28 settembre 2014

Némirovsky sulla conoscenza dell'umanità

Un brano tratto da Suite francese (Adelphi, p. 341)
di Irène Némirovsky
Lucile pensò che l'idea di quella nuova guerra li riempiva, visibilmente, di tristezza, ma proibì a se stessa di approfondire troppo i loro sentimenti: non voleva cogliere sull'onda dell'emozione qualche sprazzo di ciò che si sarebbe potuto chiamare «il morale del combattente». Era quasi un lavoro da spia, e lei si sarebbe vergognata di compierlo. Del resto, adesso li conosceva abbastanza per sapere che si sarebbero comunque battuti bene! ... Insomma, disse fra sé, c'è un abisso fra il giovane che vedo qui e il guerriero di domani. E' risaputo che l'essere umano è complesso, molteplice, diviso, misterioso, ma ci vogliono le guerre o i grandi rivolgimenti per constatarlo. E lo spettacolo più appassionante e più terribile, pensò ancora; il più terribile perché è il più vero: non ci si può illudere di conoscere il mare senza averlo visto nella tempesta come nella bonaccia. Solo chi ha osservato gli uomini e le donne in un periodo come questo può dire di conoscerli - e di conoscere se stesso.
Postato il 28 settembre 2014

12 settembre 2014

Scuola: il rischio noia se si perde la meraviglia

di Alessandro D’Avenia
​L’alternativa a una scuola noiosa non è una scuola divertente. Non esiste una scuola spensierata e senza fatica (e il digitale non la renderà tale), ma questo non vuol dire che debba essere noiosa (e il digitale ci darà una mano). La vera alternativa è una scuola interessante. Interesse (essere dentro) vuol dire coinvolgimento con tutto l’essere (corpo, cuore, testa, spirito) da ciò che viene presentato o rappresentato (dal corpo, cuore, testa, spirito dell’insegnante). L’interesse è perfettamente compatibile con l’impegno e la fatica, cosa che la noia non potrà mai ottenere, e neanche il divertimento che si esaurisce nella consumazione dell’esperienza.
Ma che cosa ha il potere di attraversare l’essere da dentro in tutti i suoi strati? Quale presenza riesce a muovere la persona nella sua completezza chiedendole di andare oltre?
Ancora una volta chiedo la soluzione alla lettera ricevuta da una giovane lettrice:
«Ho 15 anni, ho fatto il primo anno al classico e più l’inizio della scuola si avvicina più vado in crisi. Non mi fraintenda: io ho una sete di apprendere smisurata, la mia curiosità più viene alimentata e più cresce. Io ho veramente voglia di studiare. Ma se da una parte i miei occhi ardono di scoperta, dall’altra i miei professori, con occhi di ghiaccio assolutamente inespressivi, parlano con disinteresse alla materia, senza amore verso ciò che fanno. Come facciamo a mantenere vivo l’interesse e a realizzare noi stessi in una scuola che insegna senza amore? In una scuola che pensa solo a classificarci tutti tramite voti, voti e ancora voti? Ho avuto la fortuna di assistere a una lezione di un poeta, mentre parlava di Leopardi e parafrasava alcuni suoi versi, non si poteva che rimanere lì, incantati dal suo sapere, meravigliati da come la faceva diventare parole per noi, stupiti da come "un’altra poesia da studiare" si trasformasse in "questa poesia parla di me, la voglio approfondire!" Questo è ciò che io chiamo imparare».
Occhi ardenti (movimento) contro occhi di ghiaccio (immobilità). Interesse (esserci in pienezza) contro disinteresse (esserci se non in parte). Che cosa ha di diverso quell’uomo che parla di Leopardi: incanta, meraviglia, porge la poesia come un pane buono, spinge l’eros di sapere ad andare oltre, a lanciarsi nell’alto (altum in latino è l’aperto e il profondo al tempo stesso) dell’Ulisse dantesco, per dissetare la sete dei sensi in veglia.
L’alternativa ad una scuola noiosa è una scuola "meravigliosa", cioè capace di destare l’interesse attraverso la meraviglia. Già Aristotele descriveva così questo sentimento capace di unificare sensi, cuore e mente: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere». Sorprende la somiglianza tra la descrizione di Aristotele e le parole della quindicenne: questa cosa mi interessa, cioè riguarda tutto il mio essere da dentro, non posso perdermela, devo andare oltre.
Ma dobbiamo capire meglio cosa sia questa meraviglia, per poterla recuperare e suscitare. La definisco un sentimento misto: sorpresa unita a pace. Qualcosa di nuovo si impone alla nostra attenzione e spiazza la nostra intelligenza, ma non basta. Siamo chiamati a fermarci, sostare, osservare, andare alle fonti di quello stupore che ci ha afferrato, per attingerne la causa. Veniamo trasformati da passanti distratti in spettatori curiosi e attenti, per questo prima parlavo di (rap-)presentazione del sapere (il professore agisce il sapere).
La generica sete di sapere che caratterizza ogni essere umano attraverso la meraviglia diventa interesse specifico: dal bambino affascinato dal gioco nuovo che cerca di aprire per capire come faccia a muoversi, al ricercatore che osserva al microscopio un grumo di cellule.
La realtà è una promessa di sapere che aggancia attraverso la meraviglia, capace di generare una ricerca (un girare attorno all’oggetto: ri-circa) di tipo sapienziale o scientifico, come dice Aristotele.
Il compito di ogni insegnante è proprio quello di presentare nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi occhi, la meraviglia verso l’oggetto in esame. Non esistono aspetti della realtà poco interessanti, esistono casomai persone poco interessate.
Quest’estate ho ascoltato da un amico appassionato di pesca il racconto di una notte passata a prendere i pesci-lama. Alla fine del racconto volevo sapere come erano fatti questi pesci, volevo capire il tipo di esca e di amo che aveva usato, volevo andare a pesca, che non è stata mai al centro dei miei interessi, ma la meraviglia del suo racconto mi aveva cambiato in pochi minuti.
L’insegnante è un narratore-attore della meraviglia verso ciò che insegna, provoca eros manifestando il suo eros. L’attenzione dell’allievo agganciata si porta verso la cosa e non verso l’insegnante, altrimenti non si tratterebbe di meraviglia ma di seduzione. Il sapere somiglierà ad un regalo impacchettato: un pacchetto ben fatto segnala qualcosa che è per me e solo per me, una sorpresa. Nessuno però si accontenta del pacchetto: va oltre, apre, riceve, ringrazia.
Questo non vuol dire che avrò una classe di occhi ardenti e assetati, ma semplicemente che darò a coloro che saranno pronti la possibilità di accendersi. Solo al fuoco della meraviglia cuore e mente vengono unificati e lanciati oltre. Solo chi coltiva questo fuoco in sé riesce a insegnare, altrimenti con il tempo si riduce ad assegnare.
«Avvenire» dell'11 settembre 2014

