parte degli opinionisti letterari e dei giornalisti culturali, di criticare, magari a partire da quanto vedono nell’esperienza dei figli propri o di coppie amiche, le scelte degli insegnanti in merito ai libri da assegnare in lettura ai ragazzi come 'compiti per le vacanze'. Di recente sono intervenuti sull’argomento prima Paolo Di Paolo sulle pagine della 'Stampa' e poi Paolo Di Stefano dalle colonne del 'Corriere della Sera'. Ci si lamenta che da trenta-quarant’anni il canone delle letture estive imposte dai professori sia sempre lo stesso: Il fu Mattia Pascal di Pirandello, La coscienza di Zeno di Svevo, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino eccetera. Il motivo sarebbe la mancanza di fantasia e, cosa ancora più grave, di aggiornamento culturale negli insegnanti.
Peccato che a questi accusatori del corpo docente non venga in mente che magari si fanno leggere d’estate proprio le opere maggiori degli autori del Novecento previsti in maniera prescrittiva dalle indicazioni ministeriali (gli ex famigerati 'programmi'), quelle opere che durante l’anno scolastico gli studenti, concentrati sullo svolgimento del percorso storico - letterario, non riescono a leggere integralmente, perché mancano loro il tempo e la concentrazione necessari.
Del resto l’estate - anche un’estate bislacca dal punto di vista meteorologico come questa - è davvero il momento più adatto per la lettura dei classici. In vacanza si danno le condizioni migliori per affrontare l’elevata mole di pagine e anche la complessità culturale di certi libri fondamentali. Non solo quelli che abbiamo citato (che non sono poi così voluminosi), ma anche, poniamo, i grandi romanzi del realismo ottocentesco: Il conte di Montecristo di Dumas, I miserabili di Hugo, Delitto e castigo di Dostoevskij, Guerra e pace di Tolstoj. Ho fatto personalmente la prova con i miei studenti, ed è stato quasi sempre un successo.
Non si creda però che la scuola italiana di oggi sia il luogo dove si propinano classici a tutto spiano. Anzi, in anni recenti si è assistito a una graduale erosione del 'canone scolastico'. E qui non parlo delle letture estive, ma degli autori presenti nei manuali. Ad esempio, lo spazio riservato a Carducci, un tempo assai presente, si è ridotto drasticamente: peccato, perché il valore storico-documentario dei suoi testi è enorme, e pure quello stilistico non è trascurabile. Ma anche autori delle epoche precedenti non godono di buone fortune. Stranamente ciò accade ad alcuni degli scrittori più innovativi dal punto di vista ideologico e formale: per esempio, nella letteratura italiana del Settecento, a Parini, che pure conduce una spietata critica sociale alla 'casta' di allora (la nobiltà parassitaria), e ad Alfieri, che con la sua Vita ci ha dato la prima autobiografia moderna. Ecco, francamente credo che sarebbe molto più formativo per un adolescente leggersi in vacanza la Vita di Alfieri che non l’ultimo romanzetto di qualche scrittorucolo à la page.
Su una cosa, però, do ragione a Di Paolo e Di Stefano: la necessità che gli insegnanti giungano a trattare la produzione letteraria del secondo Novecento. In molte scuole i programmi di letteratura svolti nell’ultimo anno (quello della maturità) arrivavano a Ungaretti e Pirandello e, se va bene, a Montale. Però questo importante lavoro di avvicinamento alla contemporaneità, essenziale per consentire ai giovani di comprendere il presente, non va svolto necessariamente d’estate, senza la guida dell’insegnante: si può fare seriamente, e con comodo, al rientro dalle vacanze.
«Avvenire» del 5 agosto 2014

Così il mito dell'imperatore sbarcò Oltremanica

di Luigi Castagna
La casa editrice Castelvecchi di Roma pubblica ora nella collana «Ritratti» un vasto saggio (330 pagine) intitolato Augustus di John Buchan (noto qui che la stessa casa ha in catalogo un altro Augustus di tono più apertamente romanzesco di John Edward Williams). Ma torniamo a John Buchan. Scozzese di Perth (1875-1940), diplomatico e politico conservatore, avvocato, giornalista, storico, poeta e romanziere autore di spy-stories di grande successo. Forse potrebbe essere noto agli ammiratori del regista Hitchcock: questi nel 1935 traspose per il cinema il suo romanzo I 39 scalini, credo l’ultimo dei film del periodo inglese. Buchan fu uno straordinario poligrafo: autore di un centinaio di opere, fra cui trenta romanzi, sette raccolte di novelle, biografie di Walter Scott, Cromwell, oltre a quella di Augusto da cui abbiamo preso le mosse e a cui ora ritorniamo. Il tono del libro si coglie già nell’epigrafe iniziale, tratta da Plinio il giovane: Immensa Romanae pacis maiestas.
