29 ottobre 2016

A scuola di felicità dal mio amico Leopardi

Esce lunedì L’arte di essere fragili, l’ultimo libro di Alessandro D’Avenia: “Il poeta ci insegna ad accettare la paura per potersene liberare”
di Alessandro D’Avenia
Esiste un metodo per la felicità duratura, uno stare al mondo che dia il più ampio consenso possibile alla vita senza rimanere schiacciati dalla sua forza di gravità, senza soccombere a sconfitte, fallimenti, sofferenze, anzi trasformando questi ultimi in ingredienti indispensabili a nutrire l’esistenza? Si può imparare il faticoso mestiere di vivere giorno per giorno in modo da farne addirittura un’arte della gioia quotidiana?
Giunto alla soglia dei miei quarant’anni, tempo fecondo di bilanci, il segreto di quest’arte di esistere senza paura di vivere, o meglio accettando anche la paura, credo di averlo trovato, ed è quanto di più prezioso io abbia. In queste pagine, caro lettore, vorrei raccontartelo, come in una chiacchierata fra amici, magari nella penombra di una sera senza incombenze. Anzi, preferirei che te lo raccontasse l’amico che me lo ha svelato, colui che quando avevo diciassette anni varcò la soglia di camera mia per non uscirne più. Nella nostra stanza facciamo entrare solo chi ha il diritto di vederci scoperti, senza difese, persino nudi. (…)
Pensa, lettore, a ciò che ti sta accadendo adesso, all’atto di sconsiderata fiducia che si consuma nel leggere un libro al fuoco antichissimo e moderno di una lampadina, nella condizione orizzontale del proprio letto: stai permettendo a un estraneo di entrare nella tua notte, il momento in cui abbassi le difese. Con questo gesto affronti la paura del buio e ti rendi disponibile al mistero.
Così è accaduto a me con chi mi ha svelato il segreto de la felicità, l’ultimo a cui avrei pensato, da ragazzo, di concedere la chiave della mia stanza: Giacomo Leopardi.

(...)

Aprirsi al mistero
Leopardi ebbe presa sulla realtà come pochi altri, perché i suoi erano sensi finissimi, da «predatore di felicità». A guidarlo era una passione assoluta. La custodiva dentro di sé e la alimentò con la sua fragilissima esistenza nei quasi trentanove anni in cui soggiornò sulla Terra; per questo ebbe un destino scelto e non subìto, pur avendo tutti gli alibi per subirlo o per ritirarsi da qualsiasi passione. Fu invece un cacciatore di bellezza, intesa come pienezza che si mostra nelle cose di tutti i giorni a chi sa coglierne gli indizi, e cercò di darle spazio con le sue parole, per rendere feconda e felice una vita costellata di imperfezioni.
In queste pagine pongo domande (la letteratura serve a fare interrogativi, non interrogazioni) e rispondo a Leopardi, che mi ha a sua volta accolto amorevolmente nelle sue «stanze» (così si chiamano le strofe delle poesie) scrivendomi lettere accorate e vigorose: questo è un epistolario intrattenuto con lui in uno spazio-tempo creato dall’atto della lettura, lo spazio-tempo della bellezza, che vince sul tempo misurato dagli orologi ed espande la vita come solo amore e dolore, scrittura e lettura possono fare.
Ma questo libro è anche un atto di fedeltà a due dei progetti mai realizzati da Giacomo. Egli avrebbe voluto scrivere una Lettera a un giovane del ventesimo secolo, come accenna nello Zibaldone nell’aprile del 1827, e mi piace immaginare che a ricevere quella lettera sia stato proprio io, nato centocinquant’anni dopo quella nota, nel secolo verso il quale egli si sentiva proiettato. Leggere ciò che un altro uomo ha scritto è entrare in relazione epistolare con lui: lui ci scrive, noi, a distanza di migliaia di ore, rispondiamo. La poesia è un messaggio in bottiglia, che vive della speranza di un dialogo differito nel tempo. Questo è stata per me, adolescente naufrago nella sua stanza, la poesia di Leopardi.