11 settembre 2014

Giovanni Raboni, l’ultimo dei maestri

Dieci anni fa moriva lo scrittore milanese, che fu anche critico letterario e teatrale del «Corriere della Sera». Impegno, passione civile e senso di appartenenza
di Paolo Di Stefano
Non è nostalgia affermare che Giovanni Raboni rappresenta un mondo letterario definitivamente tramontato: quello di un impegno totale e irrinunciabile, a 360 gradi, nella poesia, nella saggistica, nella critica militante in primis letteraria, ma anche teatrale e cinematografica (per «Avvenire»), nella traduzione di classici pressoché «impossibili» da tradurre (Baudelaire, Proust); senza dimenticare l’instancabile attività editoriale, la redazione, la promozione e la direzione di riviste e collane. La sua è una presenza che sin dagli anni Cinquanta, subito dopo la laurea in Storia del diritto romano (1955) — e ben prima di lasciare definitivamente le consulenze legali che hanno occupato Raboni professionalmente fino al 1964 — copre un arco di interessi pressoché illimitato, tenuto sempre ai massimi livelli di originalità e di rigore, sia pure sempre con quell’understatement che caratterizzava il suo «abito mentale e morale» (Mengaldo).
Nessuno, persino nella sua generazione, è riuscito a fare altrettanto. Basta un semplice elenco, anche parziale, delle date, delle funzioni, degli impegni per rimanere sbalorditi (e lasciando da parte i titoli delle sue opere): le collaborazioni alla «Fiera letteraria», a «Letteratura», ad «aut aut», al «Verri», la fondazione nel ’62 di «Questo e altro», il periodico letterario diretto da Dante Isella, Vittorio Sereni e Niccolò Gallo (ma il factotum era Giovanni), il contributo attivo a «Paragone» e ai «Quaderni piacentini» dei suoi amici Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio, Goffredo Fofi. E poi ancora: «Nuovi Argomenti» e la rubrica televisiva Tuttilibri; la consulenza, la redazione e infine la dirigenza nella Garzanti; per oltre un decennio l’attività recensoria per «Tuttolibri», il supplemento della «Stampa», e poi per il «Messaggero» e per il settimanale «L’Europeo» per un altro decennio. E ancora nuove consulenze: Mondadori e Guanda, per cui sarà chiamato a dirigere le collane «Poeti della Fenice» e «Quaderni della Fenice», e l’organizzazione con Antonio Porta del festival Milanopoesia, dall’85 al ’92. E non è tutto, ci vorrebbero due o tre vite ad altri per eguagliare, anche solo numericamente, la bio-bibliografia di Raboni.
Con quell’aria vagamente pigra, di apparente nonchalance, ha abitato il suo tempo con un’energia impressionante, fino alla collaborazione al «Corriere» dal 1988, al Consiglio d’amministrazione del Piccolo dal 1998, dopo un decennio di assidua militanza nella critica teatrale. Energia alimentata da una spinta civile che era il suo solo modo di intendere la letteratura, se si pensa che anche la sua produzione poetica, pur sembrandone a volte lontana, conserva sempre intenzioni «politiche» (non di rado anche senza virgolette). Erano le sue «devozioni perverse» (titolo di un suo libro), che andavano dalla rivendicazione dei valori letterari contro ogni luogo comune ereditato stancamente alle utopie politiche: ostinazioni che sentiva irresistibili e che sollecitavano l’editorialista su tutti i fronti a coniugare l’esperienza di studi tecnici di diritto, di economia politica e di scienze delle finanze con lo sguardo fermo (etico) sulla realtà, tratto saliente del poeta Raboni. Del resto, Raboni sembra aver preso molto sul serio il primo suggerimento rivoltogli, giovanissimo da Ungaretti, in una letterina del 1955: «Lavori», gli scrisse il vecchio poeta dopo aver ricevuto uno dei suoi componimenti d’esordio. Raboni aveva 23 anni e da allora il suo percorso sarebbe stato molto lungo, e pieno di soddisfazioni umane oltre che intellettuali, grazie agli incontri con critici-poeti-maestri diventati nel tempo suoi amici fedelmente ammirati. Tra questi Carlo Betocchi, che già nel 1953, premiandolo come giurato in un concorso poetico, vide molto lontano parlando di «ispirazione, vera e profonda» e consigliandogli di custodire i suoi indubbi «doni» «con la virtù, con lo studio, e con l’amore intenso che Lei ha per la verità». Mettiamo pure nel conto il cattolicesimo pastorale del poeta fiorentino, ma davvero è nostalgia segnalare come allora le relazioni tra giovani e vecchi erano alimentate da un rispetto reciproco, nell’ammirazione da una parte e nella generosità e fiducia dall’altra?
Raboni è stato forse l’esempio più illuminante di una generazione (l’ultima?) di maestri che hanno saputo coltivare i maestri ricevendone in cambio non effimeri attestati di stima, ma riconoscenza vera e insieme nutrimento diretto. Lo dicono molte lettere inedite che segnalano quanto quella rete di scambi, quella conversazione familiare e continua, cui Raboni non è mai venuto meno, fosse «nobilissima ed entusiasmante», come scrive Massimo Onofri chiudendo l’introduzione a una raccolta di recensioni raboniane per il «Corriere». Un’epoca davvero finita, aggiunge Onofri. Si direbbe che è finita la sua «pesantezza» e la sua serietà, lasciando spazio alla leggerezza e alla condivisione istantanea. Se nel ’62 Elio Vittorini si scomoda a scrivere al trentenne Raboni che il suo saggio su Rebora è un «intervento coi fiocchi», «ottimo sia come impostazione, sia come argomenti», si capisce oggi che non si tratta di complimenti rituali, essendo rimasto, quel contributo inizialmente consegnato a «Questo e altro», una pietra miliare per comprendere i versi del poeta-presbitero milanese. Altro che balletti in maschera da Prima Repubblica delle lettere. No, no. È tutta sostanza: materia viva, di confronto umano e intellettuale, da cui si evince la centralità conquistata da Raboni nel dibattito letterario e nella critica. Già nell’ottobre 1968, un tipo difficile come Andrea Zanzotto gli scrive che il saggio di «Paragone» sull’«antimateria» de La beltà traccia «le coordinate più attendibili per un discorso che, qui accennato soltanto, resta tuttavia il più definitivo». E nel ’71 il sessantenne Attilio Bertolucci, in stato di eccitazione dopo la lettura, si esprime così a proposito di un superlativo intervento raboniano in cui spiccavano la straordinaria inventività metaforica del critico e insieme il suo acume analitico: «immaginavo una cosa bella e profonda, ma quanto ha saputo scrivere sul “dissanguamento”, sulla metrica, è arrivato anche più in là di Pasolini, di Lavagetto, pure molto belli. È più in là di tutti».
L’entusiasmo suggerisce inoltre allo stesso Bertolucci una bellissima autocritica esistenziale: «La mia riluttanza a pubblicare (in volume), per anni, adesso, mi pare un po’ stupida. Voglio dire che il mio timore di non venire inteso, pur fondato in un certo senso, non teneva conto della vita, che va avanti, che a un certo momento ti fa trovare vicino, vicinissimo chi ha saputo, potuto, intendere tutto. E con una chiarezza che tu, implicato e inerme, non avevi né hai». E poi: Caproni, Sereni, Penna, Luzi, Giudici, Fortini, scambi che parlano di poesia come fosse vita e viceversa. Lunghe e lunghissime fedeltà radicate nella parola, nel rispetto del lavoro degli altri, nella cura della poesia (propria e altrui) intesa come totalità esistenziale e dunque senza risparmio di energie. Gira la testa a pensare all’abisso che si è aperto tra il tempo di Raboni, pur cronologicamente così vicino, e il nostro. Ha detto Giovanni, in un’intervista radiofonica del 2003: «in una poesia ho scritto che “cerco” a volte “di immaginare la felicità dei morti” e penso che anche per i morti la felicità sia la vita». Glielo auguriamo (a lui, ma anche a noi).
«Corriere della sera» del 9 settembre 2014

