28 agosto 2015

Da Seneca a Petrarca, l'ozio è necessario (se si vuole agire bene)

di Alfonso Berardinelli
Quando incombe il caldo estivo, la pressione sanguigna si abbassa e le forze diminuiscono, è naturale che si pensi all'ozio, come riposo, piacere e anche dovere. Niente di meglio perciò, che dedicarsi un poco al De otio di Seneca, senza dimenticare che Petrarca, tredici secoli dopo, progettò di scrivere un De otio religioso: i suoi modelli di filosofia morale erano Cicerone e Seneca, a cui doveva essere aggiunto sant'Agostino, in mancanza del quale un umanesimo cristiano moderno non sarebbe stato realizzabile. Il De otio di Seneca viene riproposto dalla «Piccola biblioteca della felicità» (edizioni La Vita Felice), a cura di Stefano Costa e con testo latino a fronte. In tutto cinquanta paginette di preziosa e tascabile sapienza antica, utile se non altro a capire che per alcuni millenni, nella storia delle culture umane, la vita contemplativa occupò un posto centrale nella riflessione etica. Per gli occidentali moderni, da un paio di secoli, si tratta di agire e agire bene. Per le culture tradizionali non era neppure concepibile l'azione giusta e buona se non era compiuta in uno stato d'animo buono e giusto. L'ozio contemplativo era il solo modo per raggiungere una tale condizione, che non solo è necessaria per agire a fin di bene, ma è di per sé attiva anche se apparentemente inerte.
L'inattiva lotta quotidiana contro i fantasmi e i demoni mentali richiede virtù eroiche. Gli opposti non si escludono: «Una cosa non esiste senza l'altra – dice Seneca –: né uno riflette senza attività, né l'altro agisce senza riflessione». I filosofi stoici Zenone, Cleante e Crisippo non hanno guidato eserciti, né assunto cariche pubbliche, né proposto leggi: sono vissuti in modo da proporre regole di vita valide «non per un singolo Stato, ma per tutto il genere umano». Hanno «fatto molto, sebbene non facessero nulla nell'attività pubblica».
Del resto (sono queste le conclusioni di Seneca) il filosofo è difficile che trovi uno Stato adatto a lui. Atene condannò Socrate per empietà e più tardi costrinse Aristotele a fuggire perché accusato di essere stato maestro di Alessandro Magno. «Se non si trova quello Stato che noi ci prefiguriamo, la vita ritirata comincia a essere necessaria a tutti». Avendo a che fare con il suo allievo Nerone, Seneca sapeva di che parlava.
«Avvenire» del 10 luglio 2015

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