Le età dell’uomo
L’altro progetto che lasciò incompiuto era un poema, in prosa e versi, sulle età dell’uomo. Costretto a vivere più in fretta di tutti noi, per via delle sue condizioni fisiche, Leopardi mi ha insegnato ad accostarmi alle età della vita con parole precise, rendendole così reali e abitabili, e mi ha aiutato a trovare gli strumenti dell’arte del vivere quotidiano in ogni tappa dell’esistenza, identificando il fine per cui esiste e la passione felice che deve attraversarla e guidarla.
Il libro è quindi diviso in sezioni che segnalano i passi dell’esistenza umana e ciò che può illuminarli dall’interno. Leopardi ha distillato, come si fa con gli ingredienti dei profumi, le tappe che ci accomunano tutti, qualunque siano longitudine e latitudine di appartenenza, qualunque sia la «dote» che la vita ci ha offerto. Queste componenti fondamentali dell’essenza della vita le chiamo: adolescenza, o arte di sperare; maturità, o arte di morire; riparazione, o arte di essere fragili; morire, o arte di rinascere. Arte è ciò che chi ha talento per la vita (tutti) può imparare e migliorare giorno per giorno, perché ogni tappa sia illuminata, guidata e riscaldata da un fuoco che non si spegne, quello della passione felice di essere al mondo come poeti del quotidiano e non stremati superstiti o pallide comparse. Non esclamiamo forse, di un momento di gioia: «È pura poesia»?

La semplicità
Queste pagine non contengono soluzioni semplici, perché semplice la vita non lo è mai, e non lo è stata per Leopardi in particolare, ma suggeriscono come un po’ più semplici potremmo essere noi, con uno sguardo più puro sulla vita (…) e la sua possibile felicità, che, come scrive Leopardi, non ne è che il compimento, per raggiungere il quale «è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro» (Zibaldone, 31 ottobre 1823).
Se ti fidi, lettore, prometto di aiutarti a cercare questa vita e a risvegliare questo amore.
«La stampa» del 28 ottobre 2016