10 settembre 2014

Nel vivere e invecchiare abbiamo lo stesso eroismo che ebbe Achille

Soltanto la normalità della vita quotidiana ci rende eroici ed esemplari
di Javier Gomá
L’Antichità ha visto nel sublime una forma del bello e quindi si è potuto parlare propriamente di una «bellezza sublime». Solo più tardi, durante l’Illuminismo (Burke e Kant), è stato istituito un antagonismo radicale tra il bello e il sublime [...] da cui è risultato un concetto di sublime non solo senza forma (informe, deforme, brutto) ma anche senza luce, privo cioè di claritase pertanto tendente all’oscuro, al sinistro, al morboso e persino al demoniaco. L’etimologia latina di «sublime» (sublimis) designa ciò che è molto alto e «sublimare» ha significato dapprima l’atto di sollevare o elevare: sublime, insomma, si riferisce a ciò che è grande per altezza morale ed estetica. La modernità ha ignorato il concetto originario di grandezza come elevatezza e lo ha sostituito con un altro che lo assimila all’intensità del sentimento o al gigantismo dei grandi numeri (spettacolari opere di architettura, impensabile numero di stelle e galassie nell’universo). Questo cambiamento da una grandiosità qualitativa ad un’altra puramente quantitativa ha tralasciato quell’esemplarità che, per il suo carattere straordinario, è soprattutto degna di essere generalizzata socialmente mediante l’imitazione e di permanere nel tempo
Tuttavia, una modernità senza grandezza esemplare è una modernità senza gloria. Possiamo sentire, pensare e rappresentare il sublime nella cultura attuale? Molti direbbero no. La sola menzione del sublime suscita un cenno di scetticismo se non un’espressione di sarcasmo. Il cinismo imperante avrebbe sradicato dal mondo contemporaneo la possibilità stessa del grandioso; l’egualitarismo democratico avrebbe imposto un livellamento generale che lo esclude. [...] È proprio vero? Longino già si chiedeva perché nella sua epoca scarseggiassero i poeti sublimi e trovava due ragioni. La prima: l’assenza di libertà democratiche durante l’Impero romano: «La democrazia è un’eccellente nutrice di geni e solo al suo interno fioriscono i grandi uomini di lettere». La seconda: la brama smodata di ricchezza e di piaceri dei suoi contemporanei, i quali, dominati dall’indifferenza, non guardavano verso l’alto e non intraprendevano mai nulla degno di emulazione e di onore. Cosa dovremmo dire del nostro tempo? In questo inizio di XXI secolo la democrazia si è fermamente stabilizzata in Occidente, ma ovunque regna l’indifferenza verso il sublime. Perché?
Solo per brama di ricchezza e di piaceri? Senza un anelito di elevazione verso l’eccellenza, le culture si impoveriscono irrimediabilmente. Ogni epoca propone un ideale — greco, romano, medievale, rinascimentale, illuministico, romantico — che, come espressione suprema dell’essere umano, attrae per la sua perfezione, illumina l’esperienza individuale e mobilita l’entusiasmo latente facendo avanzare il gruppo verso una meta. Una società senza ideali — e il sublime è una forma di ideale — è condannata fatalmente a non progredire, a ripetersi e infine a decadere. [...] Il mio libro Esemplarità pubblica (del 2009; tradotto in italiano nel 2011 da Armando Editore) propone una teoria dell’esemplarità egualitaria, alternativa all’esemplarità aristocratica che, in modo implicito, è stata egemone per millenni. Di questo libro interessa qui evidenziare solo uno dei suoi corollari antropologici. Nella concezione dell’individuo moderno l’ideale dell’esemplarità è stato sradicato perché la modernità si immagina un io autonomo, libero dall’imitazione e dalla guida di altri. Secondo questa concezione inoltre ciascun io è consapevole della propria irripetibile unicità e manca perciò assolutamente di quegli elementi comuni tra le persone che stanno a fondamento dell’imitazione di un modello esemplare. In effetti, a partire da Herder ci siamo abituati a trovare il carattere dell’individualità umana solo in ciò che è differente, speciale, peculiare di ciascuno di noi: essere un individuo consiste nell’essere distinto, unico nel proprio genere; fare esperienza significa sperimentare la propria irripetibile singolarità. La rappresentazione moderna della soggettività prende in prestito le proprietà che Kant attribuiva esclusivamente al genio artistico: collocarsi al di sopra delle regole comuni, essere creatore e legislatore di se stesso.
