14 settembre 2015

Perché vogliamo mettere una virgola: i «contenuti» della punteggiatura

s. i. a
La virgola è cordiale e aperta, i puntini di sospensione sono sognanti, il punto, addirittura, è ostile. In un mondo in cui gli sms, i post, e in genere le scritture «social» hanno un’importanza sempre maggiore, anche la punteggiatura è usata per esprimere qualcosa di noi: se abbiamo a disposizione solo 140 caratteri — come accade su Twitter —, occorre che perfino il più piccolo segno diventi «contenuto». A raccontarlo sul nuovo numero de «la Lettura», che resta in edicola per tutta la settimana a 0,50 centesimi, è l’ampio articolo del linguista Giuseppe Antonelli, in cui l’evoluzione dell’interpunzione da ritmica a emotiva è raccontata dalla prima «faccina sorridente» del 1982 a emoticon di oggi. Si può, scrive Antonelli, quasi pensare a una sorta di «oroscopo» dei segni di punteggiatura adatti a ciascuno.
Una forma di libertà che è normale per gli scrittori. «La punteggiatura non esiste in natura, e soprattutto non esiste il punto fermo»: a spiegarcelo è Giovanni Mariotti, scrittore che di ortografia se ne intende, visto che è autore di un romanzo di 220 pagine senza punteggiatura, Storia di Matilde (Adelphi). «Tutto è legato, tutto fluisce. Qualche virgola può anche esistere nella vita, ma siamo noi a desiderare che esistano dei punti. Le feste dell’inizio, il Capodanno, il punto fermo, il lunedì, piccoli desideri umani. Ogni capoverso rinnova il fantasma». Ancora oggi, dice Mariotti, gli capita di scrivere senza punteggiatura: «D’altronde anche il romanzo di Matilde non è nato in modo deliberato: partii solo con l’intenzione di scrivere una bella frase lunga... e poi il resto venne da sè. Il contrario del flusso di coscienza, che tende all’informe».
Ma per giocare con l’interpunzione, bisogna conoscerla bene: chissà se la maggior frequentazione del segno scritto tra post e sms ha migliorato la scrittura, ad esempio a scuola. «Spesso i ragazzi hanno un difetto di ascolto, non hanno il senso del ritmo e quindi ignorano la punteggiatura, che appunto riproduce il ritmo», sospira un professore e scrittore, Alessandro Banda, autore de Il lamento dell’insegnante (Guanda). «Per loro le frasi sono blocchi di testo, o meglio “cluster”, agglomerati interrotti da un punto. Ma sono contento che si riattivino, sui social, certe zone arcaiche della scrittura, come geroglifici, ideogrammi, con gli emoticon. E quando spiego il Manifesto della Letteratura futurista, con il suo “abolire la punteggiatura!”, i ragazzi mi dicono: “Noi siamo Futuristi!”».
«Il Corriere della Sera» del 13 settembre 2015

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