18 ottobre 2016

Ceto politico senza qualità

In libreria dal 20 ottobre un saggio di Piero Craveri (Marsilio) critica i partiti della Prima Repubblica
di Paolo Mieli
Dopo De Gasperi sono mancati leader capaci di governare il cambiamento
Nel maggio del 1954, al Congresso di Napoli della Democrazia cristiana, Ezio Vanoni spiegò che l’Italia era ad un bivio: «O continuiamo a procedere», disse, «sulla via della ricostruzione con il necessario rigore» o «il nostro destino potrebbe essere di cadere in condizioni quasi coloniali, dalle quali non sapremmo più riprenderci». I congressisti — impegnati a spartirsi l’eredità politica di Alcide De Gasperi — quasi non prestarono attenzione alle parole di Vanoni. Quelle parole, invece, ben figurano nell’incipit di un libro assai coraggioso, L’arte del non governo. L’inesorabile declino della Repubblica italiana (Marsilio), che Piero Craveri ha dedicato alla storia del nostro Paese negli ultimi settant’anni. Lo studioso è assai severo con i politici del dopoguerra. Definisce «malsicura» la loro conoscenza dell’economia di mercato e ironizza sul «male inteso primato della politica» dietro il quale quei leader cercarono di occultare le loro scarse virtù: si contano sulla punta delle dita le personalità della Dc e dei partiti laici che avevano in curriculum un’esperienza di studio o di lavoro nei Paesi occidentali, cosa che altrove era già consueta dalla fine degli anni Quaranta.
Quale fosse l’opinione diffusa già allora sulla classe dirigente della Dc lo chiarisce una lettera (del 1973) di Cesare Merzagora ad Amintore Fanfani, in cui l’ex presidente del Senato ironizza sul ministro Antonino Gullotti il quale, « non avendo mai sentito il battito di una macchina industriale», si segnala per aver «fatto tutta la sua carriera nella Dc che è soltanto una fabbrica di voti». Alla seconda e alla terza generazione del partito scudocrociato la dottrina sociale della Chiesa lasciò «un alone di socialità che servì soprattutto per giustificare le prassi di “non governo”». Per quel che riguarda l’opposizione, prosegue Craveri, «a sinistra tenne il campo un marxismo, politicamente adulterato nella sua stessa conoscenza teorica». Un marxismo che negli anni Settanta avrebbe per di più avuto «una riviviscenza intellettuale quasi totalizzante, senza riscontro in altri Paesi». Ai socialisti, poi, «mancò quella riflessione di politica economica che gli scandinavi avevano già maturata politicamente negli anni Trenta, i francesi e i tedeschi nel secondo dopoguerra». I comunisti, infine, furono incapaci di «compiere un effettivo mutamento del loro approccio ideologico», e «accostarono altri approdi culturali per addizione, che non è la stessa cosa di un’intrinseca revisione».
Si salva quasi esclusivamente Alcide De Gasperi, al quale è riservata una grande considerazione. Minore quella per la seconda generazione democristiana, minata, ad avviso di Craveri, da una «pochezza di fondo». L’unico personaggio in grado di contrastare lo statista trentino, anzi di combatterlo, fu Giuseppe Dossetti (che, pure, di De Gasperi apprezzava la dirittura morale e l’indipendenza dalla Santa Sede e che, però, «lo considerava il suo opposto»). Gli altri leader Dc valevano molto meno. Ai socialisti italiani degli anni Cinquanta viene mosso in modo esplicito il rilievo di aver «rotto l’unità di classe con i comunisti solo oltre un decennio dopo rispetto a quanto era avvenuto negli altri partiti socialisti europei».
Interessante l’esame di Craveri delle proposte di riforma costituzionale avanzate su tutti i fronti già nella prima legislatura (1948-53), a testimonianza della diffusa consapevolezza che la Costituzione era frutto sì di un «miracoloso compromesso», ma, perché il sistema potesse funzionare, era necessaria quantomeno una radicale messa a registro. Del resto è un socialista, Pietro Nenni, a lamentare che «il vizio segreto di questa Costituzione è il medesimo che si trova a ogni tappa della nostra storia, dal Risorgimento in poi: sfiducia nel popolo, donde la necessità di frapporre fra l’espressione della volontà popolare quanti più ostacoli, quanti più diaframmi possibile». Guido Gonella si trova a perorare la causa di una profonda revisione costituzionale già in una relazione al Congresso nazionale della Dc del novembre 1952.
La sconfitta di De Gasperi nel 1953 segna la nascita di quella che Pietro Scoppola definì «la Repubblica dei partiti». Ma i difetti da «regime oligarchico condominiale» diventeranno evidenti solo 10 anni più tardi, alla prima crisi economica. Nel frattempo è giunta l’ora di Amintore Fanfani, il quale «seppe imprimere all’azione di governo una capacità riformatrice che fu mallevatrice della svolta di centrosinistra». La vocazione dell’uomo politico aretino derivava da «un impulso autoritario, essendo in ciò l’interprete più coerente degli insegnamenti che erano a suo tempo maturati nell’università di padre Gemelli». Però… Craveri, non senza malizia, mette in risalto la distanza che separa la grandezza degasperiana da alcune piccinerie di Fanfani: «Quando si costituì il centrosinistra organico e il bastone della staffetta passò nelle mani di Moro, che con le sue mediazioni ne fu l’effettivo artefice, Fanfani non ci mise molto a dichiarare “reversibili” le alleanze che aveva così tenacemente contribuito a creare».
Gli appare di maggior rilievo la figura di Aldo Moro, «artefice ultimo e decisivo» del centrosinistra, del tutto «insofferente del tatticismo fanfaniano». Moro, a giudizio dello storico, ebbe una consuetudine non estemporanea con il pensiero moderno e non gli fu «estranea la conoscenza dei testi crociani» (Craveri è nipote di Benedetto Croce). Costante fu nella visione di Moro «un orizzonte che abbracciava l’intero sistema politico, di cui la Dc era sì il centro, ma non statico». Più critico il giudizio sul Psi. A proposito di Riccardo Lombardi, che nel 1963 aveva guidato la delegazione socialista per la formulazione del programma del governo di centrosinistra, viene stigmatizzato «quell’indelebile accento anticapitalista che pretendeva essere il suo marchio politico».
Il punto di rottura decisivo nella storia d’Italia del secondo dopoguerra va collocato, secondo Craveri, tra il 1963 e il 1964: con la prima grave crisi congiunturale, va in frantumi il quadro riformatore del centrosinistra (il governo organico con i socialisti, quello con Aldo Moro e Pietro Nenni nella cabina di pilotaggio, era appena nato, nel dicembre del 1963). Da quella crisi si esce con una manovra monetaria e creditizia della Banca d’Italia ed è proprio qui che viene alla luce «l’arte del non governo», nel senso che si smarrisce quasi del tutto qualsiasi impostazione generale di politica economica utile a stabilizzare e promuovere lo sviluppo produttivo. È l’avvio di una politica «in cui in realtà la società era abbandonata a se stessa, ai suoi istinti vitali, positivi o negativi che fossero». E il tutto, di lì a poco, «avrebbe trovato ostacoli gravi e imprevisti». Doveva essere quello il momento per una politica decisa, venne invece la lunghissima stagione del «consociativismo», che prenderà forma parlamentare già dopo il 1964 e forma istituzionale dopo il 1968. Lo Stato programmatore si trasformava in quello che Giuliano Amato ha definito lo «Stato provvidenza». Si salva assai poco di quella stagione. L’unificazione socialista (1966-69) sarebbe stata un’operazione «senza alcuno slancio politico, non andando oltre la razionalizzazione dell’esistente con una forte impronta trasformistica». E lo statuto dei lavoratori sarebbe stato «l’anello più sensibile dell’approdo consociativo da un punto di vista istituzionale». Ricorda Craveri, non senza malizia, che a favore di quella legge (la 300 del 1970) al cui interno era inserito l’articolo 18, votarono persino i liberali, mentre i comunisti si astennero. Già nella seconda metà degli anni Sessanta il sistema spartitorio della Repubblica dei partiti si era stabilizzato «con effetti traumatici sulla politica del bilancio pubblico e del funzionamento complessivo dell’economia». E già nel 1971 il bilancio dello Stato non ha più un avanzo primario, sepolto com’è dalla spesa corrente.
Il governatore della Banca d’Italia Guido Carli (1960-1975) è considerato «la mente direttiva dominante, per più di un decennio, della politica economica italiana». Carli si trovò però «solo» e fu costretto a «gestire un potere non proporzionato al ruolo istituzionale che ricopriva». Sicché dovette assumersi compiti «che costituivano il supporto decisivo alle politiche senza controllo della spesa pubblica a cui la classe politica aveva affidato la tenuta del regime democratico italiano». Craveri riporta un singolare ricordo di Carlo Azeglio Ciampi: «Carli diceva ai ministri “Si fa così e così”, io mi meravigliavo un po’! A un certo punto capì che oramai la spesa pubblica aveva assunto ritmi vertiginosi, con la Banca d’Italia che non poteva negare il finanziamento, perché sarebbe stato come disse lui stesso un “atto sedizioso”».
Giudizi assai più lusinghieri sono quelli dell’autore sul successore di Carli, Paolo Baffi. E su Beniamino Andreatta, che ebbe l’intuizione di dividere il Tesoro dalla Banca d’Italia. Così come su Ugo La Malfa ad un libro del quale — Intervista sul non governo, a cura di Alberto Ronchey (Laterza) — è ispirato il titolo di questo saggio. Giudizio positivo anche su Giorgio Amendola, l’unico nel Pci che chiedeva al suo partito un impegno di fondo per «spegnere l’inflazione». Considerazioni negative invece nei confronti di Giulio Andreotti. A Giuseppe Saragat viene rimproverato di aver innescato lo scandalo «risibile» che costrinse Felice Ippolito a dimettersi dal Comitato nazionale per l’energia nucleare: «Gli interessi ultimi che probabilmente lo spinsero a ciò stavano in chi non voleva che l’Italia si rendesse nel futuro più indipendente dal mercato petrolifero internazionale». Riserve vengono espresse anche sul segretario del Pci Enrico Berlinguer, qui considerato un politico di assai corta visuale talché, secondo Craveri, non si può in alcun modo parlare per l’epoca di «riformismo comunista».
Bettino Craxi è dipinto come un capace sparigliatore animato da motivazioni condivisibili, ma sprovvisto di un disegno politico che fosse dotato di un «ultimo costrutto». Il Psi è descritto come «costantemente in ritardo sui tempi». L’aggiornamento della cultura socialista, osserva Craveri, fu «lento e travagliato, maturò solo in una parte esigua della dirigenza politica del partito… e inclinò definitivamente verso una nuova impronta di tipo socialdemocratico — quella che la Spd in Germania aveva acquisita già nel 1959 a Bad Godesberg — soltanto con la segreteria Craxi, quando la classica formula socialdemocratica iniziava in Europa il suo tramonto». Quanto poi al Craxi presidente del Consiglio (1983-1987), Craveri lo giudica come «l’ultimo leader italiano che cercò di fare una politica estera con un profilo nazionale». Ma, in politica interna, ne rileva la contraddittorietà nell’essersi «consegnato nelle mani della Dc». Anche se va detto che, in campo comunista, né la «scialba segreteria di Natta», né quella «più velleitaria di Occhetto» gli offrirono plausibili alternative.
Elogiativo Craveri è anche nei confronti di Marco Pannella e delle battaglie radicali per i diritti civili, ma si sente in obbligo di mettere in risalto quello che gli appare il limite della loro politica: il «decisivo impulso radicale», osserva, mai avrebbe raggiunto i suoi obiettivi senza l’appoggio delle forze laiche e socialiste. «Fu infatti il complesso di questi partiti a farsi interprete di una tradizione civile, già incardinata negli altri Paesi democratici dell’Occidente». E la Dc sostanzialmente li lasciò fare. Dopodiché, però, i laici per un verso e i radicali per l’altro non seppero trasformare la grande esperienza degli anni Settanta in qualcosa di politicamente solido, strutturato e duraturo.
L’istituzione delle Regioni creò più problemi di quanti ne risolse e «per il Mezzogiorno la regionalizzazione ha costituito un danno pressoché irreparabile». Dagli anni Settanta, poi, in Italia si realizzò «una democrazia assembleare così estesa da non avere riscontro in altri Paesi». Interessante ciò che Craveri dice circa il rapimento e l’uccisione di Moro (1978): la linea della fermezza adottata dai comunisti «si spiega soltanto con la necessità che essi avvertivano di respingere qualsiasi riconoscimento anche implicito delle Br come interlocutori politici, essendo a conoscenza della relazione che queste avevano con i sovietici». Anche se poi «non c’è alcuna considerazione plausibile che giustifichi il perché il Pci non abbia fatto nulla per salvare l’unico referente sicuro sulla scena politica per proseguire nella linea di collaborazione che avevano intrapresa, non avendo altra prospettiva politica». Acute sono le considerazioni di Craveri sull’assenza di aperture di Berlinguer a Craxi all’inizio degli anni Ottanta. E su quelle che Michele Salvati ha definito le «occasioni mancate» degli anni Novanta. Anni per i quali Craveri salva il governo di Giuliano Amato (di cui Ciampi sarebbe stato «debitore»).
Di Silvio Berlusconi dice che fu «un gestore solidamente agguerrito del potere anche se i suoi governi produssero pochi atti rilevanti». Ricorda che «consultava continuamente i sondaggi d’opinione e ne seguiva le indicazioni come i re e gli imperatori dell’età di mezzo facevano con gli astrologi». Tutto «filtrava per l’orecchio del capo, che era conforme a quello fattosi costruire dal tiranno di Siracusa Dionisio». All’inizio poté giovarsi di «un vecchio e astuto trasformista pugliese», Giuseppe Tatarella, e della «rozzezza pagana» di Umberto Bossi. In seguito si contornò di un personale politico «non all’altezza». E complessivamente non all’altezza dell’epoca storica successiva alla caduta del Muro di Berlino gli appare anche (con poche eccezioni) il ceto politico che a Berlusconi si è opposto. Mai si erano letti giudizi così spietati sugli ultimi settant’anni di vita politica italiana.