La medesima avversione per ciò che è comune si trova anche nel Saggio sulla libertà di Stuart Mill, che presenta l’originalità del singolo come il «sale della terra». Loda la ricchezza, la varietà e pluralità delle forme dell’io e disprezza quanti operano secondo i costumi collettivi, per i quali sarebbe richiesta unicamente «la facoltà di imitazione delle scimmie». Per lui, i costumi — questo elemento imprescindibile di socializzazione e civilizzazione — sono il patrimonio della massa, della «mediocrità collettiva», rispetto alla quale raccomanda all’individuo di praticare l’«eccentricità». L’ideale dell’esemplarità richiede una rappresentazione della soggettività che, anziché mettere l’accento sulla eccentricità che ci distingue, assuma invece positivamente ciò che è comune e che tutti condividiamo in quanto uomini. [...]
Tutti partecipiamo di un’esperienza comune, generale, oggettiva che si riassume nell’universale «vivere e invecchiare» degli uomini; un’esperienza fondamentale che, pur essendo la mia esperienza, è però anche un’esperienza generale. Siamo tutti ugualmente mortali e questo essere mortali ci è essenziale. Tutti noi che sulla terra viviamo e invecchiamo facciamo ugualmente parte dei «comuni mortali» e di fronte a questa esperienza decisiva qualunque differenza si mostra irrilevante o secondaria. La condizione egualitaria e universale di essere dei «comuni mortali» crea i presupposti antropologici dell’esemplarità. Solo se vi è un sostrato comune che lega gli uomini tra loro diventa possibile l’imitazione di un modello, e questo accade perché l’esemplarità contiene per sua natura una chiamata alla ripetizione e può essere ripetuto solo l’esempio di qualcuno con cui si ha o si può avere qualcosa in comune. È quanto accade anche ad Achille, l’eroe del mito [...]. La sua esperienza fondamentale (quella di apprendere ad essere mortale) è anche la nostra. Achille non solo è il protagonista di un bel mito antico, [...] ma racchiude il paradigma permanente dell’umano. La sua gloria è anche la nostra. Tutti noi, uomini e donne, [...] abbandoniamo come Achille il gineceo della nostra adolescenza e ci imbarchiamo sulle navi greche con gli altri eroi in direzione di Troia, dove moriremo nella lotta per guadagnarci un nome, quello della nostra individualità personale plasmata nell’elemento della mortalità condivisa. Questa traversata di mare simboleggia l’impresa, comune a tutti gli uomini in tutti i tempi e luoghi del mondo — impresa permanente e mai del tutto compiuta — di apprendere la nostra condizione mortale.  
La sublime grandezza di Achille si ripete poi in tono più quotidiano ma altrettanto eroico nella vita di ciascuno di noi. Quell’io che avanza nel cammino e passa dal gineceo a Troia è il nuovo Achille, l’attualizzazione contemporanea dell’eroe esemplare, la reiterazione del migliore fra gli uomini. Lo stadio etico oltrepassa l’universo della fase precedente, ma ne conserva un momento estetico che, coniugato con l’eticità, illumina l’individualità umana. Questa, l’individualità, capolavoro dello stadio etico, costituisce l’esperienza comune, generale e normale dell’uomo in quanto uomo. Montaigne replica anticipatamente a Mill e alla sua dottrina dell’io eccentrico quando, nell’ultima pagina dei suoi lunghi Saggi annota una delle sue convinzioni più profonde: «Le vite più belle sono, a mio parere, quelle che si adattano al modello comune e umano con ordine ma senza miracoli, senza stravaganza». In realtà, ogni uomo che nasce, lavora, si fa una casa e muore, partecipa dell’intensità e della drammaticità del dilemma di Achille. Contempliamo questo io quotidiano — capofamiglia responsabile e professionista competente — che invecchia compiendo il suo dovere senza stravaganza e torna a casa ogni giorno dopo una giornata monotona e prevedibile, sì, ma utile per la comunità: in questo io della medietà, di un’esemplarità senza rilievo, risplende la gloria dell’antico eroe. Perché in questo io si deve giustamente ammirare l’atto eroico di assumere la propria mortalità, anche se questo eroismo per lo più è velato dal sereno compimento del proprio dovere e dall’assenza di manierismo propria dello stadio etico. Anche se il romanticismo, facendo del genio artistico il modello dell’individualità moderna, ci ha resi incapaci di cogliere la nobile semplicità e la serena grandezza dell’etica normale, la più alta missione dell’uomo consiste nel meritare questa normalità. Lungi dal non essere all’altezza dell’uomo, non ne esiste al mondo una più grande e degna di lui, e costituisce un compito così vasto da richiedere un’intera vita.

