05 settembre 2015

Chi si occupa dei primi della classe?

Scuola
s. i. a.
«Non c’è solo il disagio degli studenti più scarsi e con maggiori difficoltà. Ma anche dei più bravi, dei più dotati. Può sembrare strano o assurdo, ma anche loro sono vittime del sistema scolastico. Vedono sprecare il loro talento, a volte non riescono a individuarlo, trascinandosi per inerzia, travolti dalla noia».
C’era una volta l’"Elogio del ripetente", in un fortunato libro di Eraldo Affinati. C’è oggi «l’elogio del primo della classe» di Edoardo Albinati. Lo scrittore romano (fra i suoi ultimi libri, le lezioni di Oro colato, Fandango, e Vita e morte di un ingegnere, Mondadori), dal 1994 insegnante nel carcere di Rebibbia, sposta l’asticella verso… l’alto. La sua «non è una provocazione e nemmeno uno slogan, né tantomeno una posizione retriva», piuttosto un focus sugli studenti che fanno i conti con un sistema scolastico che «non li aiuta trovare la propria strada, a individuare la propria vocazione».

Albinati, c’è bisogno di un elogio dei primi?
«L’elogio è un genere letterario canonico. Lo si è dedicato a una figura classica del mondo della scuola, come il ragazzo difficile, l’ultimo, il ripetente. Io lo applico al primo della classe, come suo simmetrico: il ragazzo dotato e talentuoso, che a sua volta, spesso, è un ragazzo fragile e problematico. Con la paura di mostrare il proprio talento, di essere considerato diverso. E rischia di diventare il bersaglio dei compagni, ma anche di certi insegnanti che non riescono ad aiutarlo, che temono la sua precocità e intelligenza».

Mi vengono in mente le pagine del libro Cuore ...
«L’ho riletto non tanto tempo fa. È formidabile. C’è il famoso Franti, il cattivo, il ribelle. Talmente screditato da tutti che Umberto Eco lo ha poi scelto polemicamente per il suo spiritoso elogio. Io ho ripensato allora a De Rossi: un ragazzo splendido, generoso, disponibile ad aiutare gli altri. Del primo della classe ci si è fatta un’immagine odiosa o ridicola, fin dai film sui cosiddetti “Nerd”: lo scienziato pazzo in erba, la ragazza che studia e basta e non si concede svaghi. Invece sono soltanto ragazzi, come tutti da stimolare. Da pungolare. Nella scuola italiana si rinuncia quasi sempre a farlo. Eppure appena esci da quelle mura, ad esempio, nelle attività sportive, trovi allenatori che ti fanno sputare sangue e pretendono l’impossibile».

La scuola non aiuta i talenti?
«L’idea che l’ingegno si sviluppi da solo è falsa. Le passioni, nei ragazzi di 12, 13 anni, vanno coltivate. Adesso. Se nessuno se ne accorge, si perderanno nel campo incolto. Rischiano di non incontrare mai la loro vera vocazione. Invece quando si manifesta un interesse va sviluppato, perseguito subito, senza aspettare la fine di un ciclo scolastico o l’università o chissà quando. Certi ragazzi tendono a nascondere il talento: chi ama la matematica (magari è un giovane Tartaglia) non lo manifesta per il timore di essere preso come zimbello. A quanti grandi ricercatori sarà successo?».

Una vita da studente disadattato, per poi scoprire…
«Esatto. Chiamiamolo allora “elogio del disadattato di talento”. Una definizione ancora più calzante…».

La scuola pensa invece all’italiano “medio”. Il suo è un dito puntato contro gli insegnanti?
«Nessun dito puntato. È un compito erculeo, che una singola persona fa fatica a reggere sulle sue spalle. Mi rendo conto che a volte è una necessità mirare al centro, ma dovremmo cercare di lavorare di più sulle ali, su quelli che non ce la fanno e su quelli che ce la farebbero molto meglio. Il mio è un appello diretto agli insegnanti. Penso che molti di loro lo facciano già. E i migliori docenti soffrono per non riuscire a fare di più».

