03 ottobre 2015

Martinazzoli: la democrazia è malata

L'analisi
di Mino Martinazzoli
INTELLETTUALE PRESTATO ALLA DC. C’è giustamente un’immagine pensosa di Mino Martinazzoli – l’uomo politico bresciano, più volte ministro e segretario Dc, scomparso il 4 settembre 2011 – sulla copertina de «La legge e la coscienza», il volume appena pubblicato da La Scuola (pp. 128, euro 10,50; prefazione di Tino Bino) che raccoglie tre interventi dello «strano democristiano» dedicati rispettivamente a Mosé, a Nicodemo e alla «Colonna infame». E infatti pure in queste riflessioni – qui pubblichiamo uno stralcio del testo «Mosé: la libertà e la legge» – risalta lo spessore del pensiero di Martinazzoli, sempre alla ricerca dubbiosa delle ragioni anche etiche ed evangeliche del potere politico e non solo preoccupato delle alchimie strategiche della sua gestione. Come scrive nella postfazione Pietro Gibellini: «Era davvero un intellettuale prestato alla politica ... Forse non ha torto chi ha parlato di lui come un profeta».


Giunti a un’epoca della storia che dichiara come diritto la dignità di ogni creatura, non dovemmo indietreggiare. Dovremmo, piuttosto, essere certi che questa è la legge per cui la storia ha un senso e ha una ragione l’avventura umana e ha un fondamento il diritto. Questo voleva dire Antonio Rosmini scrivendo che il diritto altro non è che la persona umana, che non c’è distacco tra l’uno e l’altra, ma identità. Non la persona ha diritto, ma la persona è il diritto.
Ma come tutelare, come garantire l’esistenza concreta, il riconoscimento effettivo, l’espansione serena dei diritti dell’uomo? Con quale forza, con quale persuasione, con quale attitudine pacificatrice, con quale legittimazione? Nel mondo globale, nella geografia dell’ingiustizia e della violenza, nell’urto inestricabile delle ragioni e dei torti, dei bisogni e delle pretese, quale tribunale, quale entità quando tutto congiura perché rimanga fragile, inascoltata, respinta l’idea di una regola comune, di uno jus gentium, di un diritto internazionale che non sia quello della guerra della sopraffazione o, per contro, dell’acquiescenza all’umiliazione che continua là dove continua, all’offesa che continua, là dove continua? A questo disperante assillo non c’è risposta, se non si ritorna alla persona. Questa volta non al suo diritto ma alla sua responsabilità, al modo di intendere il valore impareggiabile della sua libera determinazione. La domanda riguarda l’etica prima che la politica.
A me pare che ci sia un nesso che lega questo problema al nostro modo di intendere il fatto democratico, l’esperienza democratica. Conosciamo bene cosa è costato quel viaggio lungo e penoso, fatto di corsi e ricorsi, di vittorie e di sconfitte; sappiamo quali distruzioni e quante desolazioni hanno portato l’Occidente alla scoperta della democrazia dei moderni. C’è, alla radice, questa rivelazione del cristianesimo intorno alla uguale natura umana degli uomini e alla loro irrevocabile fratellanza. Ma sappiamo come questa idea, che evoca la libertà di tutti e non dei pochi, si sia contaminata e addirittura alterata e corrotta nella terribile vicenda del potere.
Tuttavia, a un prezzo che ci appare quasi incalcolabile, e per una consistenza sempre a rischio, l’esperienza democratica ha guadagnato la sua sorte. L’esperienza meno penosa, la più persuasiva che gli uomini hanno maturato per mettere il conflitto al riparo dalla violenza. Nella sua forma, nella sua struttura la democrazia moderna è il risultato della lotta per la distinzione dei poteri. Origina dalla separazione tra religione e politica e vuole compiersi in un incessante lavoro di delimitazione e di equilibrio di tutti i poteri, quelli dello Stato, dell’economia, della società, delle Chiese.