Testo della Lezione magistrale che Javier Gomá terrà a Modena, domenica 14 settembre alle ore 11.30 (traduzione dallo spagnolo a cura di Michelina Borsari)
«Corriere della sera» del 9 settembre 2014

09 settembre 2014

Usa: tramonta la tutela sul web, così la Rete rischia la deriva illiberale

L'allarme
di Massimo Gaggi
Arriva la svolta sui domini internet: più libertà o più potere alle dittature?
Molti pensano che l’evidente ritrosia di Barack Obama a continuare a svolgere, da presidente e comandante militare della maggiore potenza planetaria, il ruolo di gendarme del mondo ha contribuito a farci scivolare tutti in una situazione caotica, con la moltiplicazione di conflitti, violenze, atti barbarici. Ribelli, terroristi e regimi dittatoriali approfittano del vuoto di potere, della assenza di un credibile guardiano dell’ordine internazionale, per cercare di modificare gli equilibri a loro favore.
Analisi solo in parte fondata (Obama è comunque costretto a operare in un contesto molto più complesso di quello che avevano davanti i suoi predecessori «imperiali», da Eisenhower a Reagan, e ha alle spalle un’America economicamente più debole e stanca di guerre), ma di certo il presidente ha peccato per eccesso di prudenza. E adesso molti cominciano a chiedersi se lo stesso errore non lo stia facendo anche nella gestione del sistema di distribuzione dei domini di Internet, la linfa vitale dell’era digitale. L’amministrazione del Web fin qui è stata affidata all’Icann, una società privata non profit di diritto americano basata in California con un «board» di 16 membri scelti tra esperti e le altre associazioni del settore. Un sistema certamente anomalo ma che ha funzionato e ha garantito, fin qui, la libertà della Rete dalle interferenze governative. Salvo quella del governo Usa: Icann opera sulla base di un contratto con il dipartimento del Commercio Usa che però, fin qui, si è limitato a esercitare un discreto ruolo di sorveglianza. Dopo molte pressioni internazionali, anche in sede Onu, nel marzo scorso però Obama ha deciso di rinunciare a questo privilegio: contratto e sorveglianza Usa cesseranno dall’autunno 2015.
L’organismo tecnico dovrebbe difendersi da solo dalle interferenze dei governi espresse da un comitato intergovernativo che ha un ruolo solo propositivo. Ma un mese fa alcune regole sono state silenziosamente cambiate e ora per l’Icann diventa più difficile ignorare le richieste dei vari regimi mentre nel comitato intergovernativo, spesso riunito all’improvviso e con molte assenza, sono già emerse proposte liberticide. Il rischio che Paesi come Cina, Russia e Iran mettano in piedi maggioranze per avallare censure della Rete nei loro Paesi o addirittura per oscurare vicini «scomodi» (Hong Kong o l’Ucraina) sta diventando consistente. Ora sono le stesse imprese del Web, la Internet Commerce Association, a lanciare l’allarme.
«Il corriere della sera» del 9 settembre 2014

