09 gennaio 2017

Educare, non solo istruire. Contro il buonismo di stato

Una emergenza nazionale
di Susanna Tamaro
Questa scuola sommamente democratica, che da troppo tempo ha smesso di pretendere, è una scuola sempre più classista. Chi può, infatti, già da tempo manda i figli negli istituti privati, se non all’estero; chi ha meno possibilità ma è consapevole della catastrofe, supplisce con l’impegno personale
Non so quanti spettatori abbia avuto il nuovo reality della Rai Il Collegio. Non essendo un’esperta di format non so dire quanto di quello che ho visto sia reale o sia invece frutto di una forzatura drammaturgica degli sceneggiatori. Certo che ad assistere alle prestazioni scolastiche di questo drappello di simpatici adolescenti c’è da rimanere davvero turbati. Davanti a una cartina muta dell’Italia, le Marche sono state scambiate per la Puglia e le città citate qua e là senza cognizione alcuna della loro reale posizione. Per non dire della lezione di storia, in cui i ritratti di Mazzini e Cavour risultavano praticamente sconosciuti ai più, o della lezione di matematica in cui un problema di quinta elementare degli anni 60 è stato risolto solo da una ragazza che ha ammesso di amare la matematica. Che questa non sia finzione ma triste realtà ce lo confermano le statistiche internazionali che ci hanno visto precipitare nelle graduatorie Ocse di due punti in un solo anno, relegandoci al 34° posto su 70 paesi. Ci difendiamo a stento nella matematica, mentre nel campo delle lettere e delle scienze l’ignoranza risulta pressoché assoluta. Del resto anche i dati nazionali ci confermano che il numero di persone capaci di leggere un testo e di capirne il significato sia calato di anno in anno in maniera esponenziale.
Si è parlato molto della Buona Scuola come di una riforma determinante, purtroppo — posto che tutte le riforme sono un segno di buona volontà e perfettibili — non sembra per il momento essere riuscita ad intaccare la degradata fossilizzazione del nostro sistema educativo. Introdurre i tablet, le mitiche lavagne interattive, facendo credere che l’àncora di salvezza stia nella modernizzazione informatica è un po’ come mettere del cerone su un volto ormai devastato dalle rughe. E inoltre, come ben spiega Adolfo Scotto di Luzio nel suo bel saggio Senza educazione, per non far sì che le nostre aule si trasformino in un museo del modernariato l’informatizzazione richiederebbe un enorme impegno economico, impossibile da sostenersi senza il contributo di realtà esterne.
È indubbio che il primo passo verso questo inarrestabile degrado sia da far risalire alla riforma compiuta negli anni ottanta del secolo scorso. Fu allora che la scuola elementare, in omaggio al mondo anglosassone, venne trasformata in primaria, avviandola verso una rapida «liceizzazione», abolendo l’insegnante unica per venire incontro ai sindacati, da sempre gli unici veri interlocutori del Ministero. Così i pensierini sono stati sostituiti dall’analisi del testo, la grammatica — «sul qui e sul qua l’accento non va», ricordate? — è stata rimpiazzata da schede prestampate; al posto delle ciliegie da sommare e delle torte da frazionare sono comparse le corrispondenze biunivoche e le entità equipotenti. Per non parlare del riassunto e del ripetere un testo a memoria: cancellati con un colpo di spugna in quanto richiedevano troppo sforzo. In un mondo che insegue ormai unicamente ciò che è fluido, l’idea che esistano dei principi fondanti nel sapere — gli elementi, appunto, cioè qualcosa di universale e stabile nel tempo — non può che venir considerata obsoleta e anacronistica.
Il disastro dei ragazzi che confondono le Marche con la Puglia, che scrivono, come mi è capitato di leggere in una tesi di laurea «s’eppure» oppure «io, vado, a casa,» e che davanti ad una foto di Mussolini balbettano incerti sul nome. «Maurizio?» e poi si giustificano dicendo, a pochi mesi dalla maturità, «veramente non l’abbiamo mai fatto…» è un disastro partorito da un sistema che, in nome del lassismo, della demagogia, del vivi e lascia vivere «tanto l’importante è il pezzo di carta», ha costantemente abbassato il livello delle pretese. È anche colpa di un sistema politico che ha sempre considerato il Ministero dell’Istruzione come un jolly da tirar fuori dal cappello nei momenti di bisogno, una botta ai sindacati, una botta ai concorsi, un po’ di fumo soffiato in faccia alle famiglie per mascherare che sotto il fumo non c’era nessun arrosto e avanti così, inventando pompose rivoluzioni che, alla prova dei fatti, si sono mostrate, per lo più, drastiche involuzioni. Delle famose tre «I» — Informatica, Inglese, Impresa — che cos’è rimasto? Aule intasate di computer obsoleti e generazioni di ragazzi che dopo tredici anni di studio della lingua e grammatica inglese sono totalmente incapaci di sostenere anche una minima conversazione dell’agognato idioma. La «I» di impresa non la cito neppure perché il più delle volte la sua stessa realizzazione è stata falciata sul nascere da una burocrazia ottusamente elefantiaca e dai capestri delle banche.