Con la figura di Ottaviano Augusto Buchan sembra essere in calda sintonia; nessuna ombra, nessuna riserva offusca l’ammirazione di Buchan per il suo personaggio. Ciò che Buchan vuole studiare è la mente di colui che fu il fondatore dell’impero romano, colui che chiuse il periodo della libera repubblica romana. Ecco le sue parole: «Questo libro non è che un tentativo di illuminare una piccola parte dell’animo di un grande uomo…». Nella sua opera mi è sembrato di vedere il tentativo di ritrovare le radici culturali e di potere dell’impero britannico, in anni nei quali l’estensione dell’impero britannico superava quella dell’antico impero romano (vedere L’impero britannico di Philippa Levine, Il Mulino). Questo confronto tra l’impero romano e l’impero britannico è spesso presente anche nella coscienza di studiosi anglosassoni più professionali e meno patriottici della storia romana: Ronald Syme, nel volume La rivoluzione romana (da poco riedito da Einaudi a cura di Giusto Traina), si chiese le ragioni per cui l’impero britannico fu di così breve durata in confronto a quello romano e si rispose che i Romani seppero per tempo cooptare membri delle classi dominanti delle terre dell’impero ai gradi più alti dell’amministrazione, fino all’Impero. Il confronto implicito tra Augusto e gli ultimi decenni di regno della regina Vittoria rende ragione di questa ammirazione da parte di Buchan per Augusto.
Quando l’autore sottolinea più volte nel corso degli anni il senso di responsabilità di Augusto, a costo di personali rinunce e sacrifici mi è venuta in mente la morale imperiale di Rudyard Kipling, che chiamava questa vocazione a sacrificarsi, ad assumersi il peso della responsabilità nei confronti del popoli assoggettati «il fardello dell’uomo bianco». A questa stessa impostazione risponde anche un’altra interessante visione del mondo di Augusto da parte di Buchan: colui che era allora governatore del Canada per conto della corona inglese interessa particolarmente i modi con cui Augusto conquistò gradualmente il potere e lo mantenne. La rigidità morale vittoriana trova un precedente nella cosiddetta restaurazione dei costumi che fa parte della legislazione augustea. C’è molto di falso ed ipocrita nella moralità vittoriana, con la quale convivevano schiere di prostitute nei vicoli bui di Londra, bambini ammalati per l’assenza di una fognatura efficiente: forse ogni volta che nel corso della storia si è cercato di ritornare per legge ad un passato di presunta purezza di costumi si è aperta la via all’ipocrisia ed alla censura di una realtà scomoda. Ma devo dire che Buchan dà l’impressione di essere sostanzialmente e forse ingenuamente in buona fede.
«Avvenire» del 3 agosto 2014

Augusto. Dittatore o mecenate?

Il dibattito
di Antonio Giuliano
Svetonio scrisse che Ottaviano Augusto (63 a.C. - 14 d.C) a proposito di Roma si vantò giustamente: «Ho trovato una città di mattoni. Lascio una città di marmo». Ma il primo imperatore romano si sforzò per tutta la vita di gettare anche solide fondamenta ideali, lasciando un segno indelebile nella storia della civiltà occidentale. Eppure a duemila anni dalla sua morte, avvenuta a Nola il 19 agosto del 14 d.C., la sua figura continua a far discutere. Abile e spregiudicato demagogo o principe illuminato? Gli storici si dividono.
Franco Cardini, professore emerito di storia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ammette: «Confesso di non avere grandi simpatie per Augusto lo trovo un personaggio ambiguo. Ma sono contento che si ricordi il suo bimillenario, perché la storia romana oggi è abbandonata nelle scuole. Augusto fu un 'disonesto'. Prima finse di essere più cesariano di Antonio. Poi però lo tradì e lo attaccò, forzando la mano al Senato. Un doppiogiochista tremendo». Per Cardini prevalsero una serie di coincidenze favorevoli: «Augusto ebbe la fortuna di avere un avversario che non era politicamente lucido. Antonio era un passionale, prese quella sbandata per Cleopatra la regina d’Egitto… E per Augusto fu facile accusarlo di tradire lo Stato con una donna straniera. Poi in un tempo in cui c’era bisogno di pace Augusto fu un politicante molto abile nel presentarsi come il mediatore. La storia politica italiana dall’Unità ad oggi dimostra che nei periodi di crisi viene sempre premiato l’equilibrio. Peccato che spesso sfoci nel trasformismo: Augusto stesso perseguì il sistema di compromessi con i gruppi senatoriali in auge nella tarda repubblica». Non da ultimo, secondo Cardini, anche una singolare coincidenza: «La nascita di Cristo sotto Augusto ha fatto sì che perfino la Chiesa perpetuasse il suo mito: anche sant’Ambrogio aveva una predilezione per lui».