02 settembre 2014

Sette europei su 10 vedono film senza pagare

di Alessandro Longo
La pirateria non è un'anomalia di sistema, un cancro da estirpare: è diventata una prassi consolidata, seguita dalla maggior parte degli utenti internet, e rischia di essere persino funzionale allo sviluppo della creatività e dell'industria cinematografica. Emerge questa realtà - che contrasta le tesi dagli alfieri del copyright - se mettiamo assieme una serie di studi fatti negli ultimi anni da diversi istituti di ricerca, università e dalla Commissione europea.
Cominciamo da quest'ultima: un suo studio di quest'anno (http://bookshop. europa. eu/it/a-profile-of-current-and-future-audiovisual-audience-pbNC0414085) rivela che il 68 per cento degli utenti europei vede film gratis su internet (streaming o download). Non solo: il 50 per cento di loro dice di non pagare i film perché non può permetterselo per tutti quelli che intende vedere. Questa affermazione suggerisce che i film visti gratis non sono davvero una perdita di introiti per l'industria, visto che quelle persone non potrebbero mai pagarli (semmai, rinuncerebbero a vederli se non potessero farlo gratis). Ne deriva anche che la disponibilità di film gratis aiuta a diffondere la cultura cinematografica tra i ceti meno abbienti, che non avrebbero alternative alla pirateria. Sempre secondo lo studio europeo, infatti, la maggioranza degli utenti che vede gratis i film ha un reddito inferiore ai mille euro al mese e sono tipicamente giovani e con un alto livello di istruzione. E' l'identikit di una generazione che nonostante la laurea è sotto occupata e può soddisfare i propri interessi culturali anche (o solo) grazie alla pirateria.
Ci sono poi studi secondo cui la pirateria fa da volano alla visione legale dei film (al cinema e in dvd), a mo' di veicolo pubblicitario non convenzionale. Il primo che va in questa direzione è stato di Gfk, commissionato dall'industria cinematografica tedesca per certificare la crescita delle vendite nelle sale dopo la chiusura del portale pirata Kino.to. Studio mai pubblicato ufficialmente perché aveva scoperto una verità opposta; ma è finito comunque su internet per vie traverse e quindi ormai è di dominio pubblico (http://www. repubblica. it/tecnologia/2011/07/29/news/pirateria_cinema-19494246/). In seguito, uno studio dell'università del Minnesota ha aggiunto che non è possibile provare un rapporto causa-effetto tra pirateria e calo degli incassi cinematografici (http://papers. ssrn. com/sol3/papers. cfm?abstract_id=1986299).
Più di recente, una ricerca congiunta tra la ISM (International School of Management Campus München) e l'università di Copenhagen ha analizzato l'effetto della chiusura di Megaupload (celeberrimo sito pirata) e ha trovato evidenze interessanti. Ha rilevato l'aumento del business solo per i maggiori film blockbuster e nessun vantaggio per la maggioranza dei film. Per quelli di nicchia, non commerciali, ha scoperto che anzi l'impatto è stato negativo, perché secondo i ricercatori la pirateria fa in questo caso da cassa di risonanza per le opere di qualità poco pubblicizzate, "diffondendo l'informazione dai consumatori che hanno poco interesse a pagare a quelli che invece ne hanno molto", si legge nella ricerca. Inoltre, sempre nell'ottica del rapporto tra pirateria e diffusione della cultura, uno studio dell'Authority inglese Ofcom (http://stakeholders. ofcom. org. uk/market-data-research/other/research-publications/user-generated-content/) dice che una normativa copyright troppo rigida soffoca le nuove forme di creatività su internet, che spesso usano e reinventano opere protette da diritto d'autore.
Forse anche tra l'industria cinematografica sta cominciando ad attecchire l'idea- fino a ieri eretica- che la pirateria non sia una pratica del tutto avulsa dal normale business: nell'apprendere che il suo Il Trono di Spade è stato la serie tv più piratata dell'anno, il Ceo di Time Warner Jeff Bewkes, gran guru della televisione americana, l'ha definita "un'ottima notizia", "meglio che vincere un Emmy", arrivando ad aggiungere che la pirateria ha fatto da "passa parola"; ha concordato con lui il registra della serie, David Petrarca.
Qualcuno che potrebbe avere buoni motivi per attaccare la pirateria è anche Netflix, la principale piattaforma online di film (legali) al mondo. La pirateria gioca infatti sullo stesso terreno di Netflix (internet), ma è gratis e quindi potrebbe essere il peggiore avversario sleale che si possa immaginare per una piattaforma legale. Ebbene, il chief technology officer di Netflix Jon Nicolini ha detto che la pirateria è la minaccia numero uno per il business; ma invece di invocare leggi draconiane ha suggerito che per combatterla bisogna sforzarsi di migliorare l'offerta legale di film. "Il modo migliore di combattere la pirateria non è sul piano legale o giudiziario, ma dando buone opzioni legali, ai consumatori". Ragguardevole posizione da parte di una piattaforma che è nota per la sua ampia offerta di film e serie tv, ben più generosa di quella disponibile su analoghi servizi in Italia. Dove, per altro, Netflix ha appena dichiarato che arriverà solo nel prossimo anno, più tardi rispetto ad altri Paesi europei, in primo luogo perché da noi sono poco diffuse le connessioni internet veloci. Siamo il Paese con la peggiore copertura in fibra ottica e le connessioni più lente (in media, tra gli utenti), secondo la Commissione europea.
Insomma, tutti questi elementi suggeriscono un rapporto complesso e non scontato tra il cinema e la pirateria. E che le soluzioni possono essere trovate in azioni diverse dalla guerra ai pirati. "Fa fede l'esempio del mercato musicale, dove grazie alla maturità dell'offerta legale e dello streaming, la pirateria si è ridotta a una nicchia. E dove il mercato è tornato a crescere, dopo dieci anni di crisi, anche in Italia, come riportano i dati di Fimi", dice Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto d'autore e storico promotore di campagne contro la normativa copyright dell'Agcom (Autorità garante delle comunicazioni), poi in effetti approvata e in vigore dal 31 marzo (http://www. repubblica. it/tecnologia/2013/12/12/news/regolamento_copyright_scheda-73437061/). "Di conseguenza si può prevedere che anche per il cinema la pirateria diverrà sempre più un fenomeno di nicchia. E questo, senza adottare sistemi maldestri e invasivi come quelli della delibera Agcom", conclude Sarzana.
«la Repubblica» del 18 agosto 2014