I primi della classe possono essere a loro volta uno stimolo per gli altri?
«È l’aspetto centrale: se il primo della classe cresce, anche gli altri ne trarranno beneficio. Il lavoro fatto per i più bravi e soprattutto dai più bravi, ricadrà sull’intera classe. Questo a condizione che ci sia una responsabilizzazione nei confronti degli altri. Il calciatore più bravo non è quello che fa tutto da solo, ma il fuoriclasse che trascina la squadra».

Mentre discutiamo di talenti, migliaia di cervelli vanno via dall’Italia…
«Non mi interessa dove abiti il talento. Ci sono movimenti epocali così grandi che non possiamo controllare e se ci sono aree del mondo più attrattive è solo una cosa di cui prendere onestamente atto. Amen. Mi spiace, certo, che questo non avvenga in Italia e nella mia città. C’è, fra l’altro, una tradizione tipicamente italiana di lavorare all’estero, per lo straniero. Pensiamo ai grandi artisti del passato: geni internazionali, quasi apolidi, in fondo. E questo è un aspetto in fondo positivo. Non ho alcuna soluzione per invertire la rotta della “fuga”. Quello che possiamo fare, e sarebbe già tanto, è permettere ai nostri talenti di venire fuori, di esprimersi, e impedire che restino nascosti. Il vero problema è la “depressione” dei cervelli che avviene nelle aule scolastiche. Non mi preoccupa chi si specializza e lavora all’estero nel migliore istituto di matematica o biologia. Mi preoccupa che nell’ora di italiano o di scienze il tredicenne perda tempo e si annoi al punto di odiare la scuola, o peggio, di disprezzarla, come il luogo dove non riuscirà mai a conoscere se stesso».

La scuola è perennemente oggetto di riforme. Adesso siamo alla «buona scuola». Senza entrare in questioni politiche e tecniche, qual è per lei la buona scuola?
«Il vero nemico della scuola è la noia».

Quindi una scuola che non annoi?
«Esattamente. No, forse questo è impossibile. Diciamo allora: dove ci si annoi il meno possibile… Una scuola dove si stia il minimo indispensabile, ma che sia intensa. Dove il succo, il midollo, vengano spremuti durante le ore di lezione e non dopo, a casa, studiando sui libri. La lezione deve essere il momento in cui devono succedere fatti nuovi, esperienze mai vissute prima. Non una routine».

Lei lavora con i detenuti di Rebibbia. Cosa le ha insegnato questa esperienza?
«La differenza fra fatti e parole. Fra le persone come sono e ciò che le persone dicono. Dai detenuti ho imparato a diffidare dalle chiacchiere e avere fiducia nella parola letteraria. Mi sono accorto che persino nella galera, fra i reietti, la parola letteraria, quando è forte, arriva. Così se insegnare Dante o Machiavelli funziona lì, vuol dire che sono dei grandi e che li si può insegnare a tutti. Il valore della letteratura e il valore dell’insegnamento. La galera mi dà la prova provata che questo si può e si deve fare».

E quanto conta il primo della classe in carcere?
«Beh, lì è decisivo. Ne bastano uno o due all’inizio per tirarsi dietro la classe. Senza di loro, finisce tutto prima ancora di aver iniziato».

FESTIVAL
A SARZANA SI LIBERA LA MENTE
Le vittime dell’attuale sistema scolastico non sono solo gli studenti più scarsi, ma anche quelli più brillanti e capaci, che spesso si trovano a dover lottare da un lato con i professori che a loro poco pensano e dall’altro con il giudizio implacabile dei coetanei, giudizio che puntualmente si abbatte su coloro i quali sembrano reagire all’imperante omologazione differenziandosi dalla massa. Temi (anticipati nell’intervista sopra) che lo scrittore Edoardo Albinati affronterà nell’incontro “Elogio del primo della classe”, sabato 5 settembre alle ore 16, nell’ambito del Festival della Mente.
Primo festival in Europa dedicato alla creatività e ai processi creativi, con la direzione scientifica di Gustavo Pietropolli Charmet e la direzione artistica di Benedetta Marietti, si terrà a Sarzana dal 4 al 6 settembre. Sono 38 gli incontri, tra workshop, spettacoli e conferenze, che animeranno le tre giornate del Festival, aperto con la lezione inaugurale di Luciano Canfora. Info e programma completo sul sito www.festivaldellamente.it
«Avvenire» del 1° settembre 2015

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