23 agosto 2014

I diritti umani sono figli del sacro, non dei Lumi

di Hans Joas
Uno dei dibattiti più frequenti, ma anche più sterili, verte sulla domanda se i diritti umani siano da ricondurre a origini religiose oppure umanistico-secolari. Un’opinione convenzionale, non tanto nella letteratura scientifica, quanto nel vasto pubblico sostiene che i diritti umani siano emersi dallo spirito della Rivoluzione francese, e che questa a sua volta sia l’espressione politica dell’Illuminismo francese, il quale era per lo meno anticlericale, se non apertamente anticristiano o nemico della religione. Secondo questo modo di vedere, i diritti umani evidentemente non sono il frutto di una qualche tradizione religiosa, ma assai più la manifestazione di un’opposizione contro l’alleanza di potere tra Stato e Chiesa (cattolica) o contro il cristianesimo nel suo complesso.
Tra questa visione convenzionale e un umanesimo secolare c’è una sorta di affinità elettiva, come tra le convinzioni dei pensatori cristiani, principalmente cattolici, del XX secolo e una grande narrazione alternativa. I sostenitori di questa visione si concentrano su tradizioni intellettuali e religiose che risalgono molto indietro nel tempo. Essi affermano che la strada per i diritti umani è stata aperta dall’idea della persona umana come ci viene presentata dai Vangeli, e dall’elaborazione filosofica di questa ispirazione religiosa in connessione con un concetto personalistico di Dio avvenuta fin dai tempi della filosofia medioevale [...].
Va da sé che le due rappresentazioni della storia ora menzionate non sono le uniche possibili, come anche non esistono soltanto l’umanesimo secolare e un’interpretazione auto-incensatoria e trionfalistica del cattolicesimo, l’uno di fronte all’altra. Esiste anche una sorta di posizione di compromesso, laddove si afferma che certamente nell’Illuminismo può avere prevalso un’auto-comprensione anticristiana, ma i suoi motivi più profondi non sono altro che una conseguenza dell’enfasi cristiana sull’individualità, la sincerità e l’amore del prossimo (o la compassione). Ma da questa prospettiva non si arriva a tenere conto delle ulteriori varianti che assumono maggiore rilevanza in certi ambiti nazionali o confessionali. È molto più fecondo aprire una nuova via, che si allontana da questa situazione del dibattito, da definirsi infruttuosa [...]. Tuttavia, benché distorca la realtà storica, soprattutto quella del XVIII secolo, essa ha almeno il vantaggio di voler spiegare un’innovazione culturale a partire dalle condizioni dello stesso periodo storico in cui tale innovazione ha concretamente avuto luogo. Al contrario, il resoconto alternativo non riesce a spiegare in modo convincente perché un determinato elemento della dottrina cristiana, che nel corso dei secoli si è accordato con i più diversi regimi politici – i quali non erano basati sull’idea dei diritti umani – improvvisamente avrebbe dovuto diventare la forza dinamica dell’istituzionalizzazione di tali diritti. La maturazione nel corso dei secoli non è una categoria sociologica. E anche se passiamo dalla considerazione dei precursori nell’ambito della storia dello spirito al piano delle tradizioni istituzionali – campo in cui la tesi suona piuttosto plausibile – non possiamo dimenticare che le tradizioni non si perpetuano da sole, bensì soltanto attraverso le azioni degli uomini.
Anche volendo ammettere, almeno retrospettivamente, che l’idea dei diritti umani può essere intesa in una certa misura come ri-articolazione moderna dell’ethos cristiano, dobbiamo essere in grado di rispondere a una domanda: perché ci sono voluti 1700 anni affinché il Vangelo, sotto questo aspetto, fosse tradotto in forma giuridicamente codificata? Inoltre, io sono molto diffidente nei confronti della suddetta posizione di compromesso. Appare un po’ come un gioco di prestigio il rivendicare una certa cosa come una conquista della propria tradizione, quando al momento del suo sorgere i rappresentanti della stessa tradizione l’avevano invece condannata.
siste un’alternativa a tutto questo confuso intreccio. Propongo d’interpretare la fede nei diritti umani e nell’universale dignità umana come il risultato di uno specifico processo di sacralizzazione. Si tratta di un processo in cui ogni singolo essere umano viene sempre più, e in modo sempre più fortemente motivante e sensibilizzante, considerato sacro. E questa comprensione viene istituzionalizzata nel diritto. Il termine “sacralizzazione” non può essere inteso come se avesse esclusivamente un significato religioso. Anche contenuti secolari possono assumere le qualità caratteristiche della sacralità: evidenza soggettiva e intensità affettiva. La sacralità può essere attribuita a contenuti nuovi; può migrare o essere trasferita, anzi l’intero sistema della sacralizzazione valido in una cultura può essere sovvertito. La tesi chiave è che la storia dei diritti umani sia appunto la storia di un processo di sacralizzazione, e precisamente una storia della sacralizzazione della persona [...].
Se i diritti umani si rifanno certo a tradizioni culturali come quella cristiana, ma pongono tali tradizioni entro un nuovo quadro di riferimento, allora valori come quello dell’universale dignità umana e diritti come i diritti umani non sono “rinchiusi” in una tradizione determinata. Sono accessibili anche a partire da altre tradizioni ed entro nuove condizioni, nella misura in cui a tali tradizioni riesca un’analoga reinterpretazione creativa di sé stesse, come indubbiamente è riuscita a quella cristiana. Perciò queste tradizioni religiose o culturali possono anche trovare nuovi elementi in comune tra loro, senza lacerarsi al loro interno.
«Avvenire» del 14 agosto 2014

Nessun commento: