05 ottobre 2015

Ruanda, memorie di un medico

Intervista
di Chiara Zappa
Dall’incontro ravvicinato con il genocidio ruandese, la mattanza che ventun anni fa fece sprofondare nel baratro il Paese delle mille colline trascinando con sé forse un milione di vite innocenti, non si può uscire indenni, nel cuore e nell’anima. Lo ha imparato a sue spese Gaddo Flego, che nel giugno del 1994, come operatore di Medici senza frontiere, fu tra i primi occidentali a portare aiuto a chi era riuscito a scampare alla carneficina, iniziata il 6 aprile e ancora in corso in molte zone del Paese. Cento giorni di follia collettiva – ma ben pilotata da gruppi di potere e media – in cui l’odio della maggioranza hutu nei confronti dei tutsi divampò in un massacro sistematico, principalmente a colpi di machete, di almeno 800 mila persone: tutsi ma anche i cosiddetti 'hutu moderati', ossia chi si rifiutò di cedere alla logica assurda della divisione etnica. Una mistificazione dagli effetti disumani in cui trovarono sfogo molte altre motivazioni: dalla volontà di potere alle semplici, letali, invidie dei beni altrui.
Dopo una lunga e faticosa rielaborazione, Flego oggi riesce ad affermare che l’intimità con il male assoluto, quella che in certi momenti sembra pronta a inghiottirti nell’abisso, può almeno insegnarci qualcosa. «Da quell’esperienza tragica ho tratto la ferma consapevolezza che un genocidio è prevedibile e prevenibile, e che dunque, in qualunque situazione e ad ogni latitudine, abbiamo la responsabilità di non sottovalutare i segnali di imbarbarimento della società e di tenere sveglie le nostre coscienze», dice.
Ma al tempo, quando il giovane medico arrivò, nella zona già sotto il controllo del Fronte patriottico ruandese, in una Nyamata spettrale e brulicante unicamente di orfani, l’evidenza in cui si imbatté fu solo quella di un fatto terribile, ormai già accaduto. Un evento che, nonostante alcuni maldestri tentativi di occultarne le prove più schiaccianti agli estranei (i rwandesi ne erano stati tutti, volenti o nolenti, protagonisti), era presente ovunque.
«Le enormi fosse comuni, che sono sempre all’interno dei nostri percorsi, rendono veramente il massacro meno visibile dei cadaveri esposti nella chiesa di N’tarama? La donna che non riesce più a tenere la testa eretta per il colpo di machete che le ha sezionato i tendini del collo non rimanda forse direttamente al gesto di un assassino affaticato dal troppo colpire, a un corpo esanime che cade su un mucchio di cadaveri? Noi ci muoviamo su campi di cadaveri, viviamo tra i sopravvissuti: non occorre investigare per essere consapevoli di questo immane crimine ». Sono alcuni dei ricordi che, due decenni dopo, Gaddo Flego ha deciso di mettere nero su bianco, «forse per l’esigenza di chiudere quel periodo della mia vita – confida – ma anche perché il ricordo di alcuni dettagli rischiava di affievolirsi, e non volevo permetterlo. Volevo rendere, in qualche modo, la mia testimonianza». Ha preso così forma un quaderno di memorie, inviato all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e subito vincitore del premio Pieve Saverio Tutino. Con il titolo Un milione di vite. Un medico ricorda il genocidio in Rwanda, il diario di Flego è diventato oggi un libro (Terre di Mezzo, pagine 128, euro 12,00; postfazioni della scrittrice Esther Mujawayo e del regista Gilbert Ndahayo).
Ed è una fortuna. Perché, come scrive il giornalista Pietro Veronese nella prefazione, fondamentali sono le testimonianze «degli osservatori terzi, ai quali è possibile riconoscere un punto di vista più libero, relativamente meno coinvolto di quello dei sopravvissuti. Poiché la quasi totalità dei residenti stranieri fu evacuata nei primissimi giorni del genocidio, tali testimonianze sono davvero rare». Tra gli aspetti più interessanti del testo del medico non ci sono solo le annotazioni di dettagli che si trasformano – da sé – in atti d’accusa contro l’inefficacia e l’ipocrisia dei rapporti internazionali, le complicità esterne con i
génocidaires, le contraddizioni che non risparmiano il sistema dell’aiuto umanitario, o le menzogne e la propaganda che avvolsero gli eventi del ’94.
Ci sono anche i compromessi quotidiani richiesti a chi è in prima linea, i dilemmi morali e deontologici, lo sconcerto dell’uomo Flego di fronte a situazioni estreme dove l’ordine naturale delle cose sembra rovesciato. Come quando gli capita di curare alcuni bimbi di sei anni che – gli spiega la giovane operatrice dell’orfanotrofio – «hanno voluto togliersi la vita». Ma anche quando, trovato un piccolissimo orfano durante un sopralluogo nei villaggi, lo affida a una suora che «non mi sembra né colpita né contenta, e non mi fa domande. Prende il bimbo che è quasi il tramonto, e il mondo mi sembra così triste che non riesco neanche a capire se sia meglio sopravvivere o morire. Se quello di oggi è un salvataggio, è una salvezza senza gioia…».
Eppure lo sconcerto e lo sconforto, la paura e l’impotenza, l’imperativo arduo della neutralità che popolano queste pagine non sono l’ultima parola. L’incontro con i sopravvissuti ha avuto un senso e un valore. «Tu li hai visti, tu li hai curati, tu li hai ascoltati o almeno hai tenuto loro la mano. Li hai mantenuti in vita attraverso le tue testimonianze », afferma Esther Mujawayo nella postfazione. Soprattutto, anche oggi che il dottor Flego ha scelto «un posto sicuro», è direttore sanitario a Chiavari e non è più tornato in Ruanda, non ha abbandonato la sua lotta. Una lotta condivisa – continua Mujawayo – «per un futuro migliore per i tuoi figli, i miei figli, i figli del mondo, un futuro nel quale un essere umano sia soltanto un essere umano e non debba più sparire dalla faccia della Terra perché è ciò che è».
«Avvenire» del 24 settembre 2015

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