Ma scaricare gratis resta illegale

di Marco Fagnocchi
La pirateria digitale, i film e scaricati o guardati in streaming gratis da piattaforme che appaiono e scompaiono su internet, non solo non stanno danneggiando le grandi case di produzione cinematografiche, ma, anzi, secondo alcuni studi, starebbero facendo lievitare la presenza di spettatori nelle sale e aumentare gli introiti delle majors. Così le leggi repressive, le minacce di multe, arresti, blocchi di internet, oltre che inapplicate, si stanno dimostrando obsolete se non, addirittura, dannose. I pirati del web, insomma, stanno salvando Hollywood. Un paradosso. Perché la pirateria resta illegale. Chi scarica abusivamente film e brani musicali rischia ammende, così come chi li mette a disposizione sulla rete.
I nuovi mezzi di distribuzione hanno sempre creato allarme, in campo audiovisivo anche di più. In principio ci fu il "Betamax case". Universal e Disney denunciarono la Sony perché, siamo agli inizi del 1970, la compagnia giapponese mise sul mercato uno strano marchingegno che insieme al televisore avrebbe rivoluzionato la vita dello spettatore americano: il videoregistratore. Gli Studios, spaventati dalla possibile diaspora dalle sale, corsero ai ripari. Dopo diversi anni (1984) si arrivò alla storica sentenza: il videoregistratore non violava il diritto d'autore. Anzi, in quel periodo non solo le sale cinematografiche non avevano risentito di questa nuova apparecchiatura, ma il mercato dell'home video aveva portato nelle tasche degli Studios la metà degli introiti di tutta l'industria cinematografica. Passati ormai più di 30 anni lo schema sembra ripetersi nuovamente.
Internet sul finire degli anni '90 comincia ad affermarsi come nuovo strumento tecnologico, apolide, e, per gli Studios, apocalittico. Nascono siti di sharing, streaming, download. Basta andare su piattaforme peer to peer quali Emule, o affidarsi ai torrent sparsi nella rete e il gioco è fatto. Tutto è catalogato, schematizzato, fornito comodamente a casa, velocemente e soprattutto gratuitamente. Due i siti più famosi: The Pirate Bay e Megaupload.
È tra le pieghe di questi due siti che si combatte una battaglia non solo economica e giuridica, ma anche morale e culturale. Da una parte il sito svedese fondato da tre giovani hacker scandinavi si ispira alla nobile filosofia della free culture: la cultura è un bene di tutti e chiunque deve accedervi in maniera libera e gratuita. Dall'altra, non si può fare a meno di notare come il sito del tedesco Kim Donton presenti dei numeri da capogiro. 150 milioni di utenti registrati, 50 milioni di utenti unici al giorno, un introito che si aggira sui 200 milioni di dollari annui. Nel 2012 il Dipartimento di giustizia americano sequestra il sito e il povero Kim viene arrestato. L'accusa è violazione del copyright e pirateria. Si parla di perdite per l'industria cinematografica americana intorno ai 500 milioni di dollari.
Ma come si può calcolare scientificamente l'impatto della pirateria sull'industria cinematografica? Chi può assicurare che il ragazzo che ha visto uno dei tanti film a disposizione gratuitamente in rete, sarebbe andato in sala, o avrebbe comprato il dvd? E' questo uno dei punti più delicati dell'intera vicenda.
Come sostiene Marco Scialdone, avvocato in Diritto dell'Informatica e di internet, non esiste e non può esistere una diretta relazione tra pirateria senza scopo di lucro e mancato guadagno perché le ricerche commissionate dalle majors non sono scientificamente attendibili. Se si analizzano i dati infatti si può notare che, negli ultimi anni, gli incassi al botteghino non sono diminuiti, arrivando nel 2014 a segnare uno dei record storici dell'industria cinematografica. A dirlo è la Mpaa, l'ente americano formato dalle stesse compagnie cinematografiche che più di tutti in questi anni hanno combattuto la guerra alla pirateria. Dal 2009 al 2014 su scala internazionale si è registrato un incremento del 33% degli incassi per le sale. Un dato che si spiega anche con la ascesa di paesi quali il Brasile, la Russia e la Cina che sono, paradossalmente, sempre secondo la Mpaa, alcuni degli stati in cui la pirateria digitale è più forte.
Insomma le sale cinematografiche non sono mai state così in salute. E la fascia che va di più al cinema è proprio quella compresa tra i 12 e i 39 anni, quelli che teoricamente sanno meglio di chiunque altro come scaricare un film e hanno ogni tipo di supporto (smartphone, tablet, computer, smart tv) a portata di mano. Anche in Italia la situazione, almeno per quanto riguarda il botteghino e l'affluenza del pubblico, smentisce le cassandre. Si passa da un numero di spettatori che si aggira intorno ai 14 milioni nel 2005, quando la pirateria su internet era ancora contenuta, ai circa 22 milioni di spettatori del 2012 (fonte Cinetel).
L'aspetto più eclatante è che leggendo i dati riportati da alcuni studi indipendenti (quindi non commissionati dalle major) come quello realizzato dallo stato olandese, si scopre che chi scarica illegalmente è un cliente più attivo. Va di più al cinema, compra più dvd o film on demand di chi invece non scarica. Ad analoghe conclusioni arriva la ricerca di Ipsos Allemagne e lo studio fatto dalla Fondazione Luigi Einaudi. Anche Riccardo Tozzi, presidente dell'Anica, l'associazione nazionale industrie cinematografiche audiovisive, analizza molto lucidamente questi dati confermando che il problema non è tanto nelle sale cinematografiche, ma nel home video: la fetta della grande torta che ha subito maggiormente l'avvento di internet.