Diciamolo una volta per tutte. Questa scuola sommamente democratica, che da troppo tempo ha smesso di pretendere dai suoi studenti — e dunque di educare — è una scuola sempre più classista. Chi può, infatti, già da tempo manda i figli negli istituti privati, se non all’estero; chi ha meno possibilità ma è consapevole della catastrofe, supplisce con l’impegno personale — ripetizioni, corsi estivi, etc. Per tutti gli altri non c’è che la deriva del ribasso, l’andare avanti di inerzia con la costante consapevolezza che impegnarsi o non impegnarsi in fondo sia la stessa cosa.
L’educazione è la vera e grande emergenza nazionale. Non essere gravemente allarmati e non fare nulla per risolverla vuol dire condannare il nostro Paese ad una sempre maggior involuzione economica e sociale. Che adulti, che cittadini, che lavoratori saranno infatti i ragazzi di queste generazioni abbandonate alla complessità dei tempi senza che sia stato loro fornito il sostegno dei fondamenti? Sono stati cresciuti con il mito della facilità, del tirare a campare, ma la vita, ad un certo punto, per la sua stessa natura pretenderà qualcosa da loro e gli eventi stessi inevitabilmente li porranno davanti a delle realtà che di facile non avranno nulla. Allora, forse, rimpiangeranno di non vere avuto insegnanti capaci di prepararli, di educarli.
Già, educare! Termine reietto, spauracchio dell’abuso e della diseguaglianza. Non sarà per questo che in Italia il nostro Ministero, diversamente che in Inghilterra, è chiamato dell’Istruzione non dell’Educazione? Sono la stessa cosa? Non proprio, perché istruire - cito il dizionario della lingua italiana — vuol dire «far apprendere qualcuno le nozioni di una disciplina» mentre educare vuol dire «formare, con l’insegnamento e con l’esempio, il carattere e la personalità dei giovani, sviluppando le facoltà intellettuali e le qualità morali secondo determinati principi». Educare richiede l’esistenza di un principio di autorità, principio ormai scomparso da ogni ambito della vita civile. Chi educa oggi? Le poche famiglie che caparbiamente si intestardiscono a farlo si trovano a vivere come salmoni controcorrente. Il «vietato vietare», con la rapidità osmotica dei principi peggiori, ormai è penetrato ovunque, distruggendo in modo sistematico tutto ciò che, per secoli, ha costituito il collante della società umana.
Dalle maestre chiamate per nome, ai professori ai quali si risponde con sboccata arroganza, al rifiuto di compiere qualsiasi sforzo, all’incapacità emotiva di reggere anche una minima sconfitta: tutto il nostro sistema educativo non è altro che una grande Caporetto. Agli insegnanti validi — e ce ne sono tanti — viene pressoché impedito di fare il loro lavoro, anche per l’aureo principio, tipicamente italiano, per cui un eccellente ombreggia i mediocri che non vogliono essere messi in discussione nella loro quieta sopravvivenza. Abbiamo il corpo insegnante più anziano d’Europa, il gran caos demagogico dei concorsi ha paralizzato il naturale ricambio generazionale e la miserabile retribuzione della categoria ha trasformato l’insegnamento in una sorta di sine cura per molti.
In realtà insegnare è un lavoro altamente usurante, richiede energie enormi, intelligenza della mente e del cuore, passione per la materia e una visione costruttiva del futuro. Fin da subito dunque migliori risorse economiche andrebbero destinate proprio alla classe docente, cominciando a restituire agli insegnanti, oltre alla dignità, l’autorità necessaria per educare veramente le giovani generazioni. Solo così la scuola tornerà ad essere una possibilità di crescita offerta a tutti, e non solo ai pochi privilegiati che si possono permettere la fuga dal demagogico lassismo dello Stato.
«Corriere della sera» dell'8 gennaio 2017

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