Bibliografia
Esce in libreria dopodomani, giovedì 20 ottobre, il saggio di Piero Craveri L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della Repubblica italiana (Marsilio, pagine 592, e 25), nel quale l’autore, professore emerito di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa, trae un bilancio critico dell’opera svolta dalla classe politica italiana dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri. Tra le storie dell’Italia dal 1945 in poi, quella di Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti (il Mulino, 1991) si concentra sulle dinamiche del sistema politico, mentre la Storia dell’Italia repubblicana di Silvio Lanaro (Marsilio, 1992) privilegia la dimensione economica e sociale. Da segnalare anche la Storia della Prima Repubblica di Aurelio Lepre (il Mulino, 2004) e due volumi di Guido Crainz editi da Donzelli: Il paese mancato (2003) e Il paese reale (2012).
«Corriere della sera» del 17 ottobre 2016

I conti con la storia e la scelta di abbattere la casa di Hitler

Adolf Hitler nacque a Braunau am Inn il 20 aprile 1889, figlio del doganiere Alois e della sua terza moglie Klara Pölzl: ora la casa dove visse per tre anni sarà abbattuta
di Sergio Romano
La distruzione della casa natale di Hitler a Braunau appartiene a una delle tradizioni meno nobili della storia umana. Posso immaginare che non sia piacevole per i 17.000 abitanti di questo piccolo centro dell’Alta Austria assistere di tanto in tanto al nostalgico pellegrinaggio di nazisti impenitenti. Il rischio esiste. Sappiamo che Jörg Haider, esponente di una destra che si definiva impunemente liberale, voleva organizzare a Braunau un congresso europeo e che vi sarebbe riuscito se Giovanni Malagodi, allora presidente dell’Internazionale liberale non glielo avesse impedito.
Ma i conti con la storia non si possono fare distruggendone le tracce. Non è lecito ricordare del passato soltanto le pagine più gradite e sopprimere quelle che sono motivo di imbarazzo e disagio. Hitler appartiene all’Austria. Gli anni passati a Vienna furono amari ma hanno formato la sua visione del mondo e i suoi gusti molto più di quanto sia accaduto a Monaco e a Berlino. Qui è nato il suo antisemitismo. Qui è stato trionfalmente accolto da una enorme folla plaudente nel marzo del 1938.
Paradossalmente la distruzione della casa di Braunau è stata decisa quando è nelle librerie da pochi mesi una nuova edizione del Mein Kampf; due volumi di grande formato che pesano cinque chili e contengono il testo di Hitler, una lunga prefazione (80 pagine), la lista delle traduzioni del libro in altre lingue, una bibliografia (122 pagine), cenni biografici sulle persone citate, un indice analitico (70 pagine), una documentazione iconografica sui luoghi abitati da Hitler negli anni in cui l’opera fu scritta, una sterminata bibliografia e 3.500 note.
Gli studiosi tedeschi non hanno bruciato le copie rimaste del libro di Hitler, come forse avrebbero fatto i distruttori della casa di Braunau. Hanno preferito seppellire l’autore sotto la pietra tombale della migliore filologia germanica.
«Corriere della sera» del 18 ottobre 2016