In un contesto così fertile, la libertà può espandersi e intuire il suo prolungamento nell’esigenza di porre le condizioni perché a nessuno sia negata la sua esperienza. È lo spirito delle democrazie sociali che intendono rimuovere la disuguaglianza che si frappone come ostacolo all’espansione della libertà. Questo incessante lavorio dell’intelligenza umana ha dato frutti, ha ridotto ingiustizie e aumentato gli ambiti di una cittadinanza tendenzialmente universale. Lo Stato del potere e dell’autorità è diventato lo Stato della Costituzione che detta al legislatore il fine e il limite del suo legiferare. L’idea di un patto tra eguali è stata alla base di queste costituzioni. E i padri della rivoluzione americana, i pensatori del federalismo, evocavano l’alleanza di Mosé e scrivevano il nome di Dio nelle Costituzioni.
Ma oggi la geometria del patto si è fatta solo orizzontale, e si declina soprattutto nello schema del contratto. Nella società degli individui, della radicalizzazione del soggetto, la legge della convivenza umana lascia il campo alla totalità del contratto. Lo jus pubblicum, il diritto pubblico, abdica in favore del diritto privato. Se un’idea fondamentale del bene comune non è più pensabile nella società, se la stessa relazione sociale non è più rintracciabile se non nella sua frantumazione, la legge si priva di qualsiasi movente etico e rimane nella sua astratta ma presunta universalità solo per garantire sempre maggiori spazi alla libertà contrattuale degli individui. La legalità, non la ricerca di una libertà giusta e dunque della giustizia, diventa la misura dello Stato democratico, tutto esaurito nella formale legittimità delle sue procedure e delle sue maggioranze. Il punto di approdo sta nell’annullamento della dimensione propriamente pubblica e nella riduzione del politico al privato.
È, a guardar bene, il nocciolo della profezia di Tocqueville sulla decadenza della democrazia. In questa decadenza si annuncia una fragilità, una stanchezza tanto più rischiosa nel tempo di una globalità che allarga, se non governata secondo una ragione umana, gli spazi della sregolatezza e dell’ingiustizia. Proprio di fronte alla sfida più tagliente, lo spirito della democrazia è chiamato a dimostrare la sua grandezza piuttosto che la sua rinuncia. Ma ha bisogno di riconoscere, per farlo riconoscere, il suo valore più intimo. Che si dichiara non nell’aritmetica del contratto ma nel sentimento di un’obbligazione che lega la responsabilità di ciascuno alla sorte intera dell’umanità, al rosario incalcolabile delle creature che hanno camminato, camminano e cammineranno sullo splendore e sul dolore della Terra. La verità di questo legamento ci dice che la libertà di cui disponiamo e il limite che riconosciamo non sono il risultato di uno scambio, ma sono, esattamente il dono intero che abbiamo ricevuto. L’uomo non nasce solo, non nasce in natura ma dentro la società umana. Di questa società è parte per un riferimento di diritti e doveri. Tra questi diritti è certo essenziale quello dell’autonomo dispiegarsi della libertà personale dentro la relazione sociale, il farsi, cioè, dell’autonomia sociale.
Chesterton scriveva che quando gli uomini smettono di credere in Dio, non è che non credano più a niente, credono a tutto. E si spiega anche così lo straordinario potere seduttivo delle tentazioni totalitarie. Un’insidia che può germinare senza bisogno di maturazioni violente nelle fibre profonde di una vita senza durevolezza, flessibile e transitoria nelle due mode, vistosamente esibite negli ipermercati mediatici delle filosofie di stagione sotto l’etichetta accattivante della «libertà di scelta» individuale, un valore rumorosamente celebrato ma più raramente indagato. E intanto diventa friabile il diritto all’esistenza dell’«altro» più debole e il diritto della Terra ad essere abitata, non depredata.
«Avvenire» del 30 settembre 2015

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