Effetti paradossali del mercato: la tecnologia che una volta veniva attaccata e portata in tribunale, viene oggi difesa dalla stessa industria. A risentirne, dopo la chiusura del colosso Blockbuster, sono sicuramente le piccole realtà locali, le videoteche. Se le vendite di dvd nel 2012 registravano un calo del 12% a fronte di un fatturato di 420 milioni di euro, il noleggio arrivava a perdere circa il 30%. Resistono in pochi, pochissimi, come Videobuco, nel quartiere San Lorenzo di Roma. Aperto ormai da circa trent'anni, punto di riferimento per universitari e appassionati di cinema, sembra un piccolo atollo nel mare digitale. Ma il mercato audiovisivo è in continuo fermento e le majors stanno finalmente accorgendosi di come anche questa nuova tecnologia possa essere sfruttata.
È ormai dal 2007 che nascono e si affermano realtà quali Hulu, iTunes/Apple tv, Google Play e realtà nostrane come Chili Tv, Cubovision (oggi diventata Timvision). Sono piattaforme che permettono di vedere in streaming, sul proprio smart tv, un catalogo sempre più aggiornato e facilmente consultabile di film di ogni provenienza, tutto in maniera legale. Basta abbonarsi o pagare il singolo film di volta in volta. I prezzi contenuti hanno lasciato, inizialmente, intimoriti le major che a fronte del calo dell'home video non vedevano nel così detto electronic home video, una valida alternativa. Ma i dati in continua crescita (solo rispetto al 2011 si segnala un incremento del 47% del fatturato proveniente da questa fascia di mercato) hanno portato molte case di produzione a ripensare le proprie strategie. Non ultima l'Anica, che ha siglato un accordo con My Movies creando un canale streaming a pagamento (Anicaondemand).
Su tutti svetta il colosso di Netflix (non ancora disponibile in Italia), una streaming tv americana presente anche in diversi paesi europei che ha registrato nel mese di luglio i 50 milioni di abbonati con un fatturato che si aggira intorno ai 3,5 miliardi di dollari. Insomma ancora una volta la tecnologia inizialmente osteggiata sta offrendo all'industria la possibilità di nuovi e facoltosi incassi. Assumono così dei contorni leggermente sfuocati le leggi che via via negli anni si sono susseguite per contrastare il fenomeno della pirateria.
Clamoroso è stato il caso della cosiddetta "legge dei tre colpi" francese che prevedeva il blocco a tempo indeterminato dell'accesso ad internet a chiunque fosse stato trovato per ben più di tre volte a scaricare o guardare un qualsiasi file coperto dal diritto d'autore. La norma è stata ritenuta incostituzionale e trasformata in una multa tra i 60 e i 150 euro. Dopo 4 anni, milioni di euro spesi per tenere in vita l'Hadopi (l'ente francese che deve individuare i casi di pirateria e far rispettare la legge), i casi sanzionati sono stati tre. Non meglio è andata alla Russia di Putin, presente nella così detta black list della Mpaa dei paesi con il più alto tasso di pirateria mondiale. Il capo del Cremlino a marzo 2014 si era abbandonato all'amara constatazione che le misure anti download erano state un totale fallimento e che il sistema di controllo doveva essere profondamente ripensato.
L'Italia da parte sua rincorre decreti e normative da anni, sfociate nel maggio del 2014 nel tanto agognato decreto Agcom che ha portato l'industria e la stessa Fapav a gridare alla fine dell'illegalità. Come potrà controllare chiunque abbia una connessione, i siti di streaming e di sharing "pirati" sono ancora lì. Cineblog cambia dominio di continuo non appena uno dei suoi tanti siti viene oscurato. Realtà come TnT Village continuano a fornire gratuitamente migliaia di film, spesso anche introvabili, a chiunque si colleghi al sito, combattendo quella che viene definita "una battaglia etica" che si rifà né più né meno ai principi della free culture. Il decreto Agcom si segnala, appena entrato in vigore, per aver fatto rimuovere dal sito ufficiale della Regione Marche un video che mostrava le bellezze architettoniche della regione.
In America intanto vengono sviluppate due realtà che imprimono un'accelerazione inarrestabile alla condivisione di qualsiasi tipo di file. Popcorn Time che viene ribattezzato il Netflix pirata, subito chiuso e poi riaperto e che dà la possibilità di vedere in streaming migliaia di film utilizzando i file torrent, e il sito TvStreamcms che opera probabilmente il passo definitivo in questa strenua battaglia tra il diritto alla condivisione e la necessità che venga riconosciuto a chi produce un ritorno economico. TvStreamcms permette a chiunque ne abbia voglia di aprire il proprio sito di file sharing. Come sostiene il ceo di Dreamworks, allora, la partita è ancora lontana dall'essere conclusa. Le case di produzione dovranno sicuramente ripensare i propri modelli distributivi, dare la possibilità di fruire un film sul dispositivo che si preferisce (lo schermo della sala, il televisore o il proprio smartphone) e adeguare i prezzi alle differenti piattaforme. Internet più che uno spazio da combattere si prospetta, così, come l'ennesima frontiera da dover definitivamente conquistare: l'ennesima corsa all'oro su cui piantare la propria bandiera.
«la Repubblica» del 18 agosto 2014