12 ottobre 2014

Zamagni: Alle radici del pensiero unico

Intervista
di Edoardo Castagna
Da formula di cortesia – o d’amore, o di piaggeria – quel «ogni tuo desiderio è un ordine» è diventato principio giuridico. Non c’è gruppo di attivisti che non reclami il riconoscimento per legge dei propri desiderata, elevati a “diritti”. E guai a contestare queste pretese, magari nel nome di valori che guardano appena un po’ più in là dei gusti personali: scatta immediatamente il “politicamente corretto”, che censura chiunque osi porre un argine tra desiderio e diritto. Una reazione da “totalitarismo culturale”, da “pensiero unico”: «Un’espressione – illustra l’economista Stefano Zamagni – relativamente recente e collegata al concetto sviluppato dal politologo inglese Irving Janis fin dal titolo del suo saggio del 1972 Victims of groupthink (“Vittime del pensiero di gruppo”). Nel pensiero di gruppo, gli individui che lo compongono credono, senza alcuna costrizione, alla verità di quanto elaborato da loro stessi o da chi riconoscono come autorità di riferimento».

Come ci si arriva?
«L’idea, nata studiando le sette religiose, si è poi estesa anche ad altri ambiti. Oggi per esempio i jihadisti sono espressione di un pensiero di gruppo: sono veramente convinti di combattere per la giusta causa, e lo fanno non perché minacciati o retribuiti, ma per seguire l’indicazione del califfo. Ebbene, tra gli anni ’80 e i ’90 questo concetto ha trovato spazio anche in economia, con l’affermazione del modello teorico neoliberista. Inizialmente le cose andavano talmente bene che c’erano economisti (anche premi Nobel) che ritenevano concluso il loro compito, giacché ormai avevano trovato un modello capace di diffondere ovunque il benessere e la stabilità dei mercati».

Erano gli anni in cui Francis Fukuyama teorizzava la «fine della storia» dopo il trionfo dell’Occidente capitalista sul comunismo...
«Sì, ma non solo: il pensiero unico neoliberista aveva dalla sua anche altre due armi di seduzione. La prima era l’eleganza dello strumento matematico. La matematica ha un forte potere persuasivo: quando un teorema “è dimostrato”, l’uomo della strada finisce per crederci, dimenticando che – come ricordano i matematici seri – ogni teorema è valido solo sotto determinate assunzioni di partenza. In ambito finanziario il “modello di Black-Scholes-Merton” è raffinatissimo dal punto di vista matematico e “dimostrava” come i mercati fossero in grado di auto-correggersi tendendo alla stabilità».

E l’altra “arma”?
«Il successo immediato: grazie a quel modello fino al 2007 si sono fatti soldi a palate. La supposta solidità teorica sembrava confermata dai fatti, e la conferma dei fatti contribuiva a diffondere il modello. Naturalmente oggi sappiamo che conteneva errori».

Quali?
«Il principale fu assumere che il rischio finanziario sia sempre esogeno, che cioè provenga sempre dal fattori esterni al sistema: lo rendo tanto più piccolo, quanto più aumento il volume delle transazioni finanziarie. È così che è nata la bolla speculativa dei derivati, sulla quale siamo franati perché invece il rischio era endogeno e quindi aumentava via via che aumentava lo spazio della finanza. I derivati sono stati creati in obbedienza al pensiero unico: per aumentare il numero delle transazioni».

E adesso a che punto siamo?
«Il re è nudo: quella teoria non è più in grado di suggerire linee d’azione. Ci troviamo in un limbo, ma io sono ottimista: la storia del pensiero economico insegna che dall’incertezza entro poco nasce un nuovo pensiero. Fu così nel ’700, quando dopo il mercantilismo si affermarono l’economia civile in Italia (Genovesi, Filangieri, Dragonetti) e l’economia politica in Scozia (Smith); fu così dopo la crisi del 1929, quando emerse Keynes. Oggi anche ex difensori del pensiero unico – come i Nobel Stiglitz, Phelps e Krugman – hanno cambiato direzione, per non parlare di Amartya Sen, che ha cominciato a criticarlo fin dagli anni ’70... Si sta preparando una nuova rivoluzione scientifica».

Ma se il politico continua a delegare al tecnico le proprie decisioni, non c’è il rischio di cadere subito negli stessi errori?
«L’economia deve essere autonoma, ma non separata dall’etica e dalla politica. Occorre ribaltare il principio del “Noma” (Non-overlapping magisteria) teorizzato fin dal 1829 da Richard Whateley, che sostiene che “i magisteri non si sovrappongono”, che per essere scienza l’economia non deve mescolarsi all’etica e alla politica. Business is business. Per evitare di riprodurre il pensiero unico bisogna garantire il pluralismo, invece negli ultimi decenni i fondi di ricerca, le cattedre universitarie, gli spazi di pubblicazione andavano solo agli “allineati”. Questa è dittatura del pensiero».

Una dittatura che non si limita al campo economico...
«Vale per l’economia come per le scienze sociali, il diritto, la bioetica. L’individualismo libertario tende a far credere che le preferenze degli individui abbiano lo stesso statuto dei loro diritti: se preferisco diventare donna e generare un figlio devo poterlo fare, se preferisco scegliere come dev’essere fatto il mio bambino devo poterlo fare... Eppure non c’è solo il “diritto” dell’adulto che decide: c’è anche, per esempio, quello del nascituro. Che non viene mai riconosciuto, perché non c’è nessuno che possa “negoziare” in vece di chi non ha voce».

Ma questa è la teoria liberale classica: mediazione tra diritti che confliggono…
«I vecchi liberali erano persone serie... John Stuart Mill diceva che le preferenze devono avere sfogo fino a quando compatibili con i diritti di tutti. Era lo spirito della prima rivoluzione dell’individualismo, quella illuminista di fine ’700. A fine ’900 invece la seconda rivoluzione ha imposto il pensiero unico di un individualismo non più liberale ma libertario – per il quale le preferenze dell’individuo hanno lo stesso statuto dei diritti. Ed è reso ancor più pericoloso dal fatto che oggi la tecnologia consente di ottenere quello che un tempo non si poteva nemmeno immaginare».
«Avvenire» dell'8 ottobre 2014

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