Luciano Canfora, docente emerito di Filologia classica all’Università di Bari, è cauto: «Stiamo parlando di un uomo che visse 77 anni di cui almeno 57 al potere riuscendo a morire nel proprio letto: una cosa inaudita per la storia di Roma. Ma divise già i suoi contemporanei. Tacito ci rivela che alla sua morte una parte esaltava colui che aveva finalmente messo fine alle guerre civili e restituito la pace. E un’altra parte diceva che tutta la carriera era stata fondata sull’inganno con l’uso strumentale di Cesare come padre da vendicare. Probabilmente avevano ragione entrambi. Augusto restaurò certo forme statali di tipo repubblicano allontanandosi dalla deriva monarchica o comunque dittatoriale in cui si era cacciato Cesare. Anche gli stessi titoli che Ottaviano si fece attribuire come augustus (uomo che ha auctoritas), pater patriae ... sono tutte formule che alludono alla sua posizione dominante ma che non violavano la legalità. Però la sua restaurazione repubblicana fu un trucco. Controllava le leve del potere attraverso forme più o meno legittime ma dilatate all’inverosimile». Qualche anno fa Canfora ha ricostruito la conquista del potere di Augusto in un libretto dal titolo significativo La prima marcia su Roma (Laterza): «In realtà il primo a definirla così fu sir Ronald Syme (1903 - 1989) - spiega Canfora - . A rigore fu Silla il primo ad entrare a Roma con le legioni. Ottaviano lo fece imponendo la propria elezione a console il 19 agosto del ’43: i suoi uomini armati pilotarono le elezioni, fu un colpo di stato legalizzato». E tuttavia il tempo di Augusto passò alla storia come una nuova 'età dell’oro': «Alla guerra subentrò la pace ma fu anche una definizione - precisa Canfora - che lui stesso ordinò agli scrittori e ai poeti dell’epoca. I risultati della politica edilizia di Augusto furono indubbiamente importantissimi. Rimane però un maestro dell’arte politica in quello che essa ha di sommamente ingannevole. Questo nella politica che noi viviamo si coglie molto bene».
Non ci sono invece dubbi per Alfredo Valvo, docente di Storia romana ed Epigrafia latina all’Università Cattolica di Milano: «Augusto fu certamente un uomo fuori del comune. Creativo e abilissimo dal punto di vista del pensiero e della comunicazione. Fu superiore anche a Cesare e ne continuò l’opera. Se Cesare conquistò, Augusto integrò con sapienza di diritto e di governo le province conquistate ponendo le premesse per un’idea di Europa». Valvo non lo nasconde: «Augusto si macchiò di crimini efferati, come nella guerra di Perugia, però bisogna considerare che era il momento iniziale della presa del potere. Certo strumentalizzò la morte di Cesare e ancor più l’adozione ma è vero che Cesare in persona lo aveva nominato suo erede: l’unica possibilità che Augusto aveva di entrare nel gioco era quella di richiamare la morte di suo 'padre' adottivo. E la prima cosa che fece fu ricompensare i veterani di Cesare. Giocò certamente con spregiudicatezza tutte le sue carte politiche, ma era inevitabile. Così come fu abile nella propaganda. Ha dato fiato e continuità all’opera della repubblica che ha
ucciso, ma salvandone la forma». Di gran lunga per Valvo prevalgono i meriti: «Fondò il suo potere non sulla violenza, ma sull’autorevolezza. Già quand’era ventenne spiccava per la sua acutezza e abilità politica. L’età dell’oro fu un capolavoro di intelligenza politica. Fu lui a favorire la nascita dei grandi circoli culturali come quello di Mecenate e a raccogliere copiosi frutti dalla collaborazione di grandi poeti, da Virgilio a Orazio (se pur repubblicano convinto). Propulsore di cultura alla maniera di un principe rinascimentale, ridiede un volto anche religioso alla città di Roma innalzando ben 82 templi. Fu, in apparenza, il più religioso degli imperatori e fece votare leggi in favore del matrimonio e a protezione della famiglia. Rimase sempre fedele alla moglie, Livia, sebbene fosse una donna difficile e temibile. Ma Augusto credeva nel matrimonio, anche per rispondere a una gravissima crisi demografica. Nonostante le ombre dalle quali il suo lungo regno non fu esente rimarrà per sempre un modello in politica per fermezza e capacità di rispondere alle esigenze del bene comune».
«Avvenire» del 3